Già tempo fa, mi ero occupata qui della medicina romana, e della figura delle donne medico nella Tarda Antichità, in particolare di Metrodora. Ma la ricerca e lo studio non si fermano mai, e dopo anni, ho deciso di tornare sul tema e condividere anche qui ciò che ho scoperto.
Questo articolo cerca di sfatare il consolidato topos, del resto già esistente nel mondo antico, per cui alle donne, in epoca romana, che esercitavano una professione medica, non era concessa alcuna fiducia, almeno che non si comportassero come un uomo (more virum). Ausonio, ancora nella tarda antichità, ricordando affettuosamente la zia materna Aemilia Hilaria, virgo devota e dedita all’arte medica, dice: “reddebas verum non dissimulanter ephebum, more virum medicis artibus experiens“.
In alcuni studi recenti, si tende a considerare il termine medica come un sinonimo di obstetrix, e dunque a restringere il campo d’azione delle donne medicae solo al campo dell’ostetricia e della ginecologia; ma l’esistenza di termini diversi nella lingua latina deve per forza far supporre che queste donne svolgevano in realtà attività differenti.
Il problema delle donne medico nel mondo romano è dunque alquanto complesso, non solo per l’abbondanza del lessico utilizzato per designare queste donne attive a vari livelli nell’arte medica; ma anche per la scarsità delle fonti letterarie, molte delle quali di epoca tarda e limitate a rapidi accenni. A colmare però vi è un discreto numero di epigrafi e iscrizioni, distribuite su un arco cronologico molto più ampio, dalla metà del I secolo a.C. alla fine del IV secolo d.C.
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Le origini
Nell’ambito delle cosiddette professioni intellettuali, la medicina era tra le poche occupazioni che potevano essere svolte anche dalle donne. Ciò è confermato da varie fonti letterarie, epigrafiche, archeologiche, e giuridiche, che testimoniano in maniera inequivocabile che la professione medica nel mondo romano era accessibile alle donne. Le fonti letterarie tuttavia riflettono il consolidato stereotipo del mondo antico per cui i medici capaci sono solamente uomini, e se il medico è una donna, merita credibilità solo se si comporta come un uomo.
Dopotutto, il parto, le cure, e i relativi riti erano considerati delle faccende femminili. Le malattie femminili divennero oggetto di studio in Grecia con Ippocrate, e con la maggior conoscenza del corpo femminile, comparirono anche le prime donne medico.
La prima testimonianza a noi nota è relativa a Fanostrate, definita μαῖα καὶ ἰατρὸς, ossia “medico e ostetrica”. Nella stele che la commemora si legge: “la levatrice e medico Phanostrate giace qui, non ha causato dolore a nessuno e, essendo morta, manca a tutti”. L’utilizzo del termine maschile iatros dimostra che ancora la competenza medica generale era considerata di pertinenza maschile. La parola iatrine ( al femminile ) apparve solo in epoca ellenistica, forse proprio a seguito dell’aumento del numero di donne che esercitavano tale professione.
L’età ellenistica
Tradizionalmente, l’età ellenistica è quel periodo che va dalla morte di Alessandro alla conquista romana dell’Egitto. Questo fu un momento in cui la condizione di vita delle donne mutò, ampliando le loro capacità giuridiche, la partecipazione alla vita pubblica, e la concezione femminile stessa. Papiri, epigrafi, e altri testi testimoniano la presenza e l’attività femminile in ambito medico, e non soltanto per le cura di problemi prettamente femminili come quelli relativi a una gravidanza o altri disturbi ginecologici.
Il termine usato per indicare queste donne è iatrine / medica, ossia parole che indicano l’esercizio della professione medica in senso lato e in virtù di una formazione specialistica. Lo stesso Sorano di Efeso nel II secolo d.C. afferma che le iatrinai dovevano sapere leggere e scrivere, dedicarsi allo studio dei testi, avere buona memoria, e rinunciare alla tessitura per non danneggiare la sensibilità delle dita.
Non è del tutto chiaro come si svolgesse lo studio, dato che alle donne non era permesso frequentare scuole di medicina. Con molta probabilità, entravano in possesso di questi testi attraverso membri maschi della famiglia, con i quali praticavano tale attività in associazione (raramente l’esercitavano in modo autonomo), oppure svolgendo il ruolo di assistenti presso physici dotti.
L’epitaffio di Mousa, datato tra il II e il I secolo a.C. e proveniente da Bisanzio, costituisce dunque una documentazione della considerazione che queste donne ebbero in ambito medico. Tra le mani, la donna stringe un volumen rimando ai suoi studi e alla sua cultura, simbolo di competenza scientifica, piuttosto ricorrente nelle raffigurazioni maschili.
Il nome Mousa potrebbe essere uno pseudonimo, che richiama la cultura di questa donna. I due cani invece potrebbero alludere al dio Asclepio.
Interessante notare che nell’epitaffio non si accenna allo stato civile della donna, che risulta non sposata, dimostrazione dell’affrancamento dell’attività professionale dal contesto medico-coniuge.
Un’altra testimonianza dall’Asia Minore è datata alla prima metà del I secolo a.C. Si tratta di una dedica onoraria insolita, in quanto il dedicatore e il dedicatario del monumento funerario coincidono. Medica di nobili natali, Antiochis, figlia di Diodoto, esercitava l’iatrike tékne nella città di Tlos. Galeno ricorda due volte una Antiochis nel De compositione medicamentorum secundum locos come inventrice di un farmaco, una panacea utile contro i dolori alla sciatica, alla milza, e i reumatismi. Il medico la cita inoltre come dedicataria di un trattato di farmacologia del I secolo d.C. di Eraclide di Taranto. Queste menzioni fanno supporre che si trattasse di una famosa professionista, tuttavia non vi sono prove inequivocabili che si tratti della stessa persona dell’epitaffio. E’ particolarmente rilevante, inoltre, che l’etnico Τλωίς concordi con il soggetto, ovvero Antiochis, e non col padre, Diodoto, questo è un sintomo dell’emancipazione giuridica conquistata dalle donne dell’Asia Minore in questa epoca. Infatti, l’etnico raramente veniva apposto alle donne.
Anche Antiochis, come Mousa, non sembra essere sposata, o comunque non vi è alcun accenno alla sua condizione matrimoniale.
La “corrispondenza di amorosi sensi” professionali e matrimoniali è al contrario il tema principale dell’epitaffio che Glycone ha fatto incidere per la moglie Pantheia sul supporto marmoreo di un altare. Siamo davanti a un raro esempio di apparente eguaglianza dei ruoli in ambito pubblico, anche se agli occhi del marito la professione di Pantheia è comunque eccezionale, infatti dice “pur essendo donna”.
L’Occidente romano
Simili modalità di denominazione delle donne medico si riscontrano anche nella documentazione epigrafica dell’occidente latino, dove la maggior parte sono ricordate come medicae.
Nella lingua latina esistono tre differenti termini ( medicae, obstetrices, e iatromae ) per indicare le diverse professioni mediche svolte dalle donne. A differenza delle medicae, le obstetrices non ricevevano una vera e propria istruzione teorica. Queste si occupavano principalmente di disturbi ginecologici e di patologie legate all’apparato genitale femminile. E la figura professionale della obstetrix era svolta soltanto da donne. La stessa etimologia della parola significa “colei che sta davanti”, in riferimento alla posizione che ella assumeva durante il parto. Sorano, nei suoi testi, descrive l’obstetrix ideale: essa doveva avere mani morbide e unghie corte, e doveva parlare in maniera dolce e rassicurante per placare le ansie della partoriente. Lo status sociale di queste donne era solitamente quello di schiave o liberte, infatti spesso i schiavi che si occupavano di medicina venivano istruiti in casa dal loro padrone.
La maggior parte delle epigrafi, provenienti da Roma, pertinenti alle levatrici sono semplici lastre di colombari, collocazione che le pone all’interno di una dimensione domestica.
In età imperiale, cambiamenti sociali e culturali, anche alle obstetrices era fornita un’adeguata preparazione teorica, la cui formazione avveniva sia attraverso l’esperienza diretta sul campo, sia mediante lo studio. Di tale cambiamento abbiamo testimonianza soprattutto dall’ambito giuridico. A partire dall’epoca severiana, esse divennero consulenti dei giudici nei casi di maternità sospetta, e in quanto esperte di medica, ricevettero la cognitio extra ordinem per rivendicare i loro onorari. Dunque, medici (siano essi uomini o donne, liberi o schiavi) e obstetrices godevano degli stessi diritti salariali e si avvalevano delle medesime procedure giuridiche per rivendicarli.
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Per quanto riguarda le medicae, la loro estrazione sociale sembrerebbe essere più elevata di quella delle obstetrices, ma vi erano anche liberte e schiave. Forse portavano avanti la “tradizione di famiglia”, e nella maggior parte dei casi i loro cognomina risultano di origine greca o comunque grecizzanti.
Celsio Aureliano (attorno al V secolo d.C.) afferma che: “gli antichi hanno istituito le medicae affinché le malattie degli organi genitali femminili non siano offerte agli occhi degli uomini per essere esaminate”. Tuttavia, come abbiamo già accennato queste non si occupavano solo ed esclusivamente di ginecologica, come si pensava, anche se sicuramente il senso del pudore delle donne romane ha contribuito a tale specializzazione delle medicae; ma i dati epigrafi e archeologici a nostra disposizione ci mostrano una realtà dei fatti molto più complessa e varia. Si faceva ricorso ai medici solo se ritenuti più competenti, e all’interno della corte imperiale e nelle comunità cristiane, i medici curavano anche le donne. Così come le medicae curavano anche gli uomini: un’epigramma di II secolo d.C. infatti ricorda una certa Iulia Eutychiane, medico che godeva di una certa fama come guaritrice di uomini e come ostetrica per le donne; o come un’altra iscrizione, purtroppo mutila, che ricorda una medica castrensis, ossia un medico militare con una formazione specifica in traumatologia bellica.
Più complessa è la questione relativa alla salute e alla cura delle Vestali, che, stando alla testimonianza di Plinio, sarebbero state affidate alle cure di una matrona.
Le fonti letterarie, inoltre, considerano la presenza delle medicae un fatto del tutto normale. Marziale le descrive con una certa ironia incapaci di curare l’isteria di una giovane donna; mentre nelle Metamorfosi di Apuleio, Psyche si lamenta di dover svolgere i compiti di una medicae e non quelli di moglie.
Dunque, così come i colleghi uomini, le donne medico possedevano un approccio generale della pratica medica (Nevia Clara, moglie di un medicus chirurgos, meritò il titolo di medica philologa), ma anche delle specializzazioni: abbiamo, ad esempio, un’iscrizione che menziona una medica a mammis, ossia specializzata nelle patologie del seno. Strumenti chirurgici sono stati ritrovati in sepolture di donne, che svolgevano quindi una professione medica. Tali oggetti permettono inoltre di individuare la loro specializzazione: ad esempio, dal cimitero dei pressi del campo militare di Vindonissa proviene l’urna di una donna, deceduta in un’età compresa tra i diciotto e i venticinque anni, assieme ad un bambino. La sepoltura è datata al 40 – 50 d.C., e contiene un set di strumenti chirurgici. La tomba di un’altra chirurga, risalente al II secolo d.C., è stata ritrovata nei pressi del campo militare di Neuenheim. Sempre dello stesso periodo, è la tomba di un’altra donna con la stessa specializzazione rinvenuta nella Grecia Settentrionale. Infine, da Stree, nella Germania Superior, una sepoltura particolare: la professione medica della donna è rintracciabile dal corredo funerario, composto da vari strumenti medici, bisturi, e il manico di un rasoio; ma la presenza di due fibule caratterizzano come celtico l’abbigliamento della donna.
Da Wederath in Belgio siamo a conoscenza della sepoltura di una dentista, risalente a prima del 100 d.C. La professione di ocularia invece era esercitata da un’altra donna rinvenuta a Saint-Médard-des-Prés, e datata tra il II e il III secolo d.C., la professione è confermata dalla composizione chimica dei materiali ritrovati nei vari contenitori che componevano il corredo, identificati come farmaci usati in oculistica.
La latinizzazione del termine iatromea è presente solo nell’arco di tempo ascrivibile al III – IV secolo d.C., e di tale parola abbiamo solo due esempi da Roma. In entrambi i casi, i cognomina delle due donne sono di origine greca, ma l’adozione dell’uso dei tria nomina è forse frutto della tendenza mimetica dei genitori di ascendenza peregrina ad attribuire ai figli un’onomastica latina.
Questa parola potrebbe indicare una figura al limite tra la medica e la levatrice, una figura professionale che sommava in sé entrambe le caratteristiche.
Tarda Antichità
Nel 368 d.C., l’imperatore Valentiniano I istituì un servizio sanitario pubblico.
Al IV secolo d.C. o forse a un’età successiva, risale il titolo di ἀρχιειτρήνα, attribuito ad Augusta, una donna cristiana, vissuta in Licaonia. Il marito ricorda che Augusta ha guarito molti corpi malati, il che fa pensare che la donna esercitasse un ruolo pubblico come medico ufficiale della città o magari semplicemente era un medico molto stimato, che seguendo i precetti della morale cristiana, assisteva i poveri che necessitavano di cure mediche.
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