Più di un anno fa, usciva qui sul sito un mio breve articolo, dedicato alla morte nel mondo tardo antico.
Quest’oggi cercherò di riprendere l’argomento, ma spostandolo cronologicamente molto più indietro, a partire dalle origini della storia di Roma, per provare a delineare un quadro critico della morte e concentrandomi su aspetto specifico del tema, ovvero la condanna a morte e il come essa era concepita e attuata.
[Nota: non parleremo qui di quelle condanne a morte usate anche come vero e proprio spettacolo pubblico, quali la damnatio ad bestias.]

Lo Stato che uccide: i supplizi a Roma
In Grecia, così come a Roma, la pena di morte rispondeva a tre funzioni fondamentali: affermazione dell’autorità, soddisfazione del desiderio di vendetta, e l’eliminazione del “mostro”. In altre parole: castigare, vendicare, espiare.
Per quanto concerne la storia romana ricostruire l’origine delle pene capitali inferte dalla Stato non è compito semplice: la nostra conoscenza del sistema dei supplizi inizia dal momento in cui le esecuzioni capitali sono previste dalla civitas, come necessaria conseguenza di comportamenti che potrebbero mettere a rischio la sussistenza o l’ordine cittadino. La protostoria di Roma è perlopiù affidata all’interpretazione critica di documenti successivi all’età che descrivono, ma ciò non vuol dire che tali fonti siano inattendibili.
Inoltre, il corpus di miti ed exempla tramandato dai testi latini aiuta a comprendere il significato di alcuni riti di morte.
In età cittadina, le esecuzioni capitali erano espressione del valore e dell’esercizio del potere politico, che ponendosi come arbitro e garante della convivenza civile, aveva avocato a sé il diritto esclusivo di stabilire quali comportamenti fossero dovuti, quali consentiti, quali vietati, e quali puniti con la morte.
L’insieme di regole attribuite all’età regia è noto come leges regiae. A Roma, lex era il termine usato per indicare le prescrizioni approvate dai comizi centuriati, che in età monarchica non ancora esistevano. Ma la parola esprimeva comunque la volontà del magistrato nell’esercizio delle sue funzioni politiche, militari, e religiose. E con questo termine son giunte ai giorni nostri tutta una serie di consuetudini, che la tradizione attribuiva ai re per enfatizzarne l’importanza e la vincolatività. Queste sono le più antiche disposizioni autoritative romane.
La vendetta
Uno dei primi problemi della civitas fu quello di conciliare una mentalità che considerava la vendetta privata come un diritto e un dovere sociale. La civitas tentò di stabilire come e quando un comportamento meritava la morte. La vendetta aveva un ruolo determinante e rappresentava uno degli strumenti più potenti di regolamentazione dei rapporti sociali. Questa era considerata una pratica nobile e vista come prova di onore e coraggio. Anche quando venne vietata, l’idea che la pena servisse a dare soddisfazione sociale e conforto psicologico a chi aveva subito un torto sopravvisse.
Il desiderio di vendicarsi non era sintomo di un carattere violento o iracondo, ma colui che avesse avuto nobiltà d’animo non poteva non essere insensibile a questo desiderio.
Era talmente fondamentale il concetto di vendetta che non solo in età imperiale il non aver perseguito in giudizio eventuali assassini dei parenti uccisi era uno dei motivi di indegnità a succedere, ma addirittura alle donne era concesso il diritto di accusare in giudizio colui che avesse ucciso i loro genitori. Ciò procurava alla donna fama imperitura, come nel celebre caso di Turia (manus pietatis).
Dunque, il processo criminale era visto come uno strumento di vendetta, ma sicuramente era considerato più onorevole farsi “giustizia da soli”, anche se chi uccideva per vendetta era comunque considerato giuridicamente un assassino.
Ci sono però riportati dalle fonti alcuni exempla della storia romana, in cui persino i crimini più efferati, se dettati da nobili motivazioni, non hanno bisogno di una condanna. è il caso delle due donne ambustae (a Roma ambustus era chi, indiziato di un delitto che comportava la pena di morte, era uscito dalle indagini senza essere né condannato né assolto), narrato da Valerio Massimo: la prima aveva ucciso la madre a bastonate per vendicare la morte del figlio avvelenato, mentre la seconda aveva ucciso il secondo marito e il figlio avuto da questo matrimonio per vendicare la morte del figlio di primo letto, ucciso da costoro.
Come inoltre abbiamo già visto nell’articolo sul matrimonio e avremo modo di rivedere più avanti, in una certa misura anche la legge augustea del 18 a.C. (la Lex Iulia de adulteriis) legalizzava la vendetta: il iustos dolor del marito bastava a giustificare la sua azione e la rendeva socialmente apprezzabile.
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Per controllare e legittimare la vendetta, la civitas doveva in primo luogo individuare i casi in cui questa era consentita e quali fossero gli atti autorizzati e dovuti, al fine che la reazione fosse proporzionata all’offesa subita. I reati per cui era possibile aver una vendetta personale erano sostanzialmente tre: l’omicidio, alcuni tipi di furto e le lesioni personali (membri ruptio).
Per quanto riguardava l’omicidio, i parenti della vittima potevano scegliere le modalità con cui vendicarsi che più preferivano. Solitamente si trattava dello stesso tipo di morte che la vittima aveva subito. Regolare, attraverso la vendetta un assassinio, era fondamentale per i Romani, in quanto si riteneva che l’omicidio turbasse la Pax Deorum, che andava di conseguenza necessariamente ripristinata. Per la religione romana vi erano degli illeciti espiabili ed altri inespiabili, e questi potevano essere risolti solo appunto con la morte del reo. L’omicida doveva morire sia per compensare socialmente e psicologicamente i parenti dell’ucciso, sia per purificare la città, espiando lo scelus, e allontanando l’ira divina.
Poteva anche capire però che l’omicidio fosse involontario: come ad esempio, durante i giochi o le prove atletiche. In tal caso, una legge di Numa, che aveva lo scopo sì di criminalizzare l’omicidio, ma allo stesso tempo anche di valutare l’atteggiamento psichico di chi avesse commesso il reato, al fine di individuare i diversi livelli di colpevolezza e per stabilire pene diverse in base alla gravità del crimine, prevedeva di non uccidere l’assassino ma che al suo posto fosse sacrificato un ariete.
L’omicidio involontario rientrava infatti nei casi espiabili, e l’ariete dunque aveva la funzione di piaculum (offerta espiatoria) e di poine (una sorta di riparazione sostitutiva che consentiva ai parenti della vittima di ricevere quella soddisfazione che il divieto di farsi vendetta impediva loro di prendersi personalmente, ma di cui la civitas non li aveva del tutto privati). Il sacrificio dell’ariete doveva avvenire in pubblico, e a compierlo dovevano essere i familiari della vittima: mentre compivano un rito religioso negli interessi della civitas, essi ottenevano anche la soddisfazione psicologica di mettere a morte, di loro mano, una vittima, che rappresentava simbolicamente chi aveva causato loro del male.
Esisteva tuttavia anche una forma di vendetta pubblica attuata dalla civitas stessa nei confronti dei nemici, dei traditori, e degli alleati infedeli. Anche se in questi casi poteva capitare che si lasciasse fare ai parenti della vittima, come per la vicenda di Attilio Regolo.
Per quanto riguarda il furto, il rubare era considerato un atteggiamento antisociale, per il quale il ricorso all’uso alla violenza era più che giustificato (ma solo se il ladro avesse utilizzato un’arma, e se il furto fosse avvenuto di notte). Per le leggi della civitas, la vendetta in tal caso era giustificata, ma non imposta e poteva anche avvenire attraverso la compensazione in denaro.
Il perduellio
I rei di perduellio erano coloro i quali venivano accusati di tradimento nei confronti dello Stato e, più tardi, dell’imperatore. Per tale ragione erano condannati a morte dall’autorità, solitamente per decapitazione, precipitazione, o fustigazione.
La morte per decapitazione (securi percussio) aveva lo scopo di mostrare l’autorità. La scure era infatti il simbolo della sovranità e dell’imperium. Non a caso sui fasci littori, insegne portate dagli aiutanti del rex, comparivano una scure (securis) con la lama orientata verso l’esterno, e delle verghe (virgae) di olmo o di betulla, tenute assieme da una cinghia rossa.
Durante il passaggio dalla monarchia alla Repubblica, però, la possibilità di usare la scure come strumento dell’esecuzione capitale rimase prerogativa dei comandanti delle spedizioni militari. In città, e più precisamente all’interno del pomerium, l’amministrazione della giustizia non poteva più decretare in prima e ultima istanza la morte. Agli abitanti di Roma era stato concesso, infatti, di provocare ad populum, ossia di opporsi all’esercizio del potere punitivo del magistrato, rivolgendosi al popolo riunito dei comizi. Forse già concessa in casi eccezionali in età regia, lo ius provicationis divenne in età repubblicana un diritto, ma non si ha la certezza sulla data esatta.
Sotto il regno di Nerone, però, la scure lasciò il posto alla spada nelle esecuzioni capitali. A questo punto, far ricorso alla scure era considerato disdicevole. Il luogo designato per tali condanne era dapprima il Campo di Marte, poi il Foro, e in età imperiale l’Esquilino.

La suspensio era l’atto che consentiva di immobilizzare il reo nella posizione in cui era destinato a restare sino a che non avesse perso la vita stremato dai colpi delle verghe, secondo i dettami della Lex horrendi carminis. Il supplizio, dunque, come lo descrive Svetonio, consisteva nel denudare il condannato, inserirne il collo in una forca e, infine, battere a morte il corpo con le verghe.
Nonostante si abbiamo tracce in epoca imperiale, la pratica della fustigazione prevista dalla Lex horrendi carminis doveva essere in realtà molto più antica: secondo Livio essa venne per la prima volta applicata per processare Orazio, sotto il regno di Tullio Ostilio; invece secondo Cicerone venne introdotta da Tarquinio il Superbo. Discordanze a parte, l’origine etrusca della pratica è più che assodata per via del fatto che la legge specifica, per la pena, l’utilizzo di un arbor infelix. La classificazione degli alberi in felices e infelices era di origine etrusca. Macrobio ci riferisce che tale lista venne stilata da Tarquinio, autore di cose religiose e pronostici. A confermare l’attendibilità dell’informazione sono poi le “assenze”: infatti, non son citati alberi che, all’epoca in cui presumibilmente (attorno al 550 a.C.) venne redatta la lista, non erano conosciuti o non ancora coltivati.
Infine, la morte per praecipitatio (precipitazione) era prevista quando veniva meno la Fides pubblica o privata, quindi a un dovere di fedeltà, e per tale motivo la stessa condanna era prevista anche per i ladri di stato servile e per i falsi testimoni. Il venir meno alla fede voleva dire, per i Romani, venir meno alle divinità. Il rispetto dei patti, fossero essi pubblici o privati, era garantito infatti da Dius Fidius, noto anche come Semo Sancus. Il venir meno alla Fides dunque era un illecito religioso.
Come abbiamo già notato con l’omicidio, e come vedremo più avanti con la vivisepoltura, anche la precipitazione aveva una forte connotazione sacrale, in questo caso quella di consegnare i condannati agli dei inferi.

La morte delle donne
Una delle più antiche leges regiae, attribuita a Romolo da Dionigi di Alicarnasso, si preoccupò di stabilire in quali casi a un marito fosse concesso uccidere la propria moglie. Come scrive lo storico greco, e come abbiamo visto in precedenti articoli riguardanti la sfera femminile: “Romolo stabilì che la moglie fosse punita con la morte dai parenti in caso di rapporto sessuale illecito e in caso avesse bevuto vino”.
Lo Ius Osculi infatti era una pratica antichissima, che perdurò fino ai tempi di Tiberio, la quale proibiva alle donne di bere vino.
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La donna doveva baciare non solo il marito sulle labbra, ma tutti i parenti maschi (suoi e di lui) fino ai cugini di secondo grado. Ciò serviva a constatare se ella avesse o meno bevuto del vino. In caso di colpevolezza, la donna era punita con la morte per inedia.
La spiegazione di tale condanna, secondo alcuni studiosi, è forse da rintracciare sul piano della magia: nel vino infatti sarebbe stato contenuto un principio di vita, simile al seme maschile. Sul terreno delle credenze popolari, invece, il vino era considerato abortivo (anche se l’aborto era punito col ripudio, non con la morte). Altri ritengono che non fosse vietato tutto il vino, ma solo il temetum, riservato ai sacrifici e dal potere divinatorio.
In linea generale, comunque, era bene che le donne parlassero il meno possibile: essendo incapaci di controllarsi, se bevevano, potevano svelare segreti, dire cose inappropriate, e creare situazioni imbarazzanti e pericolose.
Infine, il vino era proibito perché, facendo perdere il controllo, poteva indurre le donne a venir meno ai loro doveri, e commettere magari adulterio.
Abbiamo già ripetuto altre volte che il comportamento e la sessualità femminile andavano controllati, ma il fatto che Romolo emani una legge del genere trova fondamento nella necessità di coordinare i poteri che spettavano al marito e quali al pater familias. Non va dimenticato, infatti, come abbiamo visto nell’articolo dedicato al matrimonio, che la donna entrava a far parte della famiglia del marito non col ruolo di moglie, ma di figlia. Stabilendo la sua autorità, la civitas non spogliava i patres dalle loro prerogative e dai loro poteri. Pertanto, alcuni dei comportamenti tradizionalmente puniti con la morte continuarono a essere perseguiti in casa.
La morte più idonea per una donna era quella per inedia o per strangolamento, che però a differenza della prima non era una prerogativa solo femminile, ma era considerata una morte privilegiata, prevista anche per i condannati di sesso maschile di particolare riguardo. La morte per inedia non uscendo dall’ambiente privato e domestico era perfetta per la sfera muliebre, ed era anche vista come meno violenta.
Che la morte più adeguata per una donna fosse quella per inedia, ci è confermato da autori latini come Fabio Pittore e Plinio il Vecchio. Il primo, negli Annalia, parla di una donna che dopo essersi impossessata della chiavi della cantina, venne appunto condannata dai familiari a morire di fame.
Per i Romani, così come per i Greci, la morte per inedia era considerata meno crudele di altre, e a dimostrazione di ciò vi era una leggenda.
Una donna di umili condizioni era stata condannata a morte, ma il carceriere, imbarazzato di dover eseguire la sentenza, aveva preferito lasciarla morire di inedia. Un atto pietoso, dunque. Ma la Pietas celebrata dai Romani non era quella del carceriere, ma quella della figlia della donna, che ogni giorno si recava in cella e nutriva la madre col latte del suo seno. Una volta scoperto l’inganno, la storia colpì a tal punto il popolo che la donna ebbe salva la vita, e proprio in quel luogo, nel 181 a.C., venne eretto un tempio dedicato alla Pietas.
La morte per strangolamento è attestata da due casi celebri di età repubblicana: quello di Publicia e di Licinia. Come ci narra Valerio Massimo, entrambe le donne furono accusate di avvelenamento dei rispettivi mariti, e “furono strangolate in base a una sentenza dei parenti”.
A partire dal principato di Augusto, e con l’emanazione di nuove leggi, l’adulterio e lo stuprum (nel mondo romano, il rapporto sessuale illecito che non implica violenza, nelle sue innumerevoli sfaccettature) divennero crimini di rilevanza pubblica. Le donne di discutibile virtù vennero da quel momento giudicate pubblicamente.

La morte di una Vestale
Solo una categoria di donne era da sempre condannata in pubblico: le Vestali. La morte di una Vestale, solitamente condannata per comportamenti sessuali licenziosi, che venivano resi noti da un prodigium o dai portenta, e avrebbero messo in serio pericolo la salvaguardia dello Stato e alterato la pax deorum, era sia una punizione sia un’offerta propiziatoria.
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Le sacerdotesse di Vesta erano vincolate da un voto di castità trentennale. Esse erano scelte, tra i sei e i dieci anni d’età, tra le fanciulle esponenti delle più nobili famiglie romane. Al momento della loro consacrazione, uscivano dalla potestà paterna, ed entravano in quella del Pontifex Maximus, che le acquisiva a seguito di una cerimonia nota col nome di captio. Erano le uniche donne sui iuris, alla quali fosse concesso di compiere atti di rilevanza giuridica e far testamento senza la presenza di un tutore.
Come abbiamo accennato, tuttavia, Vestali e donne comuni venivano uccise nelle stessa modalità: sfinite dall’inedia, e rinchiuse in un luogo che sarebbe divenuto la loro tomba (nel caso delle donne comuni la loro stanza, nel caso delle sacerdotesse in una camera sotterranea nei pressi di Porta Collina – nel cosiddetto “campo scellerato” – dove vi erano un letto, del latte e dell’acqua, pane, olio, e una fiaccola. Insomma un luogo che avrebbe dovuto rimandare ad un ambiente domestico). Le Vestali infatti erano viste come l’immagine idealizzata della matrona romana.
Ma sicuramente la morte di una Vestale si connotava in modo diverso da quella di una donna comune: la loro impudicitia era un atto sacrilego. La morte delle Vestali incestae era al tempo stesso una punizione e un’offerta agli dei. La cerimonia si arricchiva di simboli ma al contempo rinviava alla dimensione domestica. Ma, nel caso delle sacerdotesse di Vesta, l’aspetto riservato veniva meno per via del loro status sociale che rendeva necessaria una morte pubblica, e perché appunto si trattava non di una semplice esecuzione, ma di un sacrificio alle divinità, tali atti richiedevano solennità. Anche però nella sua funerea spettacolarità, la morte delle Vestali incestae ricalcava fedelmente la morte silenziosa e invisibile di tutte le altri donne comuni.
La prima Vestale, per quanto ne sappiamo, ad esser stata sepolto viva fu Pinaria, messa a morte sotto il regno di Tarquinio Prisco. Nel 483 fu la volta di Oppia-Opimia. Nel 472 toccò a Orbinia. Nel 420 a Postumia, che, accusata di aver indossato vesti di colori sgargianti e di aver tenuto un atteggiamento scherzoso, venne assolta. Nel 337 fu condannata Minucia, nel 273 Sestilia, e nel 266, per evitare il supplizio, Capparonia si suicidò. Fra il 214 e il 213 morirono Emilia, Licinia, e Marcia. Incerta, al contrario, la sorte di Tuccia. Altre condanne furono eseguite nel 91 d.C., sotto il regno di Domiziano, e nel 213 con Caracalla, per poi concludersi con l’ultima condanna avvenuta forse nel IV secolo d.C.
Lo ius puniendi del pater familias
Come abbiamo già accennato in un precedente articolo sul rapporto fra genitori e figli all’interno della famiglia romana, all’interno dello ius puniendi paterno sottostavano non solo le donne, ma anche i servi e gli altri uomini del nucleo familiare. Pertanto, i padri valutavano la gravità della colpa e ne stabilivano la pena: i giudizi domestici erano sottratti dal controllo pubblico.
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Non c’è da sorprendersi dunque, se, a volte, anche crimini di rilevanza pubblica vengano puniti all’interno delle mura domestiche. La sostanziale identità dell’autorità paterna con quella politica è ben espressa dalla sentenza che Tito Manlio Torquato emise nei confronti del figlio giudicato in casa per malgoverno: il giovane venne condannato all’esilio. E ciò, più di una condanna a morte, dimostra che il potere del pater familias era anche un potere pubblico.
La poena cullei
“Vivo, ma senza poter respirare l’aria del cielo; gettato in mare, ma in condizioni che non consentivano alle sue ossa di toccare la terra; sospinto dalle onde, ma non lavato da queste, e infine gettato su una spiaggia, ma senza che gli fosse concesso trovare riposo sugli scogli”.
Queste le parole che usa Cicerone per descrivere la “pena del sacco” o poena cullei. Questa era la pena prevista per i parricidi. Una condanna del tutto eccezionale che consisteva nel cucire in un sacco il reo, assieme a un cane, un gallo, una vipera e una scimmia, e infine gettato in mare o nel corso d’acqua più vicino. Ma prima di ciò, doveva essere percosso con delle virgae sanguineae, e doveva indossare degli zoccoli di legno e un cappuccio di pelle di lupo.
Una procedura alla quale nessun altro condannato a morte veniva sottoposto.
Coprire il capo di un condannato significava consacrarlo agli dei. Il valore simbolico del “travestimento” del parricida serviva non solo a connotarlo come “mostro”, ma richiamava un antico cerimoniale, secondo il quale il reo era punito con la trasformazione in lupo, e di conseguenza cancellato dal numero dei viventi nella città, e costretto dunque a vagare per silvas fino al momento in cui qualcuno non l’avesse legittimamente ucciso. Riguardo ai zoccoli lignei (soleae ligneae), si riteneva che il legno avesse la capacità di impedire a un oggetto o individuo di diffondere influssi malefici, che portava con sé. Costringere il parricida a camminare con le soleae ligneae significava quindi impedirgli di “sporcare” la terra e di propagare influssi malefici.
Prima di essere gettato nelle acque, il parricida doveva essere fustigato con verghe sanguineae, realizzate con il legno dei cosiddetti alberi infelices, “con i quali” afferma Macrobio “conviene ordinare che vengano bruciati i portenta e i cattivi prodigi”.
La presenza delle fiere rendeva l’esecuzione della pena più crudele, e ne accentuava la valenza simbolica.
Il gallo, animale legato alla Luce, era legato al parricida in quanto egli uccide chi gli ha dato la vita. Secondo le fonti, quello impiegato per la poena cullei era il gallo-gallinaccio, ovvero il cappone, bestia considerata feroce. Nel De re rustica di Columella si legge che il gallo uccide le serpi: la presenza di entrambi gli animali nel culleus doveva dunque dar origine ad una catena di uccisioni che, così come aveva fatto il parricida, alteravano la convivenza civile.
La vipera veniva uccisa (secondo Greci e Romani) dai suoi stessi cuccioli.
La scimmia, secondo Plinio, amava così tanto i propri figli da soffocarli nei loro abbracci, inoltre per la sua somiglianza all’uomo era considerata una sua orripilante caricatura. Scrive Cicerone: “la scimmia è un uomo che non vale un soldo”.
Infine, il cane era visto come una “bestia immonda” da Orazio, Virgilio definisce le cane obsenae, per Giovanni Crisostomo il cane era l'”animale più vile” e “coloro che vivono in inguaribile empietà e non hanno alcuna speranza di redimersi” altro non sono che cani .

Le fiere sarebbero state inserite nel culleus poiché considerati esseri “prodigiosi”, cioè mostruosi, così come anche il parricida era considerato un prodigium, e in quanto tale andava eliminato. Inoltre, dopo la morte del reo, i suoi resti e quelli degli animali si confondevano in un ossario promiscuo, che se un giorno fosse stato sospinto su una riva, chiunque l’avesse trovato, alla vista delle misere spoglie, avrebbe immediatamente intuito la ragione della morte.
Il parricida dunque non veniva privato solo della sepoltura, ma anche (da vivo) del contatto con gli elementi. Così Costantino: “cucito in un culleus e chiuso nella sua stretta mortale […] verrà gettato nel mare, se vicino, o in un fiume, così che cominci da vivo a mancare di ogni uso di elementi, e sia privato del cielo finché è vivo, e della terra da morto”. Il culleus serviva dunque a preservare l’acqua, l’aria, e la terra dal contatto col reo.
Secondo la tradizione, la pena del culleus sarebbe stata introdotta da Tarquinio il Superbo, che ne ordinò l’utilizzo per punire il decemviro M. Atilio, colpevole di aver divulgato i segreti dei sacri riti civili. E molto tempo dopo, questo supplizio fu per legge prescritto per i parricidi, in quanto la violatio (profanazione) dei genitori e degli dei deve essere espiata allo stesso modo.
La lettura delle Istituzioni di Giustiniano ci rende noto che la pena fu introdotta nel 55 o il 52 a.C., in concomitanza dell’approvazione della Lex Pompeia de parricidiis. La legge però prevedeva l’inserimento nel sacco solo della vipera. La scimmia sarebbe stata aggiunta dall’imperatore Claudio, per simboleggiare il gesto disumano del parricida; mentre il cane e il gallo (associati a culti misterici come quelli di Iside, Mitra, e Cibele) sarebbe stati inseriti da Costantino.
Sempre in epoca tardo antica, poi, per volontà di Costante e Costanzo, la poena cullei venne prevista anche per il reato di adulterio, ma in questo caso si suppone che non fossero inserite bestie nel sacco, fatta forse eccezione per il mugile, un pesce noto per la sua mordacità. La cosiddetta “pena del mugile” (un atto di vendetta privata) compare spesso nelle fonti, e per i Romani l’associazione pesce/adultero era alquanto immediata.
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La lapidazione
La lapidazione, in Grecia così come a Roma, era uno strumento di giustizia spontanea e collettiva, che di regola colpiva colui che aveva provocato del male alla collettività. Essa non esisteva nel mondo del diritto, ma non era neppure vietata. Il principio morale era che non era lecito provocare un male alla comunità.
Nelle fonti abbiamo numerosi esempi di tale pratica: ad esempio, alla morte di Germanico, molto amato dalla folla, gli altari e i templi vennero presi a sassate, poiché si riteneva che gli dei avessero colpito il popolo nei suoi sentimenti più cari. E ancora che l’idea della pietra fosse strumento di giustizia popolare è espresso da Quintiliano, là dove afferma che il legatus responsabile della carestia di grano, non venisse punito da un tribunale, ma lapidato dal popolo.
L’impiccagione
A Roma, l’impiccagione era una morte maledetta: le anime degli impiccati non trovando riposo nell’aldilà, continuavano a vagare tra i vivi, ed erano motivo di terrore. La ragione di tale maledizione nasceva forse dal fatto, gli impiccati a differenza degli altri morti per soffocamento, esalavano l’ultimo respiro in aria. E questo per i Romani era gravissimo: per loro, morire significava tornare alla terra, e a questa si faceva ritorno solo se il corpo, nell’attimo estremo, giaceva a contatto con l’elemento originario, sede del regno dei morti. Anche nei riti di cremazione del defunto, i Romani erano soliti tagliare un dito (os resectum), che doveva simboleggiare il cadavere. Questo poi veniva seppellito.
Dato che l’anima degli impiccati che vagavano era maligna (nota ai romani col nome di lemures), bisognava proteggersi e a questo scopo vi erano gli oscilla, piccole bambole che venivano appese agli alberi, che avevano la capacità di purificare l’aria. Queste venivano collocate sugli alberi dove l’impiccato aveva trovato la morte, facendo tornare anche l’arbusto felix. Secondo Varrone, gli oscilla, imitando il dondolio e il modo in cui il defunto era morto, placavano la sua anima, redendola benevola.
La crocifissione
A Roma, all’inizio, la morte sulla croce (servile supplicium) era riservata agli schiavi. L’idea di un cittadino romano appeso alla croce era davvero inaccettabile. Un esempio estremamente famoso è quello delle migliaia di schiavi ribelli di Spartaco, fatti crocifiggere da Crasso lungo la via Appia.
La croce romana era composta da due legni separati fra loro, detti stipes e patibulum.
La crocifissione entrò nel panorama dei supplizi di Stato solo a partire dall’età imperiale, quando tale pena una volta servile venne estesa anche agli uomini liberi, e con esattezza, agli humiliores, delinquenti di classi sociali inferiori. Ma già con Costantino, questa condanna venne abolita.

Appendice: Il suicidio
Nella Roma Antica, il suicidio era visto come una scelta di libertà moralmente encomiabile. Il gesto spesso era dettato dalla violenza della vita politica e dalla facilità con cui una sorte felice poteva trasformarsi in una situazione avversa.
La scelta del mezzo e delle modalità però con cui suicidarsi non erano del tutto banali: infatti, il giudizio sociale del suicidio dipendeva dal modo in cui la morte era stata ottenuta. Lo strumento privilegiato e considerato il più virile era la spada, a questa seguivano il dissanguamento, l’inedia, e il ricorso a veleni.
A volte era necessario togliersi la vita in pochi attimi, e non sempre un veleno o un’arma erano a portata di mano. A tale scopo il laqueum (il laccio) era la soluzione perfetta: piccolo, leggero, poco ingombrante, e facile da nascondere sotto le vesti. Estratto al momento più opportuno, questo poteva risolvere situazioni drammatiche, come ad esempio non permettere di cadere vivo in mano nemico.
Il laqueum era uno strumento ben noto ai Romani, e al carattere dignitoso della morte che esso procurava, si aggiungeva il suo impiego come strumento ufficioso delle esecuzioni capitali. Lo strangolamento infatti trovò uno spazio non istituzionale nel sistema delle pene capitali, per sottrarre il condannato alla morte pubblica. Questo riguardo però era usato solo con cittadini di estrazione sociale elevata o la cui esecuzione pubblica era sconsigliata per ragioni politiche.
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E. Cantarella 1988, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico
E. Cantarella 1996, I supplizi capitali. Origine e funzioni delle pene di morte in Grecia e a Roma
E. Cantarella 2009, Dammi mille baci. Veri uomini e vere donne nell’Antica Roma
E. Cantarella 2020, Come uccidere il padre. Genitori e figli da Roma a oggi
F. Cenerini 2013, La donna romana
G. Ravegnani 2015, La vita quotidiana alla fine del mondo antico
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