AD 472: il sacco di Roma

La seconda metà del V secolo, nella quale tra 476 e 480 si assiste alla fine del potere imperiale in Occidente, non fu sicuramente un periodo di lenta e inesorabile decadenza, come la classica narrazione storica dei fatti lascia a intendere.

Si trattò invece di un periodo turbolento e caotico, nel quale fino all’ultimo le lotte per il potere e per il mantenimento di ciò che rimaneva dello Stato romano nelle province occidentali (di fatto, Italia e Dalmazia) furono accese e spietate.

In questo scenario complicato si situa un evento stranamente dimenticato, nel contesto della lotta tra l’imperatore Antemio e il magister militum et patricius Ricimero: il sacco di Roma del 472, il terzo nel solo V secolo (dopo quello di Alarico del 410 e dei Vandali nel 455).

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Antemio e Ricimero: guerra fredda (468-472)

Dopo il fatale disastro della battaglia di Capo Bon, il già fragile rapporto tra l’imperatore Antemio e Ricimero si fece ancora più complicato. Nonostante fossero legati da vincolo matrimoniale – Ricimero aveva accettato di sposare la figlia di Antemio, Alipia –, i due probabilmente non erano legati che dal comune interesse di eliminare l’altro.

L’imperatore e il patricius non collaboravano affatto, e per un certo periodo semplicemente si tennero a distanza l’uno dall’altro: nel 470, a seguito della condanna a morte di un suo importante collaboratore (il magister officiorum Romano, accusato di aver tentato l’usurpazione del trono), Ricimero decise di ritirarsi a Milano, con 6000 uomini. Scontri veri e propri, a Roma, si limitarono a quelli tra i partigiani dell’uno e dell’altro contendente. In questa situazione di stallo, l’Italia si ritrovò divisa in due vere e proprie zone separate, con il nord governato da Ricimero e il resto dall’imperatore.

Antemio, nel frattempo, proseguiva nel suo tentativo di salvataggio del mondo romano in Occidente. Tra 470 e 471 organizzò una campagna militare contro i Visigoti, per riottenere il dominio della Gallia all’impero. Dopo una prima fase di successo, dovuta anche all’intervento del leader bretone (o britanno) Riotamo, la campagna si risolse tuttavia un disastro. Anche l’esercito inviato da Antemio nel sud della Gallia fu completamente sbaragliato dai Goti presso Arelate – tutti i comandanti dell’esercito, tra cui Antemiolo, figlio dell’imperatore, rimasero uccisi.

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Situazione approssimativa dell’impero romano nell’ultimo trentennio del V secolo.

Tra 470 e 471, la tensione tra Antemio e Ricimero andò aumentando, forse anche per l’estromissione del secondo dalla campagna contro i Visigoti – ammesso che il patricius non se ne fosse tenuto fuori di sua sponte. In questo periodo probabilmente iniziò a maturare in Ricimero l’idea di poter deporre Antemio: non solo perché la posizione di quest’ultimo era fortemente indebolita, ma anche perché l’imperatore orientale, Leone, quasi certamente non sarebbe potuto intervenire in suo aiuto (Leone in quegli anni stava portando a termine la lotta con Aspar e Ardabur da una parte, e doveva badare alle difficili relazioni con gli Ostrogoti dall’altra).

Da quanto sappiamo, nel 471 il vescovo di Pavia Epifanio tentò una mediazione tra i due rivali, recandosi prima a Milano e successivamente a Roma.

Anche se le parole riportate da Ennodio nella “Vita Epiphani” probabilmente non sono del tutto veritiere, ben riflettono probabilmente gli inconciliabili punti di vista dei due uomini. Nella fonte, significativamente sono indicati entrambi col titolo di princeps: in teoria, una prerogativa del solo imperatore.

Alla richiesta di Epifanio e della nobiltà milanese di appianare le divergenze con Antemio, Ricimero avrebbe risposto, tra le altre cose: “Chi può far tornare in sé quel Galata e imperatore concitato? Poiché, quando lo si prega per un favore, egli, che non controlla la sua ira con naturale moderazione, perde sempre il controllo”.

Quando Epifanio si recò poi a Roma per chiedere ad Antemio di riconciliarsi con Ricimero, facendo anche leva sui pericoli e le disgrazie che una nuova guerra avrebbe portato, l’imperatore avrebbe detto: “Santo vescovo, abbiamo ragioni di provare risentimento nei confronti di Ricimero. Gli abbiamo concesso i più grandi favori, ma tutti per nulla. Gli abbiamo persino permesso (non senza disonore, va detto, per il nostro trono e per la nostra linea di sangue) di unirsi alla nostra famiglia attraverso il matrimonio, cosa che abbiamo concesso per amore dello Stato anche se avrebbe portato vergogna su di noi. […] come Ricimero è stato ricoperto da noi dei più grandi doni, maggiore è apparsa la sua ostilità. Ha preparato la guerra contro lo Stato? Quanta furia ha acceso tra i popoli esterni? Infine, dove non poteva fare del male lui stesso, ha comunque causato problemi. Ora noi dovremmo garantire pace a quest’uomo? Dovremmo accogliere sotto il mantello dell’amicizia un nemico interno, quando nemmeno i legami di amicizia né di matrimonio sono stati in grado di fargli rispettare i patti?”

Nonostante le sue riserve, la diffidenza e l’aperta ostilità nei confronti del patricius, secondo Ennodio l’imperatore avrebbe accettato, seppur malvolentieri, un accordo con Ricimero. Tuttavia, il fatto che Epifanio non si sia recato nuovamente a Milano da Ricimero è probabilmente indicativo di una diversa realtà dei fatti. Il tentativo di riconciliazione tra i due era quasi sicuramente fallito, o al massimo si era raggiunta una fragilissima tregua.

Tuttavia tale tregua, se mai era stata davvero ottenuta, non durò.

Nel 472 (le cause scatenanti sono ignote, poiché le fonti non ne parlano in modo chiaro), Ricimero aprì infine le ostilità verso Antemio, e con il suo esercito marciò direttamente su Roma per sbarazzarsi dell’imperatore una volta per tutte.

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Moneta dell’imperatore Antemio.

L’assedio di Roma

Ricimero lasciò Milano per dirigersi su Roma, tra la fine del 471 e l’inizio del 472, con al suo seguito almeno i suoi 6000 uomini (non sappiamo se avesse intanto reclutato altri soldati). Antemio, a Roma, era sostenuto dal Senato e da parte della popolazione di Roma, ma purtroppo non sappiamo quanti soldati effettivi avesse a disposizione. Tra gli uomini di Ricimero vi era anche colui che, entro pochi anni, sarebbe diventato il protagonista della scena politica e reggitore dell’Italia: Odoacre.

Giunto nei pressi di Roma, Ricimero pose il campo lungo il Tevere, presso pons Anicionis; questo è un ponte non meglio identificato e al quale gli studiosi hanno dato varie attribuzioni, tra cui Ponte Salario e Ponte Milvio. Tuttavia, entrambi i ponti erano, all’epoca, piuttosto al di fuori di Roma.  Se pons Anicionis fosse davvero uno di questi due ponti, ciò non spiegherebbe come mai, nelle fonti, sia reso chiaro che “così [dopo che Ricimero si fu accampato] Roma era divisa” (anche se questo è forse riferito alle fazioni, e non fisicamente alla città), ma soprattutto il fatto che Ricimero avesse bloccato il Tevere e il suo porto fluviale – situato alle pendici dell’Aventino –, per constringere alla resa per fame Antemio e i suoi, che avevano probabilmente base sul Palatino (Giovanni di Antiochia riferisce semplicemente che questi “risiedeva nel palazzo”, un evidente riferimento al palatium imperiale).

Vista la probabile carenza di uomini a disposizione di Antemio, non reputo improbabile che Ricimero si sia potuto accampare ben più vicino all’Urbe (anche se l’assenza di fonti mi spinge a non azzardare ipotesi), se addirittura non vi era già entrato – anche se questa seconda ipotesi è decisamente più improbabile. Secondo Giovanni Malalas, Ricimero riuscì a porre il blocco a ogni ingresso e porto di Roma, controllando e impedendo l’ingresso e l’uscita.

Il blocco di Roma preoccupava seriamente l’imperatore in Oriente, che però era impossibilitato a intervenire per via della minaccia ostrogota. Leone decise così di inviare, in qualità di mediatore, Anicio Olibrio – che già qualche anno prima era stato il candidato di Ricimero per il trono d’Occidente, contrapposto ad Antemio –, il quale avrebbe dovuto poi proseguire verso l’Africa per stipulare un accordo di pace con i Vandali.

Dopo il suo arrivo, sappiamo dalle fonti che Olibrio però non rispettò affatto il mandato che gli era stato conferito: con la complicità di Ricimero, si proclamò imperatore in Occidente, e si pose direttamente contro il suo vecchio rivale alla porpora.

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Giovanni Malalas riporta degli interessanti dettagli in più sulla vicenda di Olibrio che, seppur forse non del tutto fondati, è interessante riportare, poiché fanno ben respirare il clima del periodo. Così lo storico antico: “Egli [Leone] inviò a Roma il patrizio Olibrio […]. Gli fu ordinato di far riconciliare l’imperatore Antemio e suo genero Ricimero, poiché erano entrambi senatori romani. Gli ordini di Leone erano: ‘Dopo che Antemio e Ricimero saranno nuovamente in amicizia, lascia Roma e va’ da Genserico il Vandalo […] poiché tu hai presso di lui libero accesso, siccome egli ha la sorella di tua moglie Placidia come sua sposa, e persuadilo a divenire mio alleato.’” Visto però che Leone sospettava che Olibrio avrebbe potuto passare con Genserico per ottenere la porpora a Costantinopoli, fece scrivere e inviare una lettera ad Antemio: “Leone scrisse tramite un magistrianus ad Antemio: ‘Ho messo a morte Aspar e Ardabur, così che nessuno possa opporsi ai miei ordini. Anche tu dovresti far giustiziare Ricimero, per impedirgli che ti comandi. Come vedrai, ti ho anche inviato il patrizio Olibrio. Giustizia anche lui e regna come uno che dà ordini, invece che come uno che li riceve.”

Sempre secondo Giovanni Malalas, la lettera fu però intercettata da uno dei vari blocchi posti a ogni porta di Roma e portata direttamente a Ricimero, il quale la mostrò direttamente a Olibrio. Il passo per far alleare i due fu a quel punto molto breve.

I rinforzi dalla Gallia e il sacco di Roma

A questo punto, le fonti descrivono due diversi interventi provenienti dalle Gallie, uno a favore di Antemio e uno di Ricimero.

Secondo Paolo Diacono, alla notizia dell’insurrezione di Ricimero, e dopo la proclamazione di Olibrio, il rector Galliarum Bilimero (forse un magister militum fedele ad Antemio) si affrettò a scendere in Italia per correre in soccorso dell’imperatore. Bilimero ingaggiò battaglia con Ricimero presso pons Adriani – quasi sicuramente nei pressi del mausoleo di Adriano, oggi Castel Sant’Angelo, e già allora fortificato –, ma venne sconfitto e ucciso.

Tuttavia, l’intervento di Bilimero è citato solo da Paolo Diacono. Le altre fonti sostengono che dalle Gallie arrivò ben altro esercito, ovvero quello guidato dal burgundo Gundobado, magister militum e nipote di Ricimero. Solo dopo il suo arrivo il patricius poté fare il suo ingresso a Roma. L’intervento di Gundobado non è menzionato da Paolo Diacono.

È possibile fare diverse ipotesi, per far collimare queste testimonianze apparentemente incongruenti. Per esempio, si può supporre che Bilimero sia calato in Italia per primo, seguito da Gundobado, il quale sarebbe quindi intervenuto come esercito di rinforzo di Ricimero durante lo scontro di pons Adriani. È altresì possibile il contrario: Gundobado potrebbe essere giunto per primo da Ricimero, e insieme i due avrebbero affrontato l’esercito successivamente calato dalle Gallie di Bilimero.

Quale che sia stata la reale sequenza degli avvenimenti, la cosa certa è che a un certo punto dell’assedio le forze di Ricimero vennero a battaglia con quelle di Antemio, sconfiggendole, e finalmente potendo entrare nell’Urbe.
Antemio, abbandonato dai sostenitori rimasti, cercò rifugio in un edificio sacro – le fonti sono molto discordanti sul luogo preciso, che viene per esempio indicato come la basilica di San Pietro o la chiesa del martire Crisogono –, ma ciò non lo salvò. Trovato dai suoi nemici, fu decapitato da Gundobado o da Ricimero stesso.

Iniziava il sacco di Roma, il quarto nella sua millenaria storia e il terzo nel solo V secolo.

Le fonti sono parche nei dettagli sul saccheggio, ma sappiamo che fu accostato da alcuni contemporanei al ben più famoso sacco di Alarico del 410. Paolo Diacono sintetizza così: “Non solo Roma era devastata dalla fame e dalle malattie che la affliggevano in quel periodo, ma fu anche gravemente saccheggiata, eccetto che nelle due regioni [della città] nelle quali era Ricimero con i suoi uomini. Il resto della città fu devastato dall’avidità dei saccheggiatori.”

Un’altra fonte, Cassiodoro, si limita a riferire che il tremendo sacco causò “grande distruzione”.

Roma, non più capitale effettiva ma comunque capitale spirituale e centro simbolico della romanità, era stata nuovamente messa in ginocchio.

Una vittoria di breve durata

Quasi per ironia della sorte, i due fautori del sacco di Roma del 472 ebbero ben poco tempo per godere della vittoria appena conquistata.

Ricimero fu il primo a morire, appena trenta o quaranta giorni dopo il sacco dell’Urbe, “vomitando una gran quantità di sangue”, nelle parole di Cassiodoro. Nessuna fonte si dilunga nell’interrogarsi se la morte di Ricimero sia stata sospetta o meno.

Olibrio, dal canto suo, non regnò che per sette mesi, morendo di cause naturali, e senza però effettivamente regnare: il vero potere era ora passato nelle mani di Gundobado, che addirittura proclamò il successivo imperatore-fantoccio, Glicerio, contro la volontà dell’imperatore Leone.

Gundobado, tuttavia, non si tratterrà molto in Italia. Egli tornò infatti tra i Burgundi, divenendone re fino alla sua morte nel 516, e lasciando campo libero (forse volontariamente) all’ultimo imperatore romano, de iure e de facto, in Occidente nel V secolo: Giulio Nepote.

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Bibliografia essenziale

MacGeorge P., “Late Roman Warlords”, Oxford 2003.MacGeorge P., “Late Roman Warlords”, Oxford 2003.

Roberto U., “Roma Capta”, Bari 2014.