Una delle grandi capacità di sopravvivenza dei Romani attraverso i secoli, anche nei momenti più bui della loro Storia, è quelle di adattarsi ai propri nemici, che sia per armamenti o tattiche.
Questo è ancora vero, nonostante gli innumerevoli cambiamenti nel corso dei secoli, ancora negli ultimi due secoli di vita dell’impero.
Lo vediamo bene nelle tattiche che i Romani decidono di adottare contro i cavalieri pesanti occidentali.
Questi guerrieri sono definiti nelle fonti in vario modo: “Franchi”, “Latini”, “Italiani” (quest’ultimo termine spesso applicato in modo generalista anche a europei non provenienti dall’Italia, come i Catalani).
Da una parte, si può ben affermare che i Romani sembrano semplicemente osservare e mantenere credenze sui guerrieri occidentali, di ascendenza “germanica” potremmo dire, che già si datano almeno al tempo di Maurizio Tiberio: nel suo Strategikon di VI sec., i “popoli dai capelli biondi” sono coraggiosi e audaci, si lanciano in cariche impetuose ma perdono ben presto disciplina, slancio e vigore.
Se questa nozione può, dal XIII secolo in poi, sembrare ripresa direttamente dalle fonti antiche, in realtà si nota come abbia dei profondi agganci con il reale.
Infatti, le tattiche della cavalleria medievale occidentale sono basate soprattutto su cariche di masse compatte di cavalieri (nel linguaggio del XII-XIII sec., 𝘣𝘢𝘵𝘢𝘪𝘭𝘭𝘦𝘴, 𝘤𝘰𝘯𝘳𝘰𝘪𝘴, etc.,), atte a rompere le schieramento avversario e a giungere al corpo a corpo, nel quale far valere il proprio armamento più pesante.
Gli autori romani notano inoltre i cambiamenti e gli aggiornamenti dei loro avversari (nonché truppe mercenarie). Nelle loro cronache, i Romani annotano per esempio come i cavalieri Latini abbiano armature sempre più pesanti e protettive – a partire dalle corazzine del XIII sec., fino alle successive armature a piastre.
Questo porta a un altro cambiamento che viene sempre annotato dagli autori romani, ovvero l’aumento di stazza dei cavalli occidentali, che vengono descritti come “imponenti” o “torreggianti”.
Questi tratti sono per esempio enfatizzati nella descrizione dei cavalieri latini nella battaglia di Adrianopoli del 1205 contro i Bulgari, nonché nella battaglia di Pelagonia del 1261.
Ora, i Romani naturalmente hanno ancora in questo periodo i loro reparti di cavalleria pesante, forniti dai pronoiari più facoltosi e dai mercenari latini al loro servizio.
Tuttavia, questi cavalieri pesanti non vengono usualmente impiegati contro i loro corrispettivi occidentali.
Infatti, alla battaglia di Pelagonia la cavalleria pesante non viene schierata o impiegata, mentre per il 1262, lo storico Pachimere riferisce che la forza di Costantino Paleologo (figlio di Andronico II) non comprendeva “Italiani” perché non sarebbe stato appropriato farli combattere contro altri “Italiani”.
[Leggi anche La battaglia di Pelagonia (1259). Il primo trionfo dei Paleologi]
[Leggi anche Nemici dell’impero romano. Kalojan, il “massacratore di Romani”]
Questa notazione non ha a che fare con l’etnia o la provenienza geografica in genere (come già accennato, per “Italiani” si intende una vasta gamma di genti e guerrieri europei in realtà), quanto proprio con le tattiche adoperate contro i cavalieri occidentali.
Quali siano queste tattiche lo sintetizza bene l’autore occidentale della Cronaca di Morea, datata al XIV secolo e che dipinge i Romani in maniera ostile.
Secondo quest’opera, i Romani eviterebbero appositamente lo scontro in campo aperto contro i cavalieri latini, e che “non avrebbero combattuto i Franchi con le lance, ma con gli archi”.
Infatti, contro i cavalieri latini la tattica romana preferita e usuale è quella della finta ritirata, con la quale far lanciare all’inseguimento il nemico per stancarlo, seguita da fitti lanci di frecce da parte degli arcieri a cavallo – siano essi Romani o, più spesso, mercenari Turchi, Cumani e Peceneghi, esperti in questo tipo di guerra, testimoniata per diverse battaglie del XIII e XIV secolo.
Una tattica che, seppur disprezzata, anche l’autore della Cronaca di Morea deve riconoscere come estremamente efficace: “stratagemmi e tattiche astute vincono contro il coraggio.”
Tra l’altro, questa tattica è ancora più disprezzata dai latini in quanto, sempre come riferisce la Cronaca di Morea, gli arcieri a cavallo spesso volutamente non mirano ai cavalieri occidentali, le cui armature li proteggono molto efficacemente, ma ai loro preziosi cavalli (nella prassi europea del combattimento, anche se a volte veniva fatto, uccidere volutamente i cavalli avversari era considerato disonorevole).
Il motivo dietro a questa tattica mordi e fuggi, che spesso si rivela molto efficace contro i Latini, è quello di far rompere le formazioni nemiche, particolarmente con un inseguimento disordinato.
Lo sintetizza bene lo storico Niceforo Gregora: “Quando gli Italiani combattono in maniera ordinata, è come un muro fortificato e imprendibile. Tuttavia, se rompono un poco i loro ranghi, non c’è nulla che impedisca ai loro nemici di catturarli come prigionieri.”
[Leggi anche Gli ultimi eserciti romani (XIII-XV sec.). Dalla Quarta Crociata alla fine dell’impero]
Bibliografia essenziale
M.C. Bartusis 1997, The Late Byzantine Army. Arms and Society
S. Kyriakidis 2011, Warfare in Late Byzantium 1204-1453
A. Negin, R. D’Amato 2020, Roman Heavy Cavalry (2). AD 500-1450
Articolo interessante come sempre ma mi chiedevo, benché sia un periodo storico completamente diverso, come conciliare in questo contesto di adattabilità le tattiche militari degli unni?
Ormai diversi anni fa (una ventina?) lessi uno splendido libro di Peter Heather (“La caduta dell’impero romano”) secondo il quale i romani erano stati in grado di adattarsi sia alla cavalleria leggera degli sciti (che usavano gli archi) che a quella pesante dei sarmati. Con gli unni invece non vi riuscirono a causa dell’efficienza del loro arco che, sebbene di piccole dimensioni per poter essere usato a cavallo, riusciva comunque ad avere una grande gittata. (spero di non aver fatto confusione con i nomi dei popoli e delle armi usate ma la sostanza dovrebbe essere più o meno questa!)…
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