La Renovatio Imperii di Eleuterio: un esarca sul trono dei cesari (616 – 620)

«Quid non mortalia pectora cogis, Auri sacra fames […] »
– Eneide, III, 56-7 –
A che cosa può spingere la bramosia di ricchezza? Il potere è davvero capace di mutare un uomo degno ed esemplare (vir) in un essere abbietto, senza nobiltà d’animo (homo)?
La “maledetta fame” dell’ambizione, come decantava Virgilio nell’eterna epopea del mitico Enea. Aspirare ad ottenere prestigio ed esercitare l’imperio (dignitas) sono sempre stati una costante tra i governanti di ogni società umana.
Persino lo spirito più ligio, fedele alla “cosa pubblica”, può ben presto tramarne il controllo dell’ordinamento per sostituirvi la propria tirannide. Gli antichi giuristi romani la chiamavano adfectatio regni, il perseguimento dell’io in luogo delle pubbliche istituzioni. Un despota al pari dei Tarquini e il ritorno alla sudditanza sono sempre stati il timore dei più e insieme l’obbiettivo di numerosi uomini.

Come non pensare ai poteri personali esercitati con violenza dai signori della guerra nell’ultima età repubblicana? Oppure alla tristemente famosa anarchia militare del secolo terzo? Usurpatori corrotti e congiure segrete si sono susseguiti come lo scorrere naturale delle acque in ogni età della romanitas. Persino nei momenti di crisi più nefandi, di fronte a invasioni e rivolte, l’ambizione di elevare la propria auctoritas ha riservato un’eterna sfida all’ordine costituito del sovrano.

I domini italici successivi alla riconquista giustinianea non furono da meno. Trovando solide basi in queste terre lontane, preda di incursioni barbariche e dal difficile controllo, approfittando dei malcontenti generali, i grandi comandanti hanno spesso fomentato rivolte.
L’esecranda fame dell’oro in quanto causa e conseguenza del sogno occidentale. Come esisteva una Nova Roma con relativo basileus, l’antica Urbe avrebbe di nuovo sfoggiato sul soglio del trono il suo imperator.

Munirsi dell’oro, indossare la porpora e regnare su Roma, capitale ancestrale del Mediterraneo: fu questo il sogno di Eleuterio.
Esarca ravennate, simbolo di un obiettivo che avrebbe potuto cambiare radicalmente gli equilibri politici di tutta l’Oikoumene.

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Eleuterio, nuovo esarca 

Nella primavera del 616, in seguito a ripetuti disordini nelle cancellerie di Ravenna e di Napoli, la successione istituzionale aveva subito un rovesciamento. Occorreva riportare l’ordine al più presto. Nel settentrione l’esarca Giovanni era stato assassinato dalle fazioni cittadine in lotta tra loro. In Campania invece era stato proclamato un generale di recente successo come gubernator locale, senza il beneplacito dell’imperatore.
La scelta per riacquisire il controllo della penisola doveva ora ricadere non più su di un ufficiale militare o su di uno dei clarissimi, la classe più illustre del senato. Il basileus, il grande Eraclio, optò per un suo uomo di fiducia, l’addetto agli ambienti domestici del palazzo: il cubicularius Eleuterio.
Si trattava di un eunuco, cioè un membro della cancelleria imperiale, menomato fisicamente in virtù del ruolo di addetto alla sacra persona dell’imperatrice.
Formatosi negli ambienti della corte, tra alterne vicende e cogli insegnamenti di appositi precettori, doveva senz’altro essere l’esponente di spicco nell’entourage più vicino al basileus.
Non vi era tempo da perdere: convenuto in colloquio col sovrano, Eleuterio venne formalmente annunciato come nuovo exarchus d’Italia e là inviato sul primo dromone disponibile.

L’istituzione dell’Esarcato di Ravenna

In seguito all’invasione dei popoli “dalla lunga barba”, i temuti Longobardi, il grande rinnovo dell’unità imperiale in Occidente s’infranse.
Dopo l’irrompere su gran parte dei fronti, la stirpe di Alboino acquisì la totalità del territorio cisalpino; ad eccezione di pochi avamposti dell’entroterra veneto. Di fronte al precipitare della stabilità romana, già precaria, non mancarono esempi di eroismo. Come dimenticare l’enclave dell’isola comacina? Oppure l’incredibile resistenza di Oderzo, l’antica Opitergium? Pochi furono capaci di resistere, molti decisero di ritirarsi verso il mare, unica possibilità di scampo sulla via per Costantinopoli. Avvenne così che città come Lunae o Genua (Luni e Genova) divenissero punti nevralgici per tutti coloro che fossero scampati all’invasione.
Dall’altra parte della penisola, sull’Adriatico, il caput ideale della resistenza imperiale si concretizzò nella palustre Ravenna. Entro le sue mura, protette da fossati e acquitrini insalubri, trovarono dimora tutte le cariche più illustri del governo. Non era l’unico caso. Le Venetiae e il Latium si costituirono ognuno in un proprio ducato militare basato sul controllo territoriale su diritto militare dei comandanti. Era il tracollo di un’epoca, quella tra il VI e il VII secolo, di fermento politico, preludio di una sempre più ardua sopravvivenza sugli antichi confini sfuggiti all’assoggettamento longobardo. Ravenna soltanto reggeva ora le sorti della penisola italica, diramando ordini su tutti i confini, attraverso la mano dell’Esarca.

Quest’ultimo non era che il nuovo reggente della provincia, un governatore che, sulla base della raccomandazione formale del governo centrale, doveva riassumere su di sé l’autorità imperiale. Ne era la formale rappresentanza.
Con il senato romano ridotto a mera simulazione di un organo tutt’altro che influente, il nuovo exarchus rivestiva sulla sua persona sia i poteri civile che militare. Non a caso tale titolo era già stato adoperato nella nomenclatura delle antiche legioni per designare il massimo rango di cavalleria. Unità dell’esercito abile negli spostamenti d’attacco e altrettanto efficace nel soffocare ogni focolaio di rivolta in tempi di pace. Allo stesso modo, seppur idealmente, l’esarca doveva stabilire proprie direttive, spostandosi celermente da una civitas all’altra per sopralluoghi quotidiani e ricognizioni da campagna.
Era l’esecutore materiale della volontà costantinopolitana, così lontana e altrimenti impegnata sulle frontiere orientali, tra le sabbie mesopotamiche. Ben presto però, con il susseguirsi delle lotte e l’incalzare dei Longobardi, ci si accorse che la macchina burocratica centrale impiegava troppo tempo per soppesare ogni candidato, esaminarlo e quindi inviarlo con fiducia sul fronte.
Erano adesso le stesse truppe di stanza in Italia a sceglierlo, obbligando i consilia di Ravenna a ratificare la nomina, inviandone poi notizia a Bisanzio. L’esarca fu quindi annoverato come un generale (strategos) su base di potere originaria (autokrator): era il factotum del basileus non in quanto scelta del sovrano, ma per proprie capacità. Com’è ovvio capire da tale cambiamento, innumerevoli membri dell’aristocrazia latifondista e militare cominciarono ad aspirare al governo ravennate. Avvenne così il cruento susseguirsi tra i potenti in legittimo accordo con il governo centrale e i loro sostituti illegittimi, usurpatori.
Gli stessi facevano delle truppe personale strumento di acquisizione violenta dello scettro. Corruzione, delitti e intrighi erano all’ordine del giorno nell’Officium ravennate, ora novella corte di un sovrano se non di nome quantomeno di fatto. L’area di giurisdizione controllata dai romaioi fu da subito rinominata gergalmente Romània.

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Il viaggio durò pochi giorni, accompagnato da truppe di rinforzo fedeli a Costantinopoli. Eleuterio fece ingresso a Ravenna senza colpo ferire, incontrando diffusamente il supporto dei responsabili militari e la compiacenza del patriziato.
La città lo aveva accolto pacificamente, ora occorreva fare il punto della situazione, placare i sediziosi e giustiziare i responsabili. L’insediamento di Eleuterio fu contraddistinto da indagini e perquisizioni negli uffici del palatium, sede del governo.
Gli agentes del nuovo esarca avevano concluso che la torbida eliminazione di Giovanni fosse dovuta alla mancata retribuzione delle truppe e agli intrighi dei maggiorenti cittadini, gli iudices rei publicae. Arrecare offesa all’esarca, in quanto rappresentante del governo centrale, equivaleva ad attentare alla del basileus.
Per un simile attentato al governo centrale non vi era rimedio all’infuori della pena capitale. I giudici furono quindi tutti decapitati. I soldati, una volta corrisposto loro il canone salariale, giurarono di nuovo fedeltà all’esarca. Eleuterio aveva ottenuto il suo primo grande successo: l’ordine politico in settentrione. Compito successivo sarebbe stato domare la rivolta presso Napoli.

La presa di Napoli (616)

Consolidata la presa di possesso a Ravenna, il cubicularius vi lasciò dei fedelissimi ad occuparsi della direzione sia civile sia militare.
Doveva ora marciare in direzione della Campania attraverso i territori di dubbia fedeltà. Per farlo, avrebbe percorso le antiche viae del ducato romano, territorio che idealmente recideva in due metà la penisola tutta. Una sorta di corridoio, non esente da frequenti scorrerie, posto tra le realtà della Langobardia Minor e Maior.
Il numero esatto delle truppe sotto il comando di Eleuterio non ci è pervenuto ma, stando alle parole degli autori coevi, doveva essere il più consistente d’Italia, un qualcosa che non si vedeva da molto tempo.
Un castrum dopo l’altro, attraverso i boschi dell’antica Tuscia e le cime appenniniche, l’armata ravennate giunse in prossimità di Roma, dimora di un dux e del suo vescovo, il papa, l’erede degli antichi pontifices.
L’Urbe accolse con favore Eleuterio, mandandogli incontro delegazioni di nobili e folle festanti. Papa Deusdedit benedì personalmente il nuovo venuto, quale restitutor dell’autorità imperiale. Solitamente tali onori erano tributati al solo basileus.
Eleuterio perciò fece la sua prima esperienza col potere absolutus, disponendo sommariamente giustizia di fronte ai vessilli del potere centrale, di cui era portavoce. Roma corrisponde in natura il tributo militare, rifocillando le truppe e fornendo supporto logistico.

Dopo non più di una settimana l’itinerario riprende per marce forzate (magnis itineribus), fino alle mura di Napoli. Qui la rete spionistica aveva avvisato il governatore dell’imminenza delle truppe ravennati, permettendo ai difensori di fortificare le mura e disporre l’embargo sul golfo.
L’assedio si rivelò inevitabile. Eleuterio ora combatteva per la sua stessa sopravvivenza poiché, in caso di sconfitta e successiva cattura, sarebbe stato brutalmente rimpiazzato da un usurpatore.
Passò un mese tra scaramucce e messaggi di ultimatum. La popolazione assisteva con sgomento all’appostamento di decine di contingenti intorno la città. Il malcontento si diffuse, provocando il tracollo del partito usurpatore.

L’esarca si ritrovò quindi a lanciare un unico attacco per penetrare nelle difese, dove la resistenza si era affievolita a causa della penuria di cibo e acqua.
La flotta si era inoltre sottomessa ore prima, segretamente, discutendo i termini di resa nell’accampamento. Nessuna via di fuga dal mare per i facinorosi, solo il destino di subire la vendetta imperiale: l’usurpatore e i suoi seguaci furono tutti giustiziati sulla pubblica piazza.
L’Italia era adesso pacificata e di nuovo sotto la guida dell’unico rappresentante di Costantinopoli.

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La guerra contro i Longobardi (616 – 619)

Napoli, dopo un breve periodo di occupazione, fu di nuovo predisposta per il governo di un dux fedele, supportato da collaboratori di nomina imperiale. Era passato un anno dall’inizio dell’impresa.
Eleuterio sapeva di dover rientrare al più presto a Ravenna: le voci di incursioni longobarde si facevano sempre più pressanti.
Con un esercito meno numeroso ma di comprovata capacità combattiva, fece presto ritorno nella pianura emiliana dove le lotte col nemico avevano subito un’escalation di violenza mai vista prima. Occorreva coscrivere nuove unità e rinforzare gli oppida delle colline circostanti e le città ancora in possesso romano. Fu una campagna lunga, aspramente combattuta e teatro di scontri sanguinosi.

La guerra durò oltre tre anni, al termine della quale Eleuterio riuscì a resistere con la perdita della sola cittadina di Concordia Sagittaria, nell’entroterra veneto.
Larga parte dell’Esarcato era sfuggito all’invasione, preservando il controllo sul territorio e accentuando il sentimento di fedeltà all’esarca stesso. Era diventato il nuovo vir, l’uomo esemplare, guida dello spirito romano contro l’avanzare del barbaricum.
Un tributo annuo di misero valore, come stipula della pace, aveva poca importanza. Eleuterio ora coltivava propositi contrastanti con la missione affidatagli anni prima. Il governo di Costantinopoli si era dimostrato sordo alle continue richieste di aiuto e le autonomie locali si erano accentuate per sopperire alla mancanza di direttive da Costantinopoli.
Memore degli errori dei suoi predecessori, Eleuterio aspirava adesso a costituire un regnum romeo nella stessa Italia, formalmente fedele a Bisanzio, certo, ma indipendente per l’assetto geopolitico. Colui che era partito come semplice cubicularius per combattere le rivolte intestine, era divenuto a sua volta guida e usurpatore della penisola. Ravenna sarebbe stata la sua corte, l’esarcato e i ducati confinanti il suo impero.

Da Eleuterio a Ismailius: l’usurpazione e la caduta (619-620)

Eleuterio non si montò la testa: sapeva che la menomazione fisica gli era di impedimento per ascendere al trono. Il basileus, in quanto incarnazione tangibile di Dio, doveva essere perfetto nell’aspetto fisico. L’Habitus Corporis non poteva risultare viziato da difetti di alcun genere, divenendo in caso contrario portentum.
Solo un rimedio era ipotizzabile per acquisire ugualmente un simile ruolo: la benedizione del patriarca. Eleuterio si confidò coi generali e con i diaconi della diocesi adriatica: i primi gli consigliarono di comprare la neutralità dei vicini Longobardi, i secondi di affidare l’incoronazione al solo arcivescovo di Ravenna.
Passarono i mesi, ogni cosa era stata predisposta in gran segreto. Eleuterio decise di proclamarsi ora nuovo imperator della pars occidentis, coniando monete auree con il suo busto coronato e la dicitura “Ismailius”. Il nuovo nomen doveva supportare sia l’idea di una rinascita sia personale (l’esarca non più ufficiale costantinopolitano, ma novello Cesare Augusto), sia politica, con l’Italia sede di uno stato a sé.

L’incoronazione doveva avvenire a Roma, l’antica Caput Mundi, centro nevralgico di una civiltà primigenia da cui Costantinopoli discendeva, da sempre depositaria di un’antica tradizione regale. I delegati dell’arcivescovo, volendo evitare questi ultimi un coinvolgimento diretto, raggiunsero il nuovo papa, Bonifacio. Accordarono il supporto del senato e constatarono la mancanza di tumulti tra le masse plebee che avrebbero dovuto festeggiare il sovrano. Tutto era pronto. Eleuterio si mise in marcia, attraverso l’itinerario percorso quattro anni prima.
Era l’estate del 620. Per paura di un eventuale cambio di fazione, durante la quale il governo centrale avrebbe potuto essere avvertito dei progetti autonomisti, l’esarca lasciò in diverse città i propri fedelissimi. Avrebbe ridotto i suoi ranghi per garantirsi una politica “di vertice”. I suoi consociati si sarebbero quindi preoccupati di reprimere ogni forma di dissenso contro l’usurpazione.
Così facendo però Eleuterio si rese vulnerabile contro gli ufficiali di più recente nomina, segretamente fedeli all’imperatore Eraclio. Giungevano per di più voci non meglio confermate, fastidiosi rumores, di una richiesta di aiuto fatta dall’arcivescovo di Ravenna proprio al basileus.
Il tempo stringeva.
Sulla strada per Roma, Eleuterio s’imbatté nella prima delle piazzeforti avverse all’idea di un Regnum Italiae indipendente: Castrum Luceolis. Non era niente più che un vicus, posto nel territorio sotto giurisdizione di Perusia (l’odierna Perugia), punto strategico nella rete viaria tra Ravenna e Roma. Non sarebbe stato troppo difficile impossessarsene. Un’azione rapida e letale risultava l’opzione più efficace. Tutto era pronto, macchinari per scagliare proietti e formazioni di combattenti pronti per aprire una breccia nelle mura.
Il piano però non funzionò: Eleuterio si ritrovò a combattere nel suo stesso accampamento. I tribuni dell’esercito si erano rivoltati in segno di fedeltà all’imperatore Eraclio, quali mandanti della giustizia costantinopolitana.

Eleuterio-Ismailius, in quanto reo di alto tradimento (crimen maiestatis), doveva essere giustiziato immediatamente. Non poteva vantare alcuna possibilità di grazia. L’antica appellatio caesaris gli era stata negata. Circondato, preso e legato come un comune criminale, l’esarca venne tolto di mezzo di fronte alle truppe che fino a poco prima aveva trionfalmente capitanato.
Secondo le fonti, le quali concordano solo su questo macabro dettaglio, gli venne applicata la amputatio capitis. La testa, quindi recisa e poi avvolta nel mantello del comando (paludamentum), fu messa in un sacco e spedita rapidamente a Costantinopoli. Si trattava di mera formalità, segno di conferma del riconoscimento all’autorità del basileus. Eraclio trionfava ancora e una volta sull’ennesimo usurpatore.

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Abbazia fortificata di Scheggia, dove un tempo sorgeva il praetorium di Castrum Luceolis

L’Italia ai confini dell’impero

Finiva così, nel più nefando dei modi, l’ultimo tentativo romano di renovatio imperii nella metà occidentale dell’impero, secondo il quale l’Occidente si sarebbe potuto auto-governare ancora e una volta, rinnovando il trono dei Cesari nell’Urbe.
Nella prima corsa per l’incoronazione a Roma, si aveva un preannuncio della base religiosa di ogni potere d’imperio lungo tutto il Medioevo. Altre ne sarebbero seguite, a partire dall’ascesa di Carlo Magno, due secoli dopo, sacro imperatore dei Franchi. Nessun altro avrebbe garantito l’antico sogno di rinascita di Roma quale capitale a sé stante.
Nemmeno più i basileus di Costantinopoli, per diverse decadi, avrebbero anche solo carezzato concretamente l’idea di riprendersi i territori un tempo appartenuti all’Orbs romana, totalmente assorbiti dallo stato di guerra continuo a Oriente e nei Balcani.
Si sarebbe dovuto aspettare solo il termine del secolo, con l’azione di Costante II. Al centro di un Mediterraneo ora messo alle strette da una nuova minaccia proveniente dalle dune arabiche, la penisola non era che una tra le provinciae più rovinose. L’Italia sarebbe quindi rimasta semplice periferia dell’Ecumene, senza possibilità di riscatto al di fuori del controllo esarcale di Ravenna. Sede e rappresentanza di un impero troppo lontano, sulle acque di quel Bosforo ora nuovo crocevia del mondo.

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Bibliografia

Giorgio Ravegnani, I Bizantini in Italia, Bologna, Il Mulino, 2004,
Giorgio Ravegnani, Bisanzio e Venezia, Bologna, Il Mulino, 2006
Giorgio Ravegnani, Bisanzio e l’Occidente Medievale, Il Mulino, 2019
Giorgio Ravegnani, Gli Esarchi d’Italia, Aracne, 2011
Mirko Rizzotto, Ismailius e la renovatio imperii occidentalis: Eraclio e la rivolta dell’esarca Eleuterio, Porphyra, n.12, dicembre 2008

 

 


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