Le armature dei Romani (VIII sec. a.C.-XV sec.). Da Romolo a Costantino XI

Quando pensiamo alle armature dei soldati romani, il primo pensiero va inevitabilmente alla lorica segmentata, la corazza a piastre metalliche del legionario iconico e, come ripetiamo sempre, spesso molto stereotipato.

Tuttavia, nei loro duemila e più anni di Storia, i Romani hanno in realtà prodotto, acquisito e indossato una gran quantità di tipi di corazze diverse – e la lorica segmentata, a parte non essere stata sempre uguale a se stessa, non è nemmeno la tipologia più utilizzata.

Senza la pretesa di essere esaustivo (sarebbe impossibile parlare, in un solo articolo, di tutte le fonti disponibili sul tema), con questo articolo vedremo una panoramica delle principali tipologie di armature indossate dai soldati romani nel corso dei secoli, dalla fondazione di Roma alla caduta di Costantinopoli.

[Leggi anche Le spade dei Romani. Un breve excursus (VIII sec. a.C. – XI sec. d.C.)]

[Leggi anche Gli scudi dei Romani (VIII sec. a.C. – XV sec.)]

Un articolo in collaborazione con Res Bellica, che ringrazio per l’utilizzo delle immagini delle repliche delle armature riferite all’evo antico.

NB: in questo articolo, non sarà trattato il tema di eventuali protezioni imbottite che spesso venivano indossate sotto l’armatura (note modernamente come subarmalis), né delle armature imbottite vere e proprie. Sarà probabilmente tema di un breve articolo apposito.

Le prime armature romane: i pettorali laziali (VIII-VII sec. a.C.)

Usando ovviamente la dovuta cautela, sia per le prime armature romane che per quelle del primo periodo repubblicano, possiamo (e spesso dobbiamo, quando le testimonianze sono carenti) guardare anche al mondo etrusco e al resto dell’Italia antica, cercando naturalmente di fare i dovuti distinguo e di non fare un “calderone” di tutte le evidenze disponibili.

Per identificare le prime armature romane, possiamo fare riferimento sia ai ritrovamenti archeologici effettuati a Roma (es. necropoli dell’Esquilino) che a quelli relativi all’Etruria meridionale e alla cultura villanoviana – della quale la cultura laziale costituisce, di fatto, una propaggine meridionale.

Si tratta dei “pettorali laziali”, suddivisi in due tipologie: il tipo A, di forma circolare con due tagli concavi che probabilmente sono posizionati, quando indossato il pettorale, sui lati; e un tipo B, di forma subrettangolare, con i lati lunghi leggermente curvi.
Questo tipo di pettorale può essere singolo oppure in coppia, fornendo protezione sia al torace che alla schiena.

Esempi di pettorale laziale tipo A

Realizzati in bronzo e spesso decorati a sbalzo, questi pettorali sono portati in due possibili modi, testimoniati da evidenze iconografiche più tarde per simili tipologie di armature: fissati al corpo per mezzo di una o due cinghie, oppure forse cuciti su un corpetto in materiale deperibile (imbottito o in cuoio).

Replica di un pettorale laziale tipo A, realizzata da Res Bellica

Anche se ben diversi dai loro corrispettivi di epoca repubblicana, queste armature rientrano nella categoria denominata, in greco, cardiophylax (lett. “protezione per il cuore”), e in quella che in latino è probabilmente definita pectoralis e spongia pectoris.

A questo periodo è anche ascrivibile una corazza (se di un’armatura si tratta) estremamente particolare, proveniente da Narce e oggi conservata presso il Museo dell’Università di Philadelphia: si tratta di un vero e proprio “poncho” in lamina di bronzo decorata a sbalzo.
Se anche i vicini Romani usassero una corazza di questo tipo è difficile da stabilire, vista l’unicità del pezzo.

Il “poncho” bronzeo da Narce.

Con l’inizio della fase orientalizzante, ai dischi corazza – che, in altra forma, saranno usati ancora molto a lungo nell’esercito romano – si iniziano ad affiancare corazze di tradizione ellenica…che però, come altri elementi della panoplia greca, sono spesso rivisti e reinterpretati in base ai gusti e alle esigenze di combattimento dell’Italia antica.

[Leggi anche La scherma dei Romani (VIII sec. a.C. – XV sec.). (I) Armi e tecnica]

Le armature a corsaletto con spallacci (tube and yoke armours) e le corazze anatomiche (VI-III sec. a.C.)
Adozione e reinterpretazione delle armature di tradizione ellenica.

Con la fase orientalizzante e l’inizio dei contatti più intensi con il mondo ellenico, anche nella penisola italica vengono introdotte armature sviluppatesi in Grecia.

Nella maggior parte dei casi, per seguire il loro probabile uso nel mondo romano vanno però prese in considerazione, con la dovuta cautela, fonti che in realtà hanno maggiormente a che fare con il mondo italico ed etrusco.

Una di queste è quella conosciuta in inglese come tube and yoke armour, definita più precisamente in italiano dal dott. Corrado Re come “armatura a corsaletto con spallacci”.
Si tratta di quelle armature oggi più comunemente note come linothorax (quando composta in lino in più strati, se cucito o incollato è ancora dibattuto) e spolàs (quando realizzata in cuoio). Tramite sistemi di anelli e lacci, il corsaletto di queste armature è chiuso sul fianco sinistro, mentre gli spallacci, attaccati alla schiena, sono allacciati sul torace.

Ricostruzione di una corazza a corsaletto e spallacci in cuoio, realizzata da Res Bellica

Il mondo dell’Italia antica, e in particolare il contesto etrusco, ci forniscono diverse variazioni di questo tipo di armatura, che per esempio può essere realizzata a bande, presentarsi come un’armatura trapuntata o avere delle parti ricoperte in squame metalliche, come i fianchi o l’addome (quest’ultima caratteristica, presente anche nel mondo greco).

In particolare, proprio dall’ambito etrusco si hanno attestazioni di armature a corsaletto e spallacci totalmente ricoperte di scaglie e, caso veramente unico, di costruzione lamellare (rappresentata dal Marte di Todi, datato tra V e IV sec. a.C.), entrambe tipologie di armatura di provenienza orientale.

Ricostruzione di un oplita etrusco con armatura a corsaletto e spallaci interamente ricoperta di scaglie, a cura di Res Bellica.

Un necessario distinguo: noi tendiamo spesso a confondere armature lamellari e a scaglie, mentre gli antichi chiamavano squama (o lorica squamata) entrambi i tipi.

Si tratta però di tipologie molto diverse: mentre le corazze a scaglie presentano delle file di squame che si sovrappongono dall’alto in basso, e che hanno necessariamente bisogno di un supporto sul quale essere cucite, le armature lamellari si sovrappongono usualmente invece dal basso verso l’alto (anche se il Marte di Todi sembra fare eccezione) e, soprattutto, hanno una struttura “autoportante”.
Ogni fila di lamelle è infatti collegata a quella superiore e inferiore, non rendendo necessario un supporto in materiale organico sottostante sul quale cucirle.

Dettaglio della corazza, quasi certamente lamellare, del Marte di Todi.

Le armature a scaglie romane – che vedremo saltuariamente nel corso dell’articolo -, che probabilmente saranno usate con una certa regolarità solo a partire dalla tarda repubblica e dal periodo del Principato (e in forma di corpetto, senza spallacci), sono usualmente caratterizzate dal fatto di avere le squame collegate tra loro tramite del filo metallico, per poi essere legate al supporto sottostante tramite laccetti di cuoio.

Col passare del tempo, le corazze a corsaletto e spallacci diventano sempre più uno status symbol, sul modello delle rappresentazioni di Alessandro il Grande, e quasi certamente già a cavallo tra IV e III secolo sono appannaggio di ufficiali e consoli.

Lo stesso si può dire per un altro tipo di corazza che proviene dal mondo greco e che viene spesso elaborata in forme diverse nell’ambito italico, ovvero la corazza anatomica (oggi impropriamente conosciuta anche col neologismo lorica musculata), che si diffonde anche in quanto probabile simbolo di Eracle.

Come suggerisce il nome, queste armature sono modellate sull’anatomia umana, presentando una muscolatura più o meno accentuata e realistica (anche se nei primi modelli, le cosiddette “armature a campana”, l’anatomia è molto stilizzata), e presentano vari sistemi di chiusura, che ne hanno permesso una classificazione anche su questa base in anni recenti – con lacci, con perni e cerniere o con entrambi i metodi.

Un altro tipo di classificazione è basato anche sulle forme e sull’anatomia della corazza, ma è un tema troppo specialistico per trattarlo in questo articolo.

Anche se doveva essere un modello di corazza favorito e utilizzato grossomodo a partire proprio dai modelli greci, in Italia (e forse in ambito romano) si riscontrano alcune peculiari trasformazioni e adattamenti.

Un primo esempio, più antico, è quello rappresentato dalla splendida panoplia del guerriero di Lanuvio, datata al V sec. a.C.
Si può ben notare come la corazza sembri “incompleta”, poiché la parte frontale si ferma alle clavicole ed è collegata alla schiena tramite due strisce metalliche.

La corazza del “guerriero di Lanuvio”

Questo ricorda molto il secondo adattamento delle armature anatomiche, tipico del Sud Italia, costituito dalle cosiddette “corazze corte”: la rappresentazione anatomica è limitata a due piastre rettangolari o quadrate poste sul petto e sulla schiena del guerriero, mentre la protezione dell’addome poteva essere garantita da un cinturone metallico, tipico però soprattutto delle popolazioni sabelliche (es. Sanniti, che sappiamo adottano anche la celebre corazza trilobata, che possiamo definire una variante delle corazze corte).

Replica di corazza corta, realizzata da Res Bellica

La corazza anatomica, nella sua forma vera e propria, proprio come l’armatura a corsaletto e spallacci diventa ben presto uno status symbol nel mondo romano, appannaggio anche questa di ufficiali e comandanti – e resterà pressoché tale, e in uso, fino alla tarda antichità e alle soglie del medioevo, facendo di questa armatura, almeno come tipologia, una delle più longeve del mondo romano.

Replica di armatura anatomica, a cura di Res Bellica.

Se nel periodo regio e primo repubblicano le corazze a corsaletto e spallacci e anatomiche dovevano essere diffuse nelle prime classi dell’esercito, quelle più facoltose, il resto dei soldati romani quasi certamente indossava invece un tipo di armatura propriamente italica, derivante dalle piastre pettorali del periodo più arcaico. Un tipo di armatura che avrà davvero una lunga vita.

Il cardiophylax o spongia pectoris. Il disco-corazza del legionario repubblicano (VI-II sec. a.C.)

Abbiamo già introdotto le piastre pettorali con il periodo più arcaico della Storia romana.

Particolare fortuna avrà il modello tondo, utilizzato nel periodo regio e primo repubblicano probabilmente dai guerrieri appartenenti alla terza classe e a quelle inferiori. Da questo modello spariranno gli incavi laterali tipici dei modelli più antichi.

Per quanto fornisca una protezione molto essenziale e minima, che però ben si presta a un combattimento veloce, aggressivo e dinamico come quello del legionario repubblicano (specie quello della media repubblica), questo tipo di corazza avrà una vita davvero molto lunga.

[Leggi anche Il legionario repubblicano. Un combattente individuale]

Ricostruzione dell’autore di un legionario romano a cavallo del III-II sec. a.C.
Cardiophylax realizzato da Res Bellica, gladio ispanico ed elmo Montefortino a cura di Res Bellica.
Ph. Martina Cammerata

Infatti ancora Polibio la descrive ancora alla metà del II sec. a.C., indossata dai legionari, e questo è confermato anche reperti archeologici rinvenuti nel campo militare romano di Numantia, assediata nel 133 a.C.

Per via di alcune traduzioni ed errate interpretazioni moderne del testo di Polibio, ancora oggi spesso questa piastra viene immaginata e rappresentata quadrangolare.
Tuttavia la terminologia di Polibio, che parla di una lastra di bronzo di una spanna (ca. 20 cm) pante pantòs, ovvero “tutt’intorno”, lascia abbastanza chiaramente a intendere una forma circolare – come del resto confermano proprio i reperti di Numantia.

Un altro nome di questa protezione pettorale che emerge delle fonti latine, anche se riferito ad armature sannite, è spongia pectoris, che però non è riferito forse alla piastra di metallo quanto a un elemento sottostante, in materiale organico (un’imbottitura o forse un corpetto, in cuoio o feltro), aggiunto probabilmente nel periodo tra il IV e il III sec. a.C.

Cardiophylax/spongia pectoris da Numantia

Proprio in questo periodo, al cardiophylax si affianca un’altra armatura, che per via dei suoi alti costi ci metterà molto a essere adottata in grandi numeri dai legionari romani ma che, alla fine, diventerà l’armatura (nelle sue varie forme) da loro più utilizzata, fino al XV secolo: la cotta di maglia.

La cotta di maglia. Un’invenzione celtica

A partire dal IV sec. a.C., quando entrano in contatto con i Galli, i Romani fanno la conoscenza di un nuovo tipo di armatura, sviluppata proprio in ambito celtico: la cotta di maglia, quella che è probabilmente l’armatura metallica più versatile e longeva della Storia.

[Leggi anche A Roma dai Celti. Gli apporti celtici all’arte della guerra romana.]

Che sia un’invenzione celtica ci è detto chiaramente dai Romani. Lo storico e grammatico Varrone infatti la chiama proprio gallica (sottintendendo “lorica“), e questo è l’unico vero nome che sappiamo per questo tipo di armatura, almeno per quanto concerne il periodo repubblicano.

Ricostruzione di una cotta di maglia gallica, a cura di Res Bellica

I termini modernamente usati di lorica hamata e, più raro, lorica catena, sono in realtà neologismi, che prendono spunto dalle fonti antiche ma non sono mai attestati in queste forme.

Da quanto ne sappiamo, all’inizio queste armature, composte da una trama di anelli intrecciati tra loro (lo schema più usuale è quello “4 in 1”), ricalcano proprio la forma delle armature a corsaletto con spallacci, con un corpo tubolare e due spallacci che si fissano sul petto.
Ogni spallaccio è dotato di un “bottone”, al quale si aggancia una barra metallica (in seguito, due ganci) fissata sul petto dell’armatura.

Ricostruzione di un legionario, o di un ausiliario, della seconda metà del I sec. d.C., a cura di Res Bellica

A livello archeologico, sappiamo che i primi esemplari, e in molti casi fino al pieno III sec. a.C., hanno anelli semplicemente accostati – il che significa, l’anello è “chiuso” semplicemente accostando le due estremità del pezzo di filo metallico che lo compone. Questo però comporta che gli anelli della cotta di maglia, per quanto sempre ben resistenti ai colpi di taglio, sono sempre molto proni ad aprirsi.

Tuttavia, ben presto viene introdotto anche l’anello rivettato: le due estremità dell’anello vengono sovrapposte, schiacciate tramite martellatura, e la superficie schiacciata viene forata e fissata con un piccolo ribattino.
Un lavoro che spiega come mai la cotta di maglia ci abbia messo tanto ad affermarsi presso i Romani.

Questi ultimi, almeno usualmente, rivettavano solo un anello ogni quattro, ricavando gli altri, totalmente “pieni”, punzonando una lastra, come dimostrato dalle analisi degli anelli di cotte di maglie più tarde. Un’operazione forse pensata per sveltire il lavoro di produzione, abbattendo i costi.

Anche se vengono a conoscenza di questa armatura a partire dal IV sec. a.C., infatti, ancora circa alla metà del II sec. a.C. la cotta di maglia è appannaggio pressoché esclusivo dei legionari più facoltosi e dei triarii, come descrive Polibio.
Il resto dei legionari della media repubblica, finché la cotta di maglia non prende gradualmente il sopravvento, forse diventando più accessibile, è come già visto indossa invece il cardiophylax/pectoralis tondo in bronzo di matrice italica.

Tuttavia, nel giro di breve tempo (probabilmente proprio già durante la seconda metà del II sec. a.C.) la cotta di maglia diventa l’armatura quasi esclusiva delle legioni romane

Col passare del tempo, la forma della cotta di maglia si semplifica, diventando una sorta di corta “tunica”, dotata di corte maniche e senza gli spallacci – una forma che è senz’altro già ampiamente diffusa, e probabilmente già da tempo, all’inizio del II sec. d.C., come mostrano chiaramente la Colonna Traiana e le metope del Tropaeum Traiani di Adamclisi.

Metopa dal Tropaeum Traiani di Adamclisi (Romania)

Da quanto si riesce a evincere dai reperti, la cotta di maglia non resta uguale a sé stessa non solo per la forma, ma anche per il suo peso e la sua flessibilità.
Le cotte di maglia più antiche hanno usualmente anelli più grandi e una struttura più rigida, mentre le cotte di maglia del Principato sono piuttosto leggere e flessibili, con anelli molto piccoli (tra i 4 e i 6 mm di diametro).

Come vedremo, la cotta di maglia resta probabilmente il tipo di armatura più utilizzato dai Romani, dal periodo repubblicano in avanti.

Tuttavia, per quanto concerne il periodo del Principato, nel nostro immaginario usualmente c’è poco spazio per questo tipo di protezione, insieme alla corazza a scaglie, usata meno di altre tipologie fino a questo momento ma mai scomparsa.

Entrambi i tipi infatti sono usualmente oscurati, seppure dovevano essere ben più usati e diffusi, dall’iconica lorica segmentata.

Corazza a scaglie dai cd. “Trofei di Mario”, in realtà di epoca domizianea (Roma).

La lorica segmentata. Un’armatura iconica (I-III sec. d.C.)

La cd. lorica segmentata è senz’altro l’armatura più iconica dell’esercito romano, per quanto non goda della longevità di altri tipi – pur venendo comunque usata, nelle sue varie evoluzioni, per tre secoli.

Non conosciamo il nome latino che i Romani davano a questa armatura – i termini lorica segmentata e lorica laminata sono infatti dei neologismi tanto quanto lorica hamata per la cotta di maglia.
Ne conosciamo tuttavia il probabile nome in greco, ovvero klibanion – che non solo è associato anche a truppe pesanti di tutt’altro tipo, come i clibanarii, ma, come vedremo, tornerà anche in seguito, molti secoli dopo, per definire altri tipi di corazze.

[Leggi anche Catafratti e clibanari. Qual è la differenza?]

Non è ancora del tutto chiarito come origini questa armatura.
Parti di armature a bande metalliche, anche se usualmente a copertura delle braccia, sono già attestate sia nella manualistica ellenica del IV sec. a.C. (es. Senofonte) che dall’iconografia ellenistica, con particolare riferimento al mondo seleucide, del II sec. a.C.

La più recente ricostruzione grafica di una delle due corazze da Kalkriese

Se almeno il concetto di questo tipo di corazza è probabilmente orientale, l’ipotesi più probabile resta, al momento, quella avanzata dal prof. Brizzi, che vede la nascita della lorica segmentata vera e propria alla fine del I sec. a.C., quale risposta alla necessità di affrontare meglio le armi da tiro, in particolare le frecce dei Parti – Cicerone già in una lettera del 50 a.C. esprimeva il bisogno di trovare un’armatura adatta ad affrontare i Parti (contra equitum Parthum […] ullam armaturam, ovvero “contro i cavalieri Parti […] [bisogna inventare] una qualche armatura”).

Nonostante la probabile origine sui fronti orientali, l’indubbia altissima efficacia difensiva di questa corazza la fa ben presto diffondere anche all’altro estremo dell’impero.
I reperti più antichi a nostra disposizione sono infatti quelli provenienti da Kalkriese, in Germania, usualmente connessi alla battaglia di Teutoburgo, e che quindi permettono di dare un termine post quem sicuro per l’adozione della lorica segmentata – che senz’altro è sviluppata in un qualche momento tra il 50 a.C. e il 9 d.C.

Nel corso dei suoi tre secoli di utilizzo, la lorica segmentata vede ben pochi grossi cambiamenti nella forma, più che altro riferibili ai sistemi di chiusura e di allaccio delle varie componenti, oltre che alla forma delle cerniere degli spallacci, realizzate in bronzo.

A proposito dei materiali: la lorica segmentata è realizzata sempre in acciaio, con alcune eccezioni in bronzo.
Ancora dibattuto è l’utilizzo di armature a bande in cuoio (non riconducibili però ai modelli metallici delle loricae segmentatae), ma dei materiali alternativi all’acciaio avremo modo di parlarne in un futuro articolo dedicato.

Tornando alle forme delle armature, se le tipo Kalkriese (i nomi delle tipologie si riferiscono ai primi luoghi di rinvenimento) presentano infatti un sistema di chiusura delle bande per il torso tramite fibbie, le tipologie Corbridge (I-II sec. d.C.) mostrano invece un sistema costituito da un laccio passante per dei gancetti in bronzo rivettati alle lamine.
Cambia inoltre il sistema di fissaggio del torso agli spallacci (chiusi e collegati tra loro, usualmente, con fibbie e cinghie): se nei tipi Kalkriese e nel modello Corbridge A petto e spalle sono fissate con un sistema di fibbie, il tipo Corbridge B prevede un sistema totalmente metallico, costituito da ganci.

Una metodologia che anticipa il metodo di chiusura dei tipi più tardi, come il tipo Newstead (II-III sec. d.C.), che prevede solo ganci in tutti i suoi sistemi di chiusura – cosa che la rende un’armatura probabilmente più difficile da “aprire” e penetrare, ma al contempo anche più rigida.

Nonostante la sicura efficacia di questa tipologia di corazza, che grazie alle sue piastre metalliche è estremamente efficace sia contro colpi di taglio che di punta, nonché contro armi da tiro, non è ancora noto il motivo per cui, alla fine del III sec. d.C., venga abbandonata e non più usata dai Romani – al contrario di cotte di maglia e corazze a scaglie.

Le ipotesi in merito sono molteplici, e penso convenga prendere in considerazione almeno due strade.
Da una parte, possiamo forse considerare un costo di produzione non indifferente, che nel contesto della riorganizzazione della produzione degli armamenti, che da Diocleziano in poi sono prodotti solo dallo Stato, avrebbe una sua logica – ed è probabilmente il motivo per cui vengono favoriti anche elmi con la calotta realizzata in più pezzi e di forme più semplici, altrettanto efficaci al loro scopo ma più economici da produrre.

Secondariamente, dobbiamo tenere in considerazione tutto il cambiamento al quale va incontro l’armamento romano tra III e IV secolo.
Elmi e corazze del III secolo, e in particolare le loricae segmentatae, esasperano la protezione fornita dai modelli precedenti ma allo stesso tempo, forse, aumentano troppo il peso dei pezzi e non garantiscono una versatilità nel tipo di operazioni e combattimento necessari nel contesto del IV secolo.

Al netto di quest’ultima considerazione (una mia ipotesi personale), il fattore economico è probabilmente quello fondamentale per comprendere uno dei probabili fattori che hanno portato, con la tarda antichità, all’abbandono della lorica segmentata – ma non di altri elementi a segmenti.

Manicae e cosciali segmentati (II-V sec. d.C.)

Parlando di armature romane, è d’obbligo fare almeno un accenno alla manica segmentata, che associamo in modo molto netto con le guerre daciche di Traiano.

L’uso da parte dei legionari romani in effetti data quasi certamente al II sec. d.C., ma è anche vero che tale tipo di protezione era già nota in precedenza: sia, come abbiamo accennato, nel mondo ellenico ed ellenistico, sia nell’ambito gladiatorio, dal quale è probabilmente passata in modo più o meno diretto a quello militare.

Almeno da quanto si può ricostruire dai reperti, la manica, realizzata in ferro o bronzo e che arriva a coprire anche parte del dorso, viene attaccata all’armatura o a un indumento sottostante, e poi fissata al braccio tramite cinghie. La manica può avere una lunghezza variabile, arrivando a includere solo il gomito o ricoprendo l’intero braccio fino alla spalla.

A partire probabilmente dal III sec., su modello delle cavallerie pesanti orientali, anche i catafratti e soprattutto i clibanari romani iniziano ad adottare anche protezioni segmentate per gli arti inferiori – questo, almeno, sulla base della descrizione dei clibanari di Costanzo II riportata dall’autore di IV sec. Ammiano Marcellino.

L’uso di maniche segmentate ancora nella tarda antichità sarebbe poi segnalato dalle miniature presenti sulle copie della Notitia Dignitatum, dove compaiono in mezzo ad altri armamenti prodotti dalle fabricae imperiali. Dopo il V sec., probabilmente le protezioni a segmenti, da quanto si può ricostruire, scompaiono.

Replica di manica segmentata, a cura di Res Bellica

Le armature della tarda antichità (fine III-VI sec.)

Nella tarda antichità, tolto l’abbandono della lorica segmentata, si assiste sostanzialmente a una prosecuzione di utilizzo delle armature già ben attestate in precedenza, in particolare le cotte di maglie e le corazze a scaglie – che, seppure abbiamo visto abbastanza poco fino ad adesso, in realtà hanno continuato a venire utilizzate in modo ininterrotto.

Al contrario di quanto si crede ancora adesso, i soldati romani non fanno meno uso di armature o elmi rispetto a prima. Si tratta di un preconcetto che ci viene dall’Epitoma rei militaris di Vegezio, autore del V secolo che, pur essendo una fonte molto preziosa per la tarda antichità, rimpiange in tempi andati.

Soldati con corazze a scaglie lunghe dall’arco di Galerio, eretto nel 297 d.C.

In un suo famoso passo, Vegezio lamenta che gli eserciti del suo tempo rifiutano spesso di portare elmi o armature, avendo abbandonato l’antica disciplina militare.
Un dato che però non solo è confutato in modo inequivocabile dalle altre fonti disponibili, ma che va correttamente letto nel suo contesto storico.
Vegezio si sta infatti probabilmente riferendo (esagerando e riportando la cosa come una questione generale) soprattutto alle nuove unità di Goti arruolate tra la fine del IV e l’inizio del V sec., che in effetti da altre fonti sappiamo non essere sempre state molto disciplinate – anche se in gran parte si integreranno nel sistema militare romano.

[Leggi anche I Goti di Teodosio. Il “sepolcreto delle milizie” di Concordia Sagittaria.]

Dalle armature a “tunichetta” del II sec. d.C. (o anche a corpetto, nel caso della lorica squamata), si è ormai però giunti ad avere delle armature, di entrambe queste tipologie, molto più coprenti, che arrivano fino al ginocchio e che proteggono fino al gomito o, nel caso di alcune cotte di maglia, fino al polso.

Le cotte di maglia del periodo tardo antico, almeno dall’analisi compiuta sulla ricostruzione dei reperti disponibili, si presentano usualmente come più rigide, spesse e pesanti di quelle del Principato, anche se si può notare un ritorno a una certa flessibilità e minor peso con il VI secolo.

Legionari del IV sec. con lunghe cotte di maglia. Ricostruzione a cura del gruppo Numerus Italorum.
Ph. Martina Cammerata

A queste armature molto coprenti, più tipiche della truppa, si contrappone un modello di armatura noto come lorica minor, attestato per esempio in alcune lettere dell’imperatore Giuliano il Filosofo (o l’Apostata).
In questo caso la corazza, concessa a soldati decorati o particolarmente valorosi, ricalca modelli più antichi e quelli ancora indossati dagli ufficiali di questo periodo storico: l’armatura vera e propria è a corpetto, ovvero una lorica squamata o, probabilmente in casi più rari, una corazza anatomica, indossata insieme a un subarmalis dotati di pterugi.

Nel corso del VI sec., tuttavia, almeno a livello iconografico si può notare come quella che sarebbe stata definita lorica minor nel IV sec. sembra ormai aver perso la sua valenza: si nota infatti un uso molto più generalizzato e diffuso di questo “modello” anche in raffigurazione che, senza ombra di dubbio, mostrano soldati semplici.

Legionario romano di IV-V sec. in lorica minor. Ricostruzione a cura del gruppo Numerus Italorum.
Ph. Erika Mionetto

Anche se spesso ci è difficile associarla alla tarda antichità, la corazza anatomica sopravvive in realtà anche in questo periodo, ma detiene, come già dal periodo medio repubblicano, il ruolo di status symbol: è infatti una corazza che, nelle fonti iconografiche, si vede usualmente (anche se non esclusivamente) indossata da figure imperiali o, nell’iconografia del VI-VII secolo, da figure della mitologia classica (es. Achille) o legate all’ambito veterotestamentario (es. Giosuè) e cristiano in genere (es. santi guerrieri).

Il cd. Colosso di Barletta, statua probabilmente del V sec. d.C. raffigurante un imperatore in armatura anatomica

Realisticamente, una corazza di questo tipo viene indossata principalmente dagli ufficiali di più alto rango e dall’imperatore.

Cotte di maglia e corazze a scaglie continuano a essere utilizzate in maniera ininterrotta anche durante i secoli successivi, ma a queste nel VI sec. si affianca, per via del contatto con il mondo àvaro, un nuovo tipo di armatura, che poi i Romani, come spesso è accaduto nel corso della loro Storia, affineranno e renderanno caratteristica e peculiare del loro equipaggiamento militare: l’armatura lamellare.

L’armatura lamellare (VI-XII sec.). Dai modelli àvari al klibanion

Abbiamo visto che, nel IV sec. a.C., i Romani già probabilmente conoscevano la costruzione di tipo lamellare, ma questa non sembra avere seguito.
Sappiamo poi che è conosciuta anche nel III sec. d.C., come testimonia almeno una fonte iconografica (però non propriamente romana) e alcune isolate evidenze archeologiche.
Tuttavia, i Romani non adottano mai in modo continuativo le corazze lamellari, che restano un’eccezione nel panorama delle loro armature.

Questo cambia con la seconda metà del VI sec. d.C. e l’entrata in contatto con gli Àvari, che usano massicciamente armamenti di tipo lamellare – particolarmente i cavalieri. Non dobbiamo però escludere che già il contatto con popolazioni come quelle degli Unni Utiguri e Kutriguri abbia contribuito all’acquisizione di questa tipologia di armatura.

Dettaglio dell’armatura del cavaliere rappresentato sul piatto di Isola Rizza

Nel VI-VII sec., i Romani non hanno un nome specifico in latino per questa armatura – se non quasi certamente, proprio come per la corazza a scaglie, lorica squamata (o squama, come chiamata da Isidoro di Siviglia).
Ne conosciamo tuttavia il nome in greco, zava, che viene latinizzato in zaba, come si ritrova nelle Novelle di Giustiniano – contrapposto a lorikion, che anche nei secoli successivi è il termine (ovviamente derivante dal latino lorica) per indicare la cotta di maglia.
Siamo pressoché certi che zava indichi corazze lamellari e a scaglie per via delle descrizioni dello Strategikon, che riferisce che queste armature luccicano al sole – cosa che, per una cotta di maglia, non è invece sempre possibile, ed è anzi un’occorrenza abbastanza rara, se gli anelli non sono piatti.

Ricostruzione grafica di una tipica corazza lamellare del VI-VII secolo

Bisogna tuttavia notare che zava, nei secoli tra il IX e l’XI, passi invece a indicare delle pezze di (probabilmente) cotta di maglia, quando a volte non l’intera armatura.

Da quanto si può ricostruire dalle fonti iconografiche e archeologiche, la corazza lamellare tipica del VI e VII secolo è costituita da un corpetto e una gonna a copertura delle cosce, nonché (anche se più raramente) da due spallacci, attaccati all’armature tramite fibbie o lacci, che proteggono il braccio fino al gomito.

A partire dal VI secolo, i Romani continueranno a produrre e utilizzare le corazze lamellari, arrivando col tempo a produrre loro propri modelli caratteristici, che si distaccano da qualunque altra tipologia.

Così si arriva a una delle corazze lamellari più sofisticate mai prodotte: il klibanion – parola che indica le lamellari nella terminologia moderna, poiché in epoca medievale il termine definiva anche le corazze a scaglie.

Per quanto ne esistano più modelli, che variano per forma di lamelle e tipo di allaccio delle stesse, di base tutti i klibanion sono caratterizzati dal fatto che le lamelle non sono sovrapposte tra loro, ma accostate, poiché ognuna è fissata a una singola banda di cuoio – un sistema che, per alcuni versi, ricorda molto le fasce di una lorica segmentata -, tramite lacci o rivetti.
Il klibanion è poi spesso dotato di spallacci metallici, maniche e una gonna, specie per i cavalieri.

Ricostruzione di klibania, a sinistra lamellare, a destra a scaglie. Ricostruzioni a cura di Hellenic Armors.

Per i catafratti del IX-XI secolo, almeno nei manuali militari il klibanion deve essere portato, oltre che sopra all’usuale indumento imbottito sotto l’armatura, anche ricoperto da un’ulteriore imbottitura, nota come epilorikion (di questo pezzo, così come del bambakion prescritto per la fanteria, come accennato all’inizio parleremo in un apposito articolo). Si tratta tuttavia di un uso che non sembra molto attestato al di fuori delle fonti scritte.

[Leggi anche La fanteria romana in epoca altomedievale (IX-XII sec.)]

Corazze a scaglie, lamellari nella forma del klibanion e cotte di maglia continuano a essere le principali armature più utilizzate dai Romani per tutti i secoli medievali, almeno fino al XIII-XIV secolo.

Con gli ultimi secoli dell’impero, si inizieranno sempre più spesso anche a utilizzare armature proprie delle realtà occidentali.

Le armature degli ultimi due secoli. Brigantine e armature a piastre (XIV-XV sec.)

Tracciare con precisione l’evoluzione delle armature negli ultimi secoli dell’impero diventa molto più complicato che per i secoli precedenti.

[Leggi anche Gli ultimi eserciti romani (XIII-XV sec.). Dalla Quarta Crociata alla fine dell’impero]

I motivi sono molteplici, e in particolare si possono segnalare una certa carenza di materiale a livello archeologico sicuramente attribuibile a truppe imperiali, sia perché spesso le fonti iconografiche disponibili mostrano pezzi di difficile interpretazione, a volte perché palesemente anticheggianti (es. nelle icone dei santi guerrieri).

Esiste tuttavia abbastanza materiale per farsi almeno un’idea delle armature dell’ultimo periodo.

Per certo si mantiene l’utilizzo secolare della cotta di maglia, che nelle forme probabilmente le tendenze che si notano anche in Europa occidentale – il cui influsso negli armamenti imperiali si fa molto forte -, e sembra in parte mantenersi, almeno per tutto il XIV sec., anche l’uso di corpetti in scaglie. Le armature lamellari sembrano invece farsi sempre meno presenti.

L’aspetto più probabile degli ultimi difensori di Costantinopoli (Illustrazione di Dušan Vasiljevic).

Sappiamo inoltre che sono esistite senz’altro protezioni in materiale organico, testimoniate come armature per i soldati della milizia all’ultima difesa di Costantinopoli del 1453 – non considerate, però, tra gli equipaggiamenti migliori disponibili.

Da quanto possiamo constatare, sia ha inoltre ben poca o nulla diffusione delle cosiddette mirror armour (o “krug“) utilizzate dagli Ottomani più facoltosi – che si possono descrivere come delle cotte di maglia che, al posto degli anelli, in molte parti cruciali, come il torso, presentano delle piastre metalliche.

Sono senz’altro diffusi, invece, modelli di armature all’occidentale, in particolare brigantine e armature a piastre – queste ultime, senz’altro appannaggio esclusivo di nobili e comandanti, visto l’alto costo che dovevano avere questo tipo di protezioni.

Almeno a giudicare dall’iconografia disponibile, sembrano venire favorite soprattutto armature “alla milanese”, che rispetto alle armature “gotiche” (o “alla tedesca”) presentano linee più morbide, meno spigolose, e non hanno le caratteristiche “carene” dei modelli tedeschi.

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