La metà del VII secolo è per l’Impero Romano un momento di fermento e rinnovamento.
Ai suoi confini le popolazioni del barbaricum quali i Longobardi in Italia o gli Arabi a Oriente continuano la loro avanzata nei territori provinciali. Una spinta il cui rallentamento può dare solo qualche respiro alla macchina bellica imperiale.
Nel cuore dello stato invece accadono due importanti novità, per quanto circoscritte a questi anni: in primis il Senato Romano assume sempre più potere e prerogative legislative, esecutive e diplomatiche, in saecundis la pax religiosa di Eraclio riguardo le eresie viene a mancare e la Chiesa si frammenta.
Alla morte dell’augusto Costantino III, la vedova Martina aveva de facto preso le redini del potere in qualità di madre e nutrice del figlio non ancora pienamente pronto ad amministrare l’impero. La cacciata dei Romani dalla ricca provincia d’Egitto, la perdita dell’Armenia prima coll’usurpatore Sapor, poi a causa della conquista maomettana, i raid longobardi che rendevano sempre più precario l’equilibrio territoriale italico, avevano reso la situazione molto tesa. Occorreva agire in fretta.
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Il Senato di Costantinopoli
Il Senato decise in tal senso di non tergiversare e si mostrò propositivo come non accadeva dai tempi antichi, quando ancora poteva decidere le sorti della politica in concerto col sovrano e non assecondandone solamente i desideri.
Spinto forse dalle ambizioni personali dei singoli aristocratici che lo componevano, l’organo legislativo per eccellenza ordinò l’arresto di Martina e del suo figlio ed erede di Costantino, Eracleona.
Non solo: per estrometterli dalla vita pubblica si decise di mutilare madre e figlio, rispettivamente, cavando gli occhi e mozzando la lingua. Anche gli ultimi rampolli, Davide e Martino, subirono la medesima sorte. Teodosio, nato sordo, è invece risparmiato.
Si faceva così iniziare la tradizione romana che, con un regolamento di conti al vertice della piramide amministrativa, impediva l’eliminazione fisica di un rivale in modo scabroso, cioè tramite omicidi e congiure, macchiando l’imago potestatis.
Un assassinio era più vergognoso agli occhi dei sudditi rispetto ad un allontanamento, spesso in domicilio conventuale coatto. La menomazione fisica inoltre impediva che l’allontanato tornasse a inquietare i sonni dell’imperatore, giacché quest’ultimo ruolo, in quanto rappresentante dell’immagine divina pantocratrice, doveva essere perfetta, ergo esente da deformità naturali o apportate di sorta. Questo uso permarrà in seno alla corte e alla porpora romane per buona parte della storia costantinopolitana.
Infine il Senato, riprendendo l’arcaico istituto dell’interregnum, funse da reggente dello stato con una prerogativa politica che prima non aveva, in quanto al margine del potere politico quale appendice dell’augusta volontà. Per dirla con le parole del prof. Giorgio Ravegnani ne “Introduzione alla Storia Bizantina”, questo fenomeno è «(…) tipico del VII secolo e segna il periodo di maggiore fioritura dell’assemblea, in seguito tornata a funzioni puramente consultive». L’ultimo figlio di Costantino III, omonimo ma definitivamente soprannominato Costante, non regnerà che diversi anni dopo, ora è solo l’erede sotto reggenza. Nulla più.
La questione dell’eresia monotelita
Altra faccenda che costituisce premessa necessaria alla nostra storia è l’ennesima vexata quaestio che attanaglia il clero di tutto l’Impero: l’eresia monotelita. Durante il regno del nonno di Costante, Eraclio, si era proceduto a placare gli animi dei sudditi con un editto che ponesse legalmente termine agli scontri tra Calcedoniani e Monoteliti. I primi restavano saldamente ancorati ai dogmi del concilio ecumenico di Calcedonia (451), i secondi apportavano sensibili novità in seno alla natura di Cristo espressa dal credo. Nel divino risiederebbe anche un lato umano, questi due aspetti sono permeati da un’unica volontà che agisce per dinamismo o “energ(he)ia”, autodeterminandosi oltre al Padre.
Nel 638 il fervore religioso intorno alla volontà-energia raggiunse il culmine con dispute e scontri, fino a costringere ad un “Esposto sulla Fede” Eraclio medesimo. La teoresi monotelita vinse sulla tradizione calcedoniana integrandone il credo col concetto di “Logos”, la determinazione divina attraverso la volontà-energia stessa. Il testo della “Ekthesis” venne persino affisso all’interno di Santa Sofia.
Ciò non fu abbastanza e le autorità religiose ai margini delle province avrebbero agito altrimenti. Scontrarsi con l’autorità imperiale era rischioso ma discostarsene attraverso diatribe teologiche era un modo (inizialmente) pacifico, non dichiarato e legittimo per ottenere una maggiore autonomia territoriale, esautorando l’assolutismo centrale. Fu il caso del Papa Martino I, succeduto al filoimperiale Teodoro.
Possiamo ora iniziare le vicende del regno di Costante II.
La prima sfida di Costante II. Il conflitto con il papa
L’ultimo figlio del defunto Costantino III dovette affrontare il ritorno alle cronache della quaestio monotelita quando, riordinandone l’assetto legale con un nuovo testo normativo, emanò il “Typos”. Dicasi l’ennesima fonte legislativa subordinante il Patriarca rispetto all’Imperatore, il quale ne aveva abbastanza delle invettive del capo della comunità dei fedeli riguardo quella o l’altra teoresi teologica, e il cui contenuto -sintetizza Mauro Gallina nella monografia “Bisanzio: storia di un impero”- vietava «(…) di discutere in qualsiasi modo a una volontà (divina) o a due (…)».
Costante pensava così di aver messo finalmente a tacere nel 648 l’eresia che minava la stabilità religiosa romana da oltre quattro lustri: si sbagliava!
Papa Martino, la cui elezione deficitava dell’approvazione imperiale, aveva proceduto ad accogliere il clero che non accettava il Typos, promulgando novellae religiose contro l’editto di Costante. Lo scontro fu inevitabile.
Anzitutto si riunì un concilio minore proprio in Roma, dove 150 vescovi scismatici proclamarono la legittimità di Martino, “eresiarca” il patriarca di Costantinopoli Paolo I, invalido il Typos e pure il testo “Ekthesis” che l’augusto Eraclio aveva emanato per i monoteliti. Veniva inoltre ricostituita la funzione amministrativa dell’assemblea episcopale romana con un cerimoniale gerarchico del tutto simile a quello di Costantinopoli.
Basta dispute teologiche: ora i vescovi avrebbero davvero amministrato quel che in seguito identifichiamo come “Patrimonium Sancti Petri”. Martino “erigeva” la sua corte ad immagine e somiglianza di quella che aveva potuto ammirare in qualità di diplomatico “ipocrisario” sotto Eraclio nella capitale.
Il vescovo romano “sovrano” del proprio ducato? L’Urbe era in odore di autocefalia.
La sua prima sfida di governo, Costante l’affronta con risoluzione: convoca il suo “maggiordomo di palazzo” Olimpio cubicularius. Abile stratega di corte, già avvezzo agli intrighi e conscio delle responsabilità dell’amministrazione, è uno dei fedelissimi di Costante, fin dall’elevazione di quest’ultimo in Santa Sofia a furor di popolo.
Sarà il nuovo governatore d’Italia, l’Esarca sostituto. Costante sa quanto sia delicato tale compito, ben memore dell’esarca africo e governatore di Cartagine, Gregorio. Morto fortunatamente durante un’incursione araba, prima che la sua idea autonomista si diffondesse come un fuoco accendendo gli animi degli amministratori di tutto l’Impero. Si procede quindi a diramare i proclami per conferire notorietà alla nomina e allertare i collaboratori nei territori d’Italia: la flotta salpa dalla capitale e raggiunge Ravenna.
Il capoluogo ravennate apre le porte al nuovo Esarca e lo accoglie con una processione in pompa magna nella quale troviamo Olimpio accompagnato dal suo predecessore Platone. Il vecchio ufficiale imperiale lo conduce nel palatium cittadino e lo informa sullo stato delle cose in Italia. Il sinodo dei vescovi romani ha ripreso la sua attività e l’orfù ducato romano è in fermento per la ritrovata autonomia. Il Lazio necessita del ritorno della legittima autorità prima che per questa divenga impossibile anche solo metter piede oltre l’Appennino in direzione di Roma. Olimpio raccoglie le truppe e marcia alla volta dell’Urbe con l’ex collega Platone, seguendo l’itinerario sulla Flaminia Militaris, sosta perciò in prossimità di Castrum Luceolis, giunge infine nell’agro tiberino.
Entro le mura aureliane il sinodo è ancora in atto ma nessuno si premura di avvisare Martino, il quale accoglie l’Esarca solo dopo le incombenze quotidiane in Laterano. Non è il modo di ricevere il legato di Costante.
Platone consiglia al suo successore di raccogliere le fila scompaginate della guarnigione imperiale e ricostituire il corpo ducale cittadino. Un collaboratore ravennate esperto del modo di governare l’Italia, tale Euprassio, consiglia Olimpio di forzare i cancelli lateranensi, penetrare nella basilica e porre sotto arresto Martino.
Non accadde però nulla di questo brillante piano.
Secondo le fabulae del Liber Pontificalis, il complotto sarebbe fallito e un successivo tentativo di eliminazione fisica di Martino, durante una funzione, venne scoperto e Olimpio implorò il perdono pontificio durante l’eucarestia.
Un episodio commovente che però non ha assolutamente nulla di storico. I deliberata di Costante per trascinare in carcere Martino e processarlo caddero nel vuoto per le mire autonomiste della élite locale. Sull’esempio dell’eunuco ed ex esarca Eleuterio, Olimpio tergiversò nel far rendere conto al Papa delle accuse mossegli. Anzi!
[Leggi anche La Renovatio Imperii di Eleuterio: un esarca sul trono dei cesari (616 – 620)]
Passarono praticamente tre anni senza che il regime imperiale in Italia cambiasse.
Ravenna a nord lottava contro i Longobardi – il cui re Rotari sarebbe morto di lì a poco- chiudendo un occhio sulle ingerenze di Martino nella teologia imperiale; e assecondando poi l’ufficiosa autonomia di Roma a sud.
La curia pontificia, nel frattempo, provvedeva a slegarsi sempre più dall’autorità patriarcale costantinopolitana e prese a rinnegare la legittimità di Paolo quale patriarca ecumenico. Per Costante era troppo ma si dovette attendere la conclusione delle difficoltà di governo in Oriente.
Nella primavera del 653 la situazione nella penisola tornò ad aggravarsi quando gli Arabi sbarcarono sulle coste della Sicilia, richiamando l’attenzione di Olimpio, “usurpatore” d’Italia e responsabile dei suoi confini. L’impresa non fa però in tempo a cominciare che subisce immediatamente un clamoroso rovescio.
L’esarca contrae la peste proprio durante la cacciata dei Mori dalle coste isolane: Olimpio è morto.
Questo è un duro colpo per Martino, il quale ora non può più contare sul suo braccio destro armato, è solo.
Costante può e deve agire. Il vuoto di potere nella provincia, le sconfitte militari ad opera di Longobardi e Arabi, la ribellione papale spingono l’imperatore a rivolgervi ogni attenzione, forse in vista di un suo futuro ma ora imprevedibile coinvolgimento fisico diretto alla res italica. Sono Platone ed Euprassio alla corte imperiale a consigliare un’azione fulminea per la provincia ribelle. Viene inviato il nuovo esarca: Teodoro Calliope. È costui il nuovo campione della causa imperiale.
La cattura di papa Martino
Il 15 giugno del 653, sotto il caldo sole dell’estate incipiente, le truppe romane entrano nell’Urbe al galoppo dei loro destrieri.
Non perdono quindi tempo, esautorano i comandanti locali, chiudono le porte murarie per evitare fughe o interventi esterni, si dirigono quindi sul Palatino ove Martino dimorava proprio come gli antichi Augusti.
Ma lì non c’è.
Vi si pone soltanto il quartier generale dell’Esarca.
Il secondo in comando di quest’ultimo, il cubicolario Paliuro, raggiunge il papa ribelle nella Basilica di San Salvatore, la folla si disperde e Martino è solo coi suoi vescovi. Qui è costretto ad ascoltare la lettura dell’Actum Denuntiae, il mandato di cattura emesso da Costante in persona.
Martino, già piegato dalla gotta, è quindi ridotto in catene, aspettando di essere prelevato il mattino dopo. Nessuna mediazione, gli ordini sono chiari. Teodoro Calliope procede però anzitempo, il papa viene fatto caricare sul carro, che lo condurrà al mare per essere imbarcato, prima dell’alba.
Lo scopo è chiaro: quanto prima viene tagliata la testa al mostro, quanto più questi cesserà subitamente di costituire una minaccia, scoprendosi esanime.
La plebe di Roma si comporta proprio così: la notizia della fuoriuscita di Martino coglie tutti di sorpresa, non c’è più nulla da fare, inutile opporsi, il pontefice è già lontano quando i sudditi del ducato cercano di capire come e se reagire.
Il tranello è riuscito: l’Esarcato è pacificato. Teodoro Calliope ha emendato l’onta del suo facinoroso predecessore.
Costante può ora tirare un sospiro di sollievo? Circa.
L’Italia è minacciata all’esterno da un nuovo formidabile nemico costiero che dal Nord Africa procede a tambur battente verso le spiagge di tutta la penisola.
Come se non bastasse, il regno longobardo ha inoltre rinnovato la guerra contro Ravenna.
L’esarca sarà all’altezza o dovrà soggiacere alla tentazione autonomista? Forse è il momento di imprimere nuovo governo ad una provincia tanto illustre ma troppo sfuggevole allo scettro di Costantinopoli.
Forse è il momento di trasferirvi la maestà imperiale come non si osava dai tempi di Romolo Augusto. Entro pochi anni i tempi saranno maturi per un ritorno della corte entro la terra d’Italia.
Costante II carezza il sogno che fu di Giustiniano…
Bibliografia
Fonti
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Studi moderni
F. Cognasso 2017, Bisanzio. Storia di una civiltà
C. Della Rocca 2018, Quando i papi erano sudditi di Bisanzio
M. Gallina 2016, Bisanzio. Storia di un impero (secoli IV-XIII)
J. Herrin 2022, Ravenna. Capitale dell’impero, crogiolo d’Europa
T. Indelli 2019, I bizantini nel Mezzogiorno d’Italia
R. Lilies 2005, Bisanzio. La seconda Roma.
G. Ostrogorsky 1968, Storia dell’impero bizantino
G. Ravegnani 2008, Introduzione alla storia bizantina
G. Ravegnani 2011, Gli esarchi d’Italia
G. Ravegnani 2018, I bizantini in Italia
G. Ravegnani 2019, Bisanzio e l’occidente medievale
W. Treadgold. 2009, Storia di Bisanzio
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