Il problema della conversione delle popolazioni barbariche al cristianesimo ha da sempre affascinato la storiografia moderna, in quanto il tema spesso si sovrappone e si interseca con quella della formazione dell’Europa cristiana.
All’interno di questo tema, una questione di particolare rilevanza è la ragione per cui tutte le popolazioni barbariche, fatta eccezione per quella dei Franchi, aderirono e mantennero una forma di cristianesimo di tipo ariano. In tale panorama, la conversione dei Goti spicca per importanza, in quanto si tratterebbe del primo caso di conversione di massa di un popolo germanico al credo cristiano, e in secondo luogo sarebbero stati proprio i Goti ad aver veicolato le dottrine eretiche presso gli altri popoli barbarici. Inoltre, da un punto di vista storiografico, solo nel caso dei Goti abbiamo a disposizione un certo numero di informazioni, anche se frammentarie, relative a tutte le fasi della conversione: dai primi contatti col cristianesimo nel III secolo d.C., fino allo stanziamento in Gallia e poi in Spagna.
La cristianizzazione del popolo dei Goti sarebbe avvenuta sotto l’influsso del vescovo Wulfila.
L’adesione e il mantenimento della fede ariana sarebbe inoltre considerato da alcuni studiosi come un simbolo identitario del popolo dei Goti, in netta contrapposizione con le dottrine proposte dal Concilio di Nicea e di conseguenza col potere esercitato dall’Impero. Ma vediamo di capire insieme come stanno realmente i fatti.
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Problemi di “identità” e origine dei Goti
Prima di iniziare a entrare nel vivo della questione, vi sono alcuni caratteri e modalità da discutere. In primo luogo, non dobbiamo tralasciare le relazioni politiche, militari, e diplomatiche tra Romani e Goti, in cui l’elemento religioso va a costituire un forte elemento di identificazione e di autoaffermazione di sé rispetto all’altro. Ma affermare ciò, vuol dire allo stesso tempo attribuire ai Goti la volontà immutabile di evitare una qualsiasi forma di assimilazione al mondo romano.
Le origini del popolo dei Goti sono alquanto incerte e soggette alle più disparate interpretazioni. Secondo la teoria classica dell’etnogenesi, alla base della formazione dell’entità etnica di un popolo non andrebbe identificata una discendenza biologica, ma bensì un Traditionskern, ossia un “nucleo di tradizioni”, che sarebbe tramandata dagli esponenti del gruppo. Il nucleo di tradizioni diventa così l’insieme di elementi che il gruppo riconosce come distintivi della propria identità etnica.
Per quanto concerne i Goti, non è possibile tracciare con certezza una storia delle loro origini, l’unico testo a nostra disposizione che ne ripercorre la storia dal principio è la Getica di Giordane, uno storiografo di origine gotica della metà del VI secolo d.C. Egli narra di una lunga migrazione dei Goti dalla Scandinavia fino alle coste del Mar Nero e del Mar d’Azov, sotto la guida di due famiglie (i Balthi e gli Amali, che in seguito avrebbero dato origine ai Visigoti e agli Ostrogoti). La ricostruzione dei fatti fornita dall’autore però non può essere considerata pienamente attendibile (specie in assenza di altre fonti a sostegno di questa). Le fonti alla base della Getica sarebbero quelle di Cassiodoro e di Abladio, entrambe perdute. Ma se del secondo non sappiano nulla, di Cassiodoro possiamo affermare con certezza che quello che lui voleva offrire dei Goti era una rappresentazioni ufficiale al fine di legittimare il regno di Teodorico, rintracciandone un origine antica e un prestigio nella stirpe degli Amali.
La “nascita dei Goti”, così come intesi nelle fonti, andrebbe fatta risalire solo al III secolo d.C., quando questi appaiono nei documenti romani.
L’origine dei Goti fra mito e realtà
Come già accennato la notizia della migrazione dei Goti dalla lontana Scandinavia fino al Mar d’Azov ci è nota al testo dello storico Giordane, vissuto nel VI secolo d.C., il quale dichiara di essere di origine gota egli stesso. Egli ricorda che la vicenda sarebbe stata tramandata negli antichi carmi, basandosi sulla testimonianza di un altro autore, Ablabio, della cui esistenza alcuni peraltro dubitano. I Goti sono definiti da Giordane “acre hominum genus et ad bella promptissimum“. Il loro popolo sarebbe stato originario dell’isola di Scandia (definita “quasi officina gentium aut certe velut vagina nationum“). Dopo varie vicessitudini i Goti si sarebbero stanziati presso il mar Nero. Nel testo inoltre vi è menzione di un loro primo stanziamento presso la palude Meotide, nell’attuale Ucraina.
Tuttavia, molti autori moderni credono all’esistenza di queste tradizioni orali, ma non accettano la veridicità dei loro contenuti, e di conseguenza ritengono del tutto inattendibile il testo di Giordane. Tali cautele degli storici vanno confrontate con i dati forniti dalla ricerca archeologica, che da tempo ha creduto di poter individuare nella cultura di Wielbark (sulle rive del mar Baltico e diffusa già dal I secolo d.C.) tracce della prima presenza dei Goti, e nella cultura di Cherniakow (Ucraina) e Sântana de Mureș (Romania) la loro zona di stanziamento dal III secolo d.C.
La cultura di Wielbark, sviluppatasi in Pomerania in un’area in precedenza occupata dalla cultura di Przeworsk, è stata soggetta a scavi sin dal 1873. Tali ricerche hanno portato alla luce numerose sepolture, sia a cremazione sia a inumazione, disposte in circoli e coperte da pietre, o segnalate da steli, che contenevano elementi pertinenti al vestiario. Molti studiosi sono propensi a ritenere che quella di Wielbark sia il risultato dell’evoluzione della cultura indigena di Oksywie, con eventuali influssi dall’area scandinava. Essa sarebbe stata dunque espressione di più popolazioni: Goti, Gepidi, e i locali Venedi e Rugi. La cultura di Wielbark avrebbe quindi soppiantato quella precedente, e all’inizio del III secolo d.C. molti dei suoi promotori si sarebbero mossi più a sud.
Gli archeologi infatti sono propensi a ritenere che nella Tarda Antichità nell’Europa Orientale siano convissute popolazioni dai nomi diversi, con caratteristiche culturali altrettanto diverse, ma che poterono essere interpretate dagli autori romani come entità uniche e unitarie.
Quindi né le affermazioni di Giordane né il materiale archeologico in nostro possesso sembrano fornire argomentazioni inoppugnabili, ma paiono in ogni caso non essere tra loro incompatibili.
I Goti sono dunque noti spesso solo tramite l’interpretatio romana, soprattutto a partire dagli ultimi decenni del IV secolo d.C.
Essi appaiono per la prima volta, come narra lo storico Dexippo nel 269 d.C., quando attaccano l’Histria. In seguito, l’imperatore Claudio II li sconfisse a Naissus (Niš), e per tale ragione ottenne il titolo di “Gotico”. Nel 332 d.C., si registra da parte dell’imperatore Costantino un tentativo di cristianizzazione. Dopidichè, durante il regno di Valente, sono ricordati per la clamorosa battaglia di Adrianopoli del 378 d.C. Sul finire del IV secolo d.C., l’autore Claudio Claudiano scrisse della vittoria di Stilicone contro Alarico. Nel 395 d.C., i Goti, approfittando di un dissidio tra Stilicone e Rufino, giungono dapprima in Dalmazia e poi nuovamente in Grecia, occupandone una parte.
Nelle fonti coeve, i Goti sono designati come “barbari” per via del loro atteggiamento e del loro costume. Secondo un topos comune dell’epoca sarebbe stati definiti pelliti, ovvero “coperti di pelli”. Recenti studi smentiscono tuttavia tale affermazione: un’accurata analisi di resti di tessuto attaccati a una fibbia di una sepoltura gota in Piemonte hanno permesso di dimostrare che anche i Goti non disdegnavano vesti di seta. Anche in un’iscrizione musiva della primitiva chiesa paleocristiana sotto la cattedrale di Santa Maria di Jesolo (VE) è fatta menzione di un Georgius Olosericus, che sembrerebbe appunto essere stato un mercante di seta. Ciò evidenzia che l’élite dei Goti non ignorava né tantomeno disprezzava il gusto e la moda del mondo romano.
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I Goti in Italia
Lo stanziamento dei Goti nei territori della penisola italiana non comportò una distribuzione omogena dei nuovi immigrati nella penisola. Il confronto tra le rare testimonianze scritte e il dato archeologico indagato fino a oggi permette di individuare le aree dell’insediamento dei Goti, ovvero quelle settentrionali e solo parzialmente quelle centrali (in contesti appenninici e lungo la fascia costiera adriatica, dove vi era un’alta concentrazioni di presidi militari atti a controllare le grandi vie di collegamento attraverso i valichi appenninici dal nord verso il meridione e dalla costa in direzione dell’entroterra). Una simile concentrazione di Goti nelle province settentrionale si può riscontrare nelle fonti letterarie, in particolare nelle Variae di Cassiodoro e in Agazia, ma si trova conferma anche nei riscontri archeologici nelle regioni padane, prealpine e alpine, in Emilia Romagna e nelle Marche.
Non è inoltre escluso che gruppi di Goti siano entrati in Italia a partire dal III secolo d.C., come parte dell’esercito romano o come prigionieri di guerra. Si ritiene che molti di essi siano giunti ad Aquileia (UD) con l’imperatore Teodosio nel 388 d.C. Ambrogio e Pacato riferiscono che Teodosio, dopo aver sconfitto a Siscia (attuale Sisak – Croazia) e a Poetovio (l’odierna Ptuj – Slovenia) le truppe di Magno Massimo giunto a Emona (Ljubljana – Slovenia), li avrebbe inviati in Pannonia; mentre Zosimo riporta che un gruppo di barbari federati passò con l’esercito teodosiano in Italia e fu molto importante per l’espugnazione di Aquileia (UD).
I nuclei principali dello stanziamento dei Goti nella penisola erano collocati nei seguenti territori di: pianura padana occidentale e il corrispondente arco alpino; le odierne regioni di Veneto, Friuli, e Trentino; l’area a ovest di Ravenna e a sud lungo la costa adriatica tra le attuali Romagna e Marche; il Piceno e il Sannio settentrionale.
I Goti si concentrarono dunque nelle zone di maggior rilevanza strategica della penisola. La salvaguardia del confine alpino rappresentò infatti uno dei principali motivi di concentrazione dei Goti nelle regioni settentrionali della penisola italiana. Nell’area alpina furono inoltre in grado di riutilizzare il sistema romano di fortificazioni (Tractus Italiae circa Alpes). I castra e i castella utilizzati dai Goti si disponevano in corrispondenza delle clausurae alpine, queste fungevano da elemento di controllo del territorio e delle principali vie di transito.
I Goti inoltre privilegiarono città, che erano stata significative già in epoca romana, e delle quali poterono sfruttare le infrastrutture e le tradizionali capacità di inquadramento amministrativo e economico del territorio circostante, quali ad esempio: Milano, Tortona (AL), Aquileia (UD), e Roma. Qualche opzione differente dipese da fattori di riassetto degli equilibri locali o da precise mire strategiche, come ad esempio nel caso di Trento e Treviso. Le fonti scritte ricordano che nella cittadina veneta vennero fatte nuove opere edilizie allo scopo di restaurare gli antichi edifici, di consolidare le strutture difensive con l’innalzamento di opere fortificate protettive, e la presenza di guarnigioni militari.
Le tre città regie di Pavia, Verona, e Ravenna erano collegate tra loro da un sistema viario imperniato sul nodo dell’Ostiglia, importante crocevia di varie piste terresti e fluviali. Infatti, i Goti si impegnarono nel mantenimento della vecchia rete stradale e del cursus. In particolare, nel nord-est fu valorizzata la cosiddetta Stradalta, una pista che andava dal confine alpino nord-orientale fino a Verona, tagliando per la pianura friulana e veneta, e che in epoca romana aveva goduto di poca fortuna.
L’arco alpino orientale
Le scarse fonti letterarie offrono elementi insufficienti a definire con precisione la fisionomia etnica e le vicende storiche che interessarono l’arco alpino orientale nel VI secolo d.C. Sembra che a partire dal secolo precedente, gli abitanti della zona parlassero il latino (data la massiccia presenza di truppe romane), fatta eccezioni di alcuni luoghi isolati che, ancora nella tarda antichità, ospitavano gruppi ristretti che continuavano ad esprimersi nelle loro antiche parlate celtiche e illiriche. Durante il IV e il V secolo d.C., la presenza di milizie germaniche introdusse nella zona nuovi dialetti turingi e alamanni, mentre il gotico divenne una sorta di lingua franca.
Oltre la lingua, è ben testimoniate anche la presenza del cristianesimo di tipo ariano, come ben mette in luce il complesso di basiliche rinvenute in Carinzia, sull’Hemmaberg. Questo sito è assimilabile alla tipologia degli insediamenti d’altura che, a partire dalla tarda antichità, si moltiplicarono in tutta l’area, e che offrono interessanti tracce della presenza gota.
I Goti dunque si stanziarono nelle aree di confine o in quelle immediatamente allo loro spalle. Nell’arco alpino orientale occuparono posizioni territoriali che si estendevano a cavallo dello spartiacque alpino, con importanti pertinenze nel Norico e in Slovenia. Nel territorio nord-orientale della penisola italiana, tra Venero e Friuli, i dati sulla distribuzione della presenza gota sono tuttavia ancora poco numerosi. Da questo punto di vista potrebbe risultare interessante la circolazione delle monete gote, che sebbene non siano immediatamente riconducibili a tracce di una effettiva presenza gota, mostrano una distribuzione significativa e contribuiscono a confermare la frequentazione di alcuni siti. Inoltre, uno dei problemi che si è posto la storiografia negli ultimi anni è la possibilità di riconoscere le testimonianze della sovrapposizione delle popolazioni allogene al sistema insediativo autoctono. Da un punto di vista archeologico questo sembra possibile solo negli aspetti legati alla morte, mentre le fonti scritte contribuiscono a restituire un panorama molto variegato, anche se le testimonianze sono alquanto rare e non omogenee. Tuttavia, si può affermare che la situazione più comune fosse proprio quella di sovrapposizione e coesistenza con le popolazioni autoctone (numericamente superiori).
I Goti e Aquileia (UD)
La cittadina altoadriatica è in qualche modo in relazione con i Goti già a partire dall’inizio degli anni ottanta del IV secolo d.C. In quel periodo, in Pannonia era stanziato un gruppo trietnico di Goti, Unni, e Alani. Proprio questa presenza avrebbe consigliato di scegliere Aquileia, anziché Sirmium (attuale Sremska Mitrovica in Serbia), come sede del concilio del 381 d.C., a cui presero parte anche vescovi dell’area danubiana abitata dai Goti. Inoltre, un’eventuale dipendenza di carattere ecclesiastico di quella porzione del Danubio dalla chiesa aquileiese è stata sostenuta sulla base dell’epigrafe di Amanzio (423 d.C.), costui sarebbe stato vescovo di Iovia e anche missionario presso il suddetto gruppo trietnico. La sua missione potrebbe aver avuto luogo prima del 396 d.C., anno della morte di Teodosio, o nei primi anni del V secolo d.C. Questa potrebbe costituire la prova del fatto che la chiesa aquileiese avrebbe avuto ben prima della fine del VI secolo d.C. una funziona importante sulla scena “internazionale”.
I Goti, tra il 401 e il 402 d.C., si trattennero per lungo tempo nell’aquileiese. Tuttavia della loro presenza non è nota finora alcuna traccia prima della metà del V secolo d.C. Al terzo quarto del V secolo d.C., risalgono modesti indizi di una moda “gota” o danubiana anche in altri luoghi del Friuli, come nell’insediamento di Osoppo (UD), e la villa rustica di Privano, in corrispondenza del proseguimento verso il Timavo della via Postumia. Inoltre, forse in questo periodo o alla fine del secolo, era stanziato a Grado (GO) un certo Amara, che figura assieme con Valentinianus tra i donatori del paviemnto musivo della primitiva chiesa di Santa Maria delle Grazie a Grado.
L’Italia nord-occidentale
Le attuali regioni di Piemonte e Valle d’Aosta, suddivise al tempo di Teodorico, nelle provincie di Liguria e Alpes Cottiae, ricoprivano un rilevante ruolo di importanza strategica, militare, ed economica. L’esame delle fonti scritte (in particolare Cassiodoro, Ennodio, e Procopio), del dato archeologico, e della toponomastica ha permesso di individuare quali fossero le aree dello stanziamento dei Goti e di altri gruppi giunti in Italia attorno al 489 d.C. Tracce di presenze gote sono attestate in quattro differenti siti: Collegno (TO), Castelvecchio di Peveragno (CN), Frascaro (AL), e a Mombello Monferrato (AL). Una presenza numericamente rilevante di Ostrogoti appartenente all’aristocrazia guerriera è documentata da Procopio di Cesarea proprio in quest’area, tuttavia nessuno dei “castelli” di cui parla l’autore è stato fino ad ora individuato con certezza. Un centro alpino fortificato e occupato dai Goti potrebbe essere stato quello di Segusium (Susa – TO). Rare, ma comunque significative, sono inoltre le tracce di onomastica gota in epigrafi piemontesi: a Tortona (AL) e a Ivrea (TO) si conservano iscrizioni funerarie di due individui di chiara origine germanica – orientale (Sendefara e Droctarius). Altre due testimonianze epigrafiche, ora perdute, provengono da Suno (NO) e Voghera (PV), nelle quali si fa menzione della honesta femina [Al]igerna e del presbyter Berevulfus, qualificato come vir venerabilis. Un’ultima traccia di presenze gote nelle aree rurali piemontesi e valdostane è offerta dai toponimi che derivano dal nome sesto del popolo: Les Godiòz (AO), Gòdio (AL), Gaido (TO), Gòidi, Gudega, e Guddi. Altri forse sono riconducibili al nome del proprietario del fundus, come Daglio (AL) o Buttanengo (VB).
Una testimonianza del tutto particolare è data al ritrovamento a Collegno (TO) di uno scheletro di un bambino e di un adulto, che presentavano una deformazione cranica. Gli altri oggetti rinvenuti nella tomba denotano i defunti come membri dell’aristocrazia guerriera ostrogota. Le sepolture sono databili tra la fine del V secolo d.C. e il 560 d.C.
Questo, assieme a quello di Padova, sembrerebbero gli unici casi attestati in Italia di deformazione cranica. La tomba di Padova venne ritrovata nel 1880 nei pressi di piazza Capitaniato. Il cranio, di cui si conserva solo la regione neurocranica, è stato oggetto di studi e sembrerebbe essere appartenuto a un individuo femminile di bassa statura (154 cm). La deformazione in questo caso sarebbe caratterizzata dall’appiattimento tabulare del frontale e si avvicinerebbe al tipo “tabulare eretto/pseudo-semicircolare” di grado forte.
Ma mentre per Collegno (TO) è confermata l’attribuzione ai Goti, per la sepoltura di Padova non ci sono certezze, in quanto presenta una tipologia di tomba di tradizione autoctona e rivela elementi propri della tradizione romana, che potrebbero tuttavia essere stati adottati da una persona di etnia e cultura allogena.
Quello che si può dire in generale di questa pratica è che fu utilizzata sia per uomini, donne, e bambini. Nel territorio degli Unni, e dei vicini Gepidi, essa fu praticata dal V ai primi decenni del VI secolo d.C. Una documentazione abbondante proviene dall’Austria, dove fu in uso dalla fine del V secolo d.C. al primo terzo del secolo successivo. Ma vi sono casi attestati lungo il corso del Danubio (nell’attuale Bulgaria) in cui questa permane ancora nel IX secolo. Nell’Europa centrale e occidentale, questa pratica compare anche nel mondo germanico.
Wulfila e la nascita dell’identità gotica
Nella seconda metà del XVI secolo, in un momento di trasformazioni storiche e socio-politiche, nei paesi del Nord Europa si avvertì la necessità di appropriarsi di un passato politico e culturale non inferiore per importanza e gloria a quello rappresentato dall’Impero Romano, e quindi di trasformare le tradizioni locali in forme culturali atte a rivaleggiare con quelle latine e romanze. In questo nuovo clima, avvennero indagini autoctone sulle origini storico-mitiche dei Germani, venate da un’essenza di patriottismo, che spesso portò tali studiosi a formulare le ipotesi più disparate e a giungere a conclusioni a dir poco fantasiose.Proprio in tale contesto venne alla luce il principale manoscritto in lingua gotica, il Codex Argenteus, di cui fin dall’inizio venne percepita l’importanza culturale. Fino a quel momento, le conoscenza sulla storia delle popolazioni gotiche e della loro lingua erano alquanto scarse, congetturali, e inesatte. Il Codex Argenteus è un evangelario scritto con inchiostro d’argento e d’oro su pergamena purpurea. Dei 336 fogli originali solo 188 sono sopravvissuti. Con molta probabilità, il testo doveva servire alle necessità liturgiche: è infatti suddiviso in laiktjons (“letture”), e non in capitoli. La sua esatta origine rimane a tutt’oggi sconosciuta, anche se alcuni studiosi azzardano una possibile provenienza da un qualche scriptorium ostrogoto ravennate, dunque attribuiscono all’oggetto una destinazione alla corte teodericiana. Sicuramente, il Codex Argenteus appartiene alla stessa categoria del Codex Brixianus (un evangelario latino su pergamena purpurea) del quale riprende le ornamentazioni e la sequenza dei Vangeli.
Il codice venne rinvenuto nel monastero benedettino di Werden, nella Ruhr. All’inizio del XVII secolo, il codice era conservato nella biblioteca imperiale di Rodolfo II a Praga, ma nel 1648 venne portato in Svezia come bottino di guerra, ed entrò a far parte delle collezioni della regina Cristina. A seguito dell’abdicazione della sovrana, l’opera venne venduta e portata in Olanda, dove il filologo Franciscus Junius il giovane ne redisse la prima edizione integrale (1665). Allo stesso Junius si deve il primo glossario gotico e numerosi altri studi linguistico-filologici rimasti inediti. Dopodiché, il manoscritto venne nuovamente venduto al cancelliere svedese M. G. de la Gardie, che lo lasciò in dono nel 1669 alla Biblioteca dell’Università di Uppsala, dove si trova ancora oggi.
I primi studiosi a interessarsi a tale ritrovamento furono gli umanistici fiamminghi e tedeschi. La prima trascrizione vera e propria di testi gotici si deve a Johannes Goropius Becanus (1569), il quale nelle sue Origines Antwerpianae pubblicò il Pater noster e dei frammenti del Vangelo di Marco, copiati con numerosi errori, dal Codex Argenteus. La prima trattazione linguistica dedicata al gotico venne proposta da Bonaventura Vulcanius nel suo De literis et lingua getarum sive gothorum, pubblicato a Leida nel 1597.
Altre attestazioni di testi gotici sono alquanto scarne. Si tratta per lo più di altre tipologie di manoscritti contenenti frammenti del Nuovo Testamento, e una esigua parte del libro di Nehemia. Si conserva inoltre un frammento del calendario liturgico, che potrebbe essere stato portato direttamente dalla Mesia, data la menzioni di alcuni santi tipici di quei luoghi (ma ne parleremo meglio in seguito). Mentre, il testo gotico non biblico più esteso a noi noto è una parte del commento del Vangelo di Giovanni, conosciuto come Skeireins. Vanno inoltre menzionati anche due brevissimi atti notarli (Frabauhtabokos) di origini ravennati: uno perduto e il secondo datato al 551.
Il gotico è comunque l’unico rappresentante del ramo orientale del gruppo germanico della famiglia delle lingue indoeuropee. All’interno del gruppo germanico, il gotico costituisce la lingua di attestazione più antica: le primissime testimonianze di nordico, anglosassone, e antico alto tedesco sono più recenti di almeno quattrocento anni. L’alta datazione delle attestazioni fa del gotico la lingua germanica più arcaica e conservativa. Tuttavia, quasi nulla si può affermare su un’eventuale distinzione dialettale del gotico, dato lo scarso e insufficiente materiale a nostra disposizione. Alcuni studiosi sono convinti però che tali distinzioni non siano mai esistite o che comunque la distanza fosse tra le varie lingue germaniche ancora minima. Altre attestazioni minori del gotico (o di un antico nordico) riguardano antichissime iscrizioni: la prima sulla celebre lancia di Kowel (rinvenuta nel 1858 in Ucraina, e andata perduta), e l’iscrizione di Pietroassa (trovata in Romania nel 1837).
Tutti i testi gotici in nostro possesso sono scritti utilizzando l’alfabeto gotico, la cui invenzione è attribuita (il primo a fare tale associazione è stato Vulcanius, mentre le fonti antiche sono alquanto ambigue al riguardo) al vescovo Wulfila, al quale si deve anche la traduzione della Bibbia nella propria lingua nella seconda metà del IV secolo d.C. Sicuramente, la traduzione dei Testi Sacri e la nascita di un alfabeto hanno contribuito al processo di creazione di un’identità etnica dei Goti.
L’alfabeto ideato da Wulfila aveva come modelli di riferimento il greco, il latino, e il runico (o forse un gotico pagano). Gli influssi certi sono quelli del latino e del greco: il primo per gli aspetti paleografici e filologici del Codex Argenteus e per la presenza di alcuni latinismi nel lessico gotico; il secondo soprattutto per l’influsso culturale della lingua e della letteratura greca secondo i canoni stilistico-letterati del IV secolo d.C., e soprattutto quelli diffusi negli ambienti ariani. In particolare, tali canoni vanno sotto il nome di atticismo, ovvero un classicismo linguistico e letterario, che prescriveva l’imitazione delle caratteristiche fonologiche, lessicali, e grammaticali della lingua degli autori attici del IV – III secolo a.C. Si trattava ovviamente di un’imitazione artificiosa, che imponeva una norma linguistica destituita e priva di ogni legame con la lingua parlata. L’atticismo era diffuso all’interno della corrente ariana, e il suo purismo linguistico aveva da sempre affascinato autori non greci. Tali influssi si notano nell’utilizzo del duale (del tutto assente nel Nuovo Testamento greco, e categoria morfologica che sarebbe in seguito scomparsa in quasi tutte le lingue germaniche), concordanza “a senso” di sostantivi singolari collettivi con verbo e aggettivo al plurale, e la pronuncia non rotacizzata. L’influsso del greco si nota anche nell’uso delle lettere come numerali. (Essendo comunque impossibile trattare in questa sede dell’aspetto della lingua gotica, si rimanda il lettore alla grammatica gotica di Mastrelli).
Non possiamo affermare di conoscere le forme esatte dei grafemi ideati da Wulfila, dato che le prime testimonianze scritte risalgono almeno a un secolo dopo la sua morte. Ciononostante, non si può negare che questo fosse stato percepito come un elemento peculiare e significativamente “gotico”. Ciò è ben dimostrato da fonti greche e latine coeve, e in altri casi siriache, che si estendono dalla Spagna visigota, alla Siria, e fino al XII secolo. Tali documenti ricordano il vescovo gotico Wulfila, e parlano del suo alfabeto definendolo litterae gothicae. La sua invenzione rivoluzionò il sistema germanico-gotico di comunicazione e coinvolse il mondo germanico nella sua interezza nel processo di affermazione e diffusione dell’alfabetizzazione cristiana.
La riflessione etnografica degli autori classici e cristiani contemplava diversi elementi come distintivi e marcatori dell’identità: la lingua, i costumi, gli armamenti e il modo di combattere, e ovviamente il diritto.
La creazione di un alfabeto ha contribuito allo sviluppo e all’affermazione di un’identità dei Goti. La scrittura costituisce infatti un elemento essenziale di strutturazione dell’identità, un elemento attraverso cui una comunità accresce il proprio patrimonio dei valori e della propria identificazione. Nelle tradizioni in cui la scrittura ha un inventore, questo molto spesso è un dio, o come in alcuni casi della tradizione cristiana Dio appare e ne fa dono (ne è un esempio la Vita paleoslava di Cirillo, cap. XIV, 14; o il racconto della vita del vescovo armeno Mesrop), un intervento divino diretto è però del tutto assente nella tradizione gotica. Tuttavia è l’alfabeto stesso a essere connotato di una certa sacralità, come ben testimoniano le parole di Aussenzio di Durostorum, discepolo di Wulfila, le quali esprimono un senso di gratitudine nei confronti del maestro “qui me sacras litteras docuit“. Tale passo, ovviamente, ci mostra un altro aspetto dell’attività del vescovo Wulfila, ossia quella di insegnante. Con molta probabilità, infatti, l’attività di copiatura dei testi gotici ha avuto inizio in Mesia già ai tempi di Wulfila, così come l’insegnamento ai suoi allievi dell’alfabeto e delle norme ortografiche.
Ma per apprezzare tale processo appieno bisogna considerare la frammentazione politica, sociale, e culturale del popolo dei Goti. Durante la Tarda Antichità, il mondo gotico era estremamente frastagliato e si trovava nel pieno di una profonda trasformazione, attestata non solo dal dato archeologico ma anche dalle fonti letterarie. I Goti erano sottoposti a tensioni di natura sociale, religiosa, ed etnica. Si potrebbe quasi parlare di una società in transizione, nella quale sono coinvolti anche popoli non germanici. Lo stesso Ammiano Marcellino, testimone contemporaneo di tali avvenimenti, parla di diverse compagini gotiche che si affacciarono sulle sponde del Danubio, e ci fornisce un’immagine della realtà gotica dinamica e complessa. E proprio in questa realtà, spicca il ruolo di Wulfila nel processo di ampliamento e definizione d’identità.
La seconda metà del IV secolo d.C. è un periodo di forte contrapposizione fra il mondo romano e quello gotico (barbarico), con un conseguente inasprimento degli elementi identitari. Il contributo del vescovo goto offriva dunque a queste comunità nuovi elementi decisivi per la definizione collettiva di sé stessi, ovvero l’elemento linguistico e quello religioso. Il primo rispondeva a un senso di insicurezza di fronte alla tradizionale politica romana di smantellamento e di assimilazione; il secondo era una risposta alla componente pagana ancora presente nella realtà gotica. Infatti, non va dimentica l’attività missionaria di Wulfila al di là del Danubio (e forse anche al nord del fiume).
Non mancano inoltre chiare testimonianze dell’impiego della traduzione wulfiliana nella liturgia: come l’impiego dei testi in lingua gotica da parte del clero visigotico attorno all’anno 440, al tempo del regno visigoto nelle Gallie Meridionali. Ciò fa supporre che la liturgia ariana fosse celebrata con testi in lingua gotica. E ancora nella prima metà del IX secolo, Valafrido Strabone abate di Reichenau attesta l’utilizzo nella liturgia del gotico nella zona del basso Danubio (in Crimea). E dal Chronicon di Rodrigo Ximenes si legge che nel 1091 il sinodo di Leon proibì l’uso liturgico della lingua gotica, il che implica che qualcuno ancora la adoperasse.
Ovviamente, l’impiego liturgico della lingua gotica lascia presupporre che il testo e l’alfabeto gotici fossero noti e diffusi.
L’ampia penetrazione sociale del testo di Wulfila e del suo alfabeto è inoltre confermata dal ritrovamento, attorno agli anni Cinquanta, in Ungheria nel cimitero di Hács-Béndekpuszta, di alcuni frammenti di una lamina di piombo con iscritto il Pater noster in gotico, e risalenti alla fine del V secolo d.C. Questa lamina sarebbe dunque la più antica testimonianza della lingua gotica. E se così fosse, sarebbe anche la prima testimonianza dell’accoglimento dell’alfabeto di Wulfila da parte degli Ostrogoti.
In Italia, la Chiesa Ariana e il potere politico degli Ostrogoti avranno per motivazioni ideologiche un grande interesse a preservare e a tramandare il testo e l’alfabeto di Wulfila, dato che l’eredità del vescovo costituirà un elemento di identità e di coesione anche per il clero ariano, privo di una struttura unitaria e centralizzata. Anche nel regno visigoto, il testo di Wulfila e il suo alfabeto saranno un elemento di differenza. I Visigoti andranno incontro (tra il V e il VI secolo) a mutamenti socioeconomici e culturali che li porteranno a una ridefinizione della propria identità politica e culturale, che sfocerà nell’abbandono dell’arianesimo e nell’accettazione del cattolicesimo nel terzo concilio di Toledo del 589. Nella nuova realtà della penisola iberica della fine del VI secolo d.C., la costruzione e la percezione dell’identità si alimentano di altri elementi: secondo quanto narrato nella Cronaca dello Pseudo Fredegario, il re Recaredo, dopo la conversione al cattolicesimo, farà raccogliere tutti i testi ariani e li farà bruciare (“post haec omnes Gothus, dum Arrianam sectam tenebant, Toletum adhunare precepit, et omnes libros Arrianos precepit ut presententur; quos in una domo conlocatis incendio concremare iussit“).
La cristianizzazione dei Goti
La convivenza e i contatti progressivi fra Romani e Goti è ben testimoniata proprio dalla notizie che provengono dall’ambiente religioso. Un primo documento è costituito dalle lettera De fide, vita et obitu Ulfilae, conservata negli scholia al concilio di Aquileia redatti dal vescovo ariano Massimino, e risalente al 383, poco dopo la morte del vescovo goto. L’autore della lettera è sempre Aussenzio di Durostorum. Egli afferma di essere stato affidato fin dall’infanzia alle cure del vescovo, dal quale sarebbe stato educato e avrebbe appreso la fede. La comunità dei Goti stanziata presso Nicopolis ad Istrum (attuale Nicopoli in Bulgaria) dall’imperatore Costanzo II nel 347 – 348 d.C. sembrerebbe aver raggiunto per allora un certo grado di integrazione con la popolazione autoctona, e Wulfila stesso sembrerebbe aver ricoperto un ruolo di preminenza nel contesto religioso dell’area. Questa posizione di spicco sembra inoltre confermata dal fatto che Wulfila prese parte al concilio di Rimini del 359 d.C., e successivamente venne inviato a Costantinopoli (383 d.C.), come rappresentante della fede ariana. Inoltre, sembrerebbe che il vescovo Massimino abbia richiesto l’intervento di Wulfila al fine di intercedere presso Teodosio in favore di Palladio di Ratiaria e Secondiano di Singidunum, dopo la loro condanna ad Aquileia.
Il caso di Wulfila lascia pensare ad una possibile esistenza di una vera e propria comunità mista, che comprendesse individui di origine gotica ma anche romana, cui la predicazione trilingue del vescovo si sarebbe rivolta durante la sua permanenza nell’Impero.
Un altro celebre caso è quello del vescovo ariano Giuliano Valente. Un passo delle sinodale Benedictus di Aquileia infatti denuncia proprio i contatti dell’uomo con genti di origine gotica, a cui avrebbe predicato indossando torques e brachiales, ossia elementi tipici dell’abbigliamento barbarico. La cosa sarebbe stata interpretata dagli altri vescovi come un fatto disdicevole che non era adeguato non solo per un cristiano, ma per un vero Romano. Forse, l’intento di Giuliano Valente era quello di rendere il cristianesimo accettabile e comprensibile anche a popolazioni, che se pur entrate nell’Impero, come sottolinea Eunapio, mantenevano i loro culti. Alcuni studiosi sono propensi a porre il terminus ante quem dell’azione di Giuliano Valente al 381, anno del Concilio di Aquileia.
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Di particolare interesse risulta il cosiddetto Calendario gotico, noto così per la lingua in cui ci è pervenuto. In questo documento sono ricordate le festività religiose (dal 23 Ottobre al 30 Novembre), e risale al VI secolo d.C., ma con molta probabilità è una copia di un’originale precedente, redatto in lingua greca. Ciò è supposto dal ricordo di Doroteo di Antiochia e di Costanzo II (e questo permette anche di individuare un terminus post quem della realizzazione dell’originale. Inoltre la menzione dei due personaggi conferma la matrice ariana del documento). Il carattere misto del gruppo che faceva rifermento al calendario è suggerito anche dalla presenza, assieme a martiri delle persecuzioni di Atanarico, delle quaranta martiri vergini di Beroea. Forse proprio questa località della diocesi tracica sembrerebbe essere il luogo di redazione e fruizione del calendario, dove la popolazione locale aveva accolto il culto dei martiri goti e le loro reliquie.
Altro illustre nome associato alla predicazione e alla conversione dei Goti è, secondo Teodoreto, Giovanni Crisostomo, il quale, proprio come Giuliano Valente, avrebbe svolto un’opera di evangelizzazione mirata e rivolta alla popolazione barbarica, ma per convertirla alla fede nicena. Questa azione sembrerebbe inoltre aver avuto un discreto margine di successo, come dimostra ad esempio l’omelia habita in ecclesia Pauli, Gothis legentibus, postquam presbyter Gothus concionatus fuerat, la quale documenta infatti la presenza di un clero niceno ma di origine gotica e di una sua embrionale gerarchia ecclesiastica, in grado di comunicare sia in lingua greca sia in goto. Inoltre, il pubblico del sermone doveva essere composto da individui ellenofoni, ma anche di origine barbarica, ai quali il vescovo si sarebbe rivolto attraverso l’ausilio di un presbitero goto, che forniva la traduzione. Tuttavia, le vicende della vita di Giovanni Crisostomo mettano in luce le difficoltà di attrarre in ambito niceno la popolazione gotica.
Infine, è giusto citare per completezza la lettera scritta da Girolamo in risposta a Sunnia e Fretela, due religiosi di origine gotica che avevano interpellato il santo per aver chiarimenti su alcune discrepanze tra la versione greca dei Salmi e quella da lui proposta. Quest’aneddoto dimostra che i due erano in grado non solo di comprendere il greco e il latino, ma anche di mantenere e stabilire contatti con esponenti illustri della Chiesta Nicena.
Conclusioni
In base a ciò che è emerso durante la stesura e la ricerca di questo breve articolo, il fenomeno di evangelizzazione e cristianizzazione dei Goti più che un processo diretto e di autodefinizione, sembra il risultato di un più vasto fenomeno di assimilazione reciproca tra Romani e popolazione barbarica, dato che la fede ariana, almeno in certe zone dell’Impero, accomunava sia gli uni che gli altri, mentre a Costantinopoli abbiamo constatato l’esistenza di comunità gotiche ma di fede nicena. Quindi, la conversione alla fede cristiana non è il risultato di una “scelta consapevole”, ma derivava piuttosto dal tipo di predicazione svolta dai vescovi. L’appartenenza dunque a l’una o all’altra fede non costituì un fattore determinante, almeno fino allo stanziamento dei Visigoti in Aquitania.
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