L’abbigliamento romano tardo antico (IV-VII sec.)

L’abbigliamento della tarda antichità può sembrare agli occhi di molte persone tutto fuorché romano. Questo si discosta molto dall’immagine classica che sia dei Romani e della loro moda. Ma perché questo cambiamento?
Cerchiamo di scoprirlo assieme in questo articolo.

I dati archeologi e le sepolture

Gran parte dei reperti tessili tardo romani, databili dal IV al VII – VIII secolo d.C., che conosciamo oggi provengono dalle necropoli di Antinoopoli, Panopoli, Al-Fustat, e il Fayum. Tra questi in realtà sono una piccola parte è composta da abiti completi.

Raramente, inoltre, siamo a conoscenza dei contesti archeologici di ritrovamento (fatte pochissime eccezioni), dato che la gran parte delle campagne di scavo vennero condotte in questi luoghi tra la fine del XIX secolo e gli inizi del secolo successivo, periodo in cui in Europa scoppiò una vera e propria mania per l’Egitto e il mondo copto. Questi scavi vennero eseguiti senza alcun metodo, analisi dei contesti di ritrovamenti e sforzi interpretativi. Inoltre, parte del materiale soffice recuperato veniva spesso venduto sul mercato antiquariale, favorendo la dispersione dei corredi, e a volte anche danneggiato o rimaneggiato, ad esempio con l’aggiunta di “parti mancanti”, o incollando o cucendo il frammento di tessuto su un nuovo supporto tessile.

Il materiale tessile attualmente a nostra disposizione proviene da contesti funerari. Le sepolture dell’Egitto tardo romano sono solitamente poco profonde e semplici, con la parte inferiore rivestita da semplice assi di legno. I defunti vengono adagiati in queste cavità, senza alcuna bara, ma avvolti in stoffe, che svolgono una doppia funzione: da una parte quella pratica di preservare il corpo (sudari, cuscini, letti funebri); dall’altra le immagini intessute rispecchiano la visione cristiana dell’aldilà e l’attesa del giorno della resurrezione.

A.Gayet durante i scavi nelle necropoli in Egitto, 1896 – 1912

Tuttavia, non mancano casi di mummificazione, pratica attesta anche oltre il IV secolo d.C. Più difficile è affermare se l’utilizzo di questa antica pratica rispondesse ancora a qualche esigenza religiosa, legata a culti di matrice pagana, o se semplicemente fosse una rimanenza culturale.

Questi luoghi di sepoltura sono inoltre usati più volte nel tempo. Ciò denota che le stesse aree necropolari sono usate da diverse generazioni.

Gli abiti maschili e femminili, rinvenuti all’interno di questi contesti, non sembrano riportare sostanziali differenze nelle tipologie di indumenti o nell’impianto decorativo e iconografico degli stessi, il che rende arduo operare una potenziale distinzione in base al genere. Possiamo però supporre che alcune determinate immagini potevano essere state considerate più appropriate a un determinato sesso o fascia d’età.

La tunica tra concreto e astratto

Come anche altri aspetti della quotidianità, anche l’abbigliamento è legato alla cultura della società che lo produce. Le tuniche e tutti i loro elementi costitutivi riflettono il panorama culturale e religioso del mondo romano tardo antico. La tunica costituisce il capo di abbigliamento di base per uomini, donne, e bambini.

La tunica è ricavata dalla tessitura della tela di lino in un unico pezzo: si inizia dalla manica per poi allargarsi e comporre un ampio rettangolo, avendo l’accortezza di lasciare un’apertura, interrompendo la trama e alcuni fili d’ordito, per creare la scollatura. La tessitura prosegue fino a restringersi per realizzare l’altra manica. Analoghi accorgimenti sono previsti per creare lo spazio idoneo per l’inserimento di clavi, tabulae, e orbiculi. Queste decorazioni si possono realizzare anche separatamente e poi inserite nei punti predisposti durante la fase di tessitura della tela.

In epoca tarda, specie dopo l’invasione dell’Egitto da parte degli Arabi, le ornamentazioni recuperate da tuniche non più indossabili sono cucite su nuovi capi di vestiario, secondo una tecnica nota col nome di clavatura, già in uso in epoca imperiale, ma riservata agli abiti destinati all’imperatore o altri personaggi della corte, che col passare del tempo si diffonde anche in altri strati della popolazione.

Con la stessa tecnica sono ornati anche gli ampi scialli, indossati sopra le tuniche, i mantelli e le casulae, e ogni altro genere di tessuto destinato all’arredo domestico o funerario.

I tessuti prodotti in Egitto durante la Tarda Antichità sono generalmente in lino, grezzo o sbiancato al sole o con l’ausilio di detergenti vegetali o minerali. Solo in seguito viene impiegata anche la lana, materiale considerato impuro per i manufatti destinati ai riti sacri. A Panopoli viene utilizzata la seta.

Illustrazione da Antinoë et les sépultures de Thaïs et Sérapion di A. Gayet (1902)

Ovviamente, in base alle differenze di sesso e ceto sociale, la tunica muta nel colore e nell’aspetto. Ad esempio, ancora nella tarda antichità continuano a essere usate tuniche quadrate, prive di maniche, ma solo da schiavi, lavoratori, artigiani.

In quanto forma che riveste il corpo, la tunica costituisce un vero e proprio linguaggio: la foggia, la decorazione, la forma hanno il compito di riflettere lo status sociale e le credenze religiose dell’individuo che la indossa. Questa assume dunque dei significati allegorici e simbolici. La tunica si fa simbolo della mortalità dell’uomo, della materia che riveste l’anima. Questi concetti ben traspaiono da alcune fonti scritte coeve, come ad esempio il Canto della perla.

Caratteristica fondamentale degli abiti di questo periodo è la presenza di decorazioni: clavi, tabulae, orbiculi. I primi sono bordi verticali, più o meno stretti, che ornano la tunica sul davanti e sul retro, partendo dalle spalle per arrivare (anche se non sempre) fino all’orlo, se ne vedono infatti di più corti e con varie terminazioni. A questi si affiancano le tabulae di forma quadrata e gli orbiculi di forma circolare. Gli orbiculi si possono trovare anche all’interno dei clavi angolari, e in tal caso sono detti grammadiae.

Motivi decorativi

I motivi decorativi che vediamo sulle tuniche di questo periodo non sono posti in maniera casuale, ma secondo precisi schemi, e lungo parti del corpo che si ritiene necessitino di una particolare protezione, perché considerate fragili, come ad esempio le giunture, le spalle, il collo, o nel caso delle tuniche infantili anche la testa.

Quindi, le decorazioni, a volte assieme all’ausilio di ciondoli, amuleti, e talismani, svolgono una vera e propria funzione apotropaica. Tale valenza non si riscontra solo nei capi di abbigliamento, ma in tutti i materiali soffici.

Dalle fonti papiracee scritte, siamo anche a conoscenza di veri e propria cataloghi di decori standardizzati, che però possono essere personalizzati in base alle esigenze del committente. I decori sono infatti ideati e proposti da disegnatori specializzati. Esemplari di cartoni preparatori sono attualmente conservati a Berlino e al Museo Egizio di Torino: fogli di papiro riportano disegni, in scala ridotta, destinati ai tessitori.

Da un punto di vista cronologico, potremmo così operare una distinzione:

  • III – IV secolo d.C. decori solitamente a fondo scuro con filo écru
  • dal IV secolo d.C. introduzione di motivi figurativi
  • V secolo d.C. predominanza del colore rosso
  • dal VI secolo d.C. aumento della gamma cromatica

Motivi geometrici

Fra i disegni più ricorrenti nelle stoffe tardo romane, i motivi geometrici e vegetali sono quelli più frequenti. Caratterizzati per l’impiego di una trama di lana tinta nelle varie gradazioni del porpora o imitanti questo prezioso colorante, i motivi risaltano dal fondo scuro, intessuto a punto scritto da un sottile filo di lino écru. Questo, condotto dalla navetta volante, lavora in obliquo per meglio definire i contorni o i complessi intrecci con i quali prendono forme le geometrie del decoro, o gli stilizzati elementi vegetali che spesso li affiancano.

Questa tipologia di decorazioni fa la comparsa fra il III e il secolo successivo, e conosceranno una fortuna longeva e duratura, tanto da essere utilizzati, accanto a motivi fitomorfi, almeno fino al VII secolo d.C.

La ripetizione di intrecci e forme geometriche trova un interessante parallelo con le credenze magico-rituali tardo romano, in particolari con gli incantesimi a noi noti da fonti scritte, in cui frasi o parole vengono reiterate quasi a formare una sorta di mantra. Nelle formule magiche si nota anche un certo sincretismo culturale, in cui accanto a nomi di antiche deità del pantheon pagano fanno la loro comparsa quelli di santi, della Vergine, o la Trinità stessa. Tali decori dunque svolgono una funzione apotropaica, al fine di salvaguardare la salute di chi li indossa.

Tabula, III – IV secolo d.C., MET Museum

Nelle tuniche infantili, i decori geometrici adornano anche la zona del cappuccio. Gli orbiculi così posti, simulando dei grossi occhi, avrebbero spaventato eventuali spiriti maligni. Un’analoga funzione è rappresentata dalle terminazioni a goccia o occhi di alcuni clavi, aventi la funzione di tenere lontano il malocchio.

Motivi a intreccio o con nodi sono descritti in un testo, databile al V secolo d.C., il Testamento di Salomone, in cui si assicura che tali forme geometrica sono in grado di proteggere dai demoni.

Fra le forme più indagate, stando alla ricca documentazione di reperti, sono gli esagoni, gli ottagoni, i rombi, i quadrati, i cerchi, ma anche complessi meandri.

Motivo geometrico molto comune nei tessuti tardo romani è quello originato dall’intersecazione di due quadrati: uno a simboleggiare il mondo terreno, e l’altro quello divino. L’unione dei due genera una figura a otto punte, numero legato al concetto di eternità.

Infine, la croce è il simbolo cristiano per eccellenza. Questa può apparire anche sotto forma di ankh, antico simbolo egizio di vita. I due sono spesso sovrapponibili, e usati uno in sostituzione dell’altro. Il significato che si intende trasmettere è quello del desiderio di nutrirsi della parola divina e di aver una maggiore vicinanza con Dio. Ciò deriva dall’utilizzo originale del simbolo egizio, che veniva concesso ai sovrani solo dopo la morte, poiché da quel momento venivano considerati realmente delle divinità; oppure veniva dato al faraone in particolari cerimonie religiose in cui egli era l’officiante del dio.

Motivi figurativi

Le prime scene a carattere figurativo fanno la loro comparsa nei tessuti a partire dal IV secolo d.C.

Solitamente i temi raffigurati sono di carattere mitico, venatorio, cristologico, e scene con animali e piante.

L’iniziale resa naturalistica viene ben presto rimpiazzata da una progressiva stilizzazione delle forme e semplificazione degli elementi che costituiscono l’immagine. Nelle figure antropomorfe e zoomorfe, il colore viene usato ad ampie campiture, che rivelano un vivissimo gusto per la policromia.

Personificazioni

Tra i soggetti delle decorazioni dei tessuti tardo romani non possono di certo mancare le personificazioni. Una delle più comuni è sicuramente quella del Nilo, che per via del suo ciclo dell’acqua, è un chiaro simbolo di abbondanza e rinascita, ma anche metafora dello scorrere della vita e quindi, anche della morte. Un significato analogo assumono le personificazioni di Gea, dea della terra; e quelle delle quattro stagioni, le quali sono a volte accompagnate da una quinta figura Aion, divinità del tempo e dell’Eternità. Aion è il dio del tempo nel suo aspetto più permanente, tale da trascendere a sé stesso. Questo è raffigurato con un aspetto antropomorfo, a volte con testa leonina, avvolto tra le spire di un serpente.

Sul suo corpo compaiono a volte alcuni dei segni dello Zodiaco (Ariete, Bilancia, Capricorno, e Cancro – i quattro segni che corrispondono ai due solstizi e ai due equinozi), poiché il tempo è il signore di tutte le cose, ma esse si svolgono secondo un cammino ben preciso, scritto nelle stelle, e nei movimenti del cielo.

Nei tessuti, la figura del dio può apparire anche nell’atto di sostenere lo Zodiaco, entro il quale le figure della Stagioni danzano.

L’utilizzo di personificazioni, soprattutto attraverso figure femminili, è una convenzione che viene adottata dalla Chiesa Primitiva, e utilizzata per fini educativi in rappresentazioni di Vizi e Virtù contrapposti. Un esempio di ciò è la lunga opera allegorica Psychomachia di Prudenzio, poeta spagnolo del IV secolo, in cui sono descritti una serie di combattimenti individuali tra Fede ed Idolatria, Castità e Lussuria, Pazienza ed Ira, Superbia ed Umiltà, le quali terminano tutte col trionfo della Virtù.

L’influsso di Prudenzio è presente ancora nell’iconografia sacra del XIII secolo.

Le Metamorfosi di Ovidio

L’opera del celebre poeta Ovidio suscita un così grande interesse nel mondo romano della Tarda Antichità, tanto che già nel IV secolo viene riletta in chiave moralizzante e cristiana.

A riprova di ciò abbiamo il ritrovamento del famoso Scialle di Sabina.

Questa immensa opera tessile, attualmente divisa tra il Musée du Louvre di Parigi e quello di Lione, è datata al 340 – 440 d.C. il tessuto di una colorazione rosso scarlatta prende il nome proprio dalla proprietaria della sepoltura: una donna di nome Sabina. La defunta, al momento del ritrovamento, indossava una tunica rosa ed era avvolta in uno spesso mantello di seta viola. Lo “scialle”, la cui funzione originaria doveva esser stata quella di fungere da arazzo, ne costituiva il sudario.

Il corredo funebre della sepoltura di Sabina

Accanto al corpo della donna vennero inoltre rinvenuti numerosi oggetti di corredo, che permettono con assoluta certezza di associare la defunta al culto cristiano, e in particolare di matrice gnostica: un pesce in avorio (chiaro rimando al battestimo e alla fede in Cristo – come vedremo più avanti), un recipiente in vetro recante la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco (α e ω – rimandando al Principio e alla Fine in quanto rispettivamente prima e ultima lettera dell’alfabeto, e sulla base di un famoso passo dell’Apocalisse, alludevano alla divinità di Gesù), un leone in bronzo (emblema di forza), una collana di perle e ametiste, una pietra gnostica con l’immagine dell’Abraxas, e il principio dei 365 cieli del sistema di Basilide.

Ad uno sguardo poco attento, l’impianto iconografico dello “scialle” potrebbe cozzare con gli oggetti del corredo funerario della donna, data la presenza di immagini di carattere nilotico e mitologico.

Sul tessuto rosso vivo dello “scialle” si stagliano le figure di Artemide, antica dea pagana e vergine della caccia, spesso associata al mondo muliebre, raffigurata come Virtus, ossia personificazione della Virtù, nell’atto di atterrare un drago; e la favola di Apollo e Dafne, tratta proprio dal testo ovidiano. Queste due scene ci offrono la chiave di lettura dell’intera opera tessile, che aveva lo scopo di esaltare le virtù di Sabina, e in particolare la sua castità.

La dea Artemide, qui col duplice ruolo di Virtus, è fin dalle origini del suo culto associata alla castità, per via della sua natura greca di vergine cacciatrice, severe, ed atletica. I romani la veneravano nella sua triplice natura di Selene (cielo), Diana (terra), ed Ecate (oltretomba).

Il mito di Apollo e Dafne simboleggia il trionfo della castità sull’amore.

Al centro dello scialle, chiuso in un prezioso orbiculo, vi è la figura di Bellerofonte. Questi è un eroe della mitologia greca, che visse alla corte di Preto, re di Argo, e fu amato dalla moglie di questi. La regina, vistasi respinta, reagì accusando il giovane ingiustamente  di averla sedotta presso il marito. Il comportamento della donna rimanda sicuramente ad altre figure femminili nella medesima situazione e alle vicende di personaggi veterotestamentari, come Giuseppe, figlio di Giacobbe.

Bellerofonte fu dunque inviato presso il cognato del re, Iobante, recando con sé una lettera sigillata che conteneva la richiesta della sua uccisione. Iobante gli impose di affrontare la Chimera, mitico mostro dall’aspetto felino con corpo di capra e la coda di drago, che sputava fiamme dalla bocca, convinto che avrebbe perso la vita nell’impresa.

L’eroe, dopo essere riuscito a catturare il cavallo alato (Pegaso) forse con l’aiuto divino di Minerva, cavalcandolo assalì la fiera mitica, e l’abbatté con le sue frecce.

Anche in questa scena mitica si può notare un elogio del trionfo della virtù.

Ricostruzione dello scialle di Sabina

Un altro esempio è costituito dal ritrovamento, avvenuto tra il 1902 e il 1903 nell’area necropolare di Antinoopolis, di ben tredici frammenti appartenenti tutti a una singola e ricca tunica. I temi iconografici ivi raffigurati spaziano dall’amazzonomachia al mito di Eco e Narciso, dal racconto di Ercole e della ninfa Auge a quello di Venere e Adone.

Ercole è una delle figure più popolari all’interno dei motivi decorativi copti. Questi era uno dei principali eroi della mitologia della Grecia Antica, personificazione della forza e del coraggio.

Tra i racconti che riguardano il mitico eroe di particolare rilevanza sono le Dodici fatiche, in cui Ercole affronta grandi avversità e trionfa sul male. Il racconto mitico riflette la sua natura umana e divina (infatti era figlio di una mortale, Alcmena, con la quale Zeus si era congiunto carnalmente aproffitando dell’assenza del marito Anfitrione). Alcuni studiosi, comunque, sono portati a ritenere che il racconto tragga ispirazioni da una qualche figura storica. Nondimeno, alcune delle sue imprese presentano delle analogie con i miti di altri popoli del Mediterraneo orientale, e si possono notare anche dei corrispettivi tra le gesta dell’eroe ellenico e quelle dell’eroe biblico Sansone.

Un parallelo dunque col mondo cristiano si può vedere tra Ercole e Cristo. Come Cristo, infatti, anche Ercole discende agli Inferi per salvare la vita di Alcesti. In più, sono entrambi figli di una donna e di un Dio.

L’episodio della morte di Alcesti, eroina che incarna l’amore coniugale, ci è noto da Euripide. La donna, moglie del sovrano Admeto, acconsente a sostituirsi al posto del marito e a morire al suo posto. Ercole la segue fino all’oltretomba e, una volta giunto, ingaggia un duello con la Morte. Alla fine, riesce a riportare la regina sana e salva nuovamente nel mondo dei vivi.

Altra figura ricorrente è quella della dea Afrodite/Venere, divinità dell’amore, alla quale sono sacri animali come cigni, colombe, e delfini. A volte, si può trovare la figura stante della dea, in piedi su una conchiglia (Venere anadiomene); oppure la rappresentazione della favole dell’amore della divinità col mortale Adone. Questi era nato dall’unione incestuosa di Mirra col padre Cinira, re di Cipro. La bellezza del giovane era proverbiale, tanto che la dea nutriva per lui una forte passione, causata da un gesto accidentale del dio Cupido, che la graffiò con uno dei suoi dardi.

Un giorno, in assenza della dea, il giovane andò a caccia e fu ferito a morte da un cinghiale, forse mandato dal dio Marte, geloso della relazione amorosa tra i due.

Venere accorse in aiuto di Adone, ma non poté salvarlo. Nel punto in cui cadde il sangue del giovane spuntarono degli anemoni, che dal quel giorno furono rossi.

Il mito della morte di Adone è forse uno dei più bei miti riguardanti la fertilità e il rigenerarsi della natura.

Di significato del tutto antitetico è il racconto di Eco e Narciso, simbolo di morte prematura.

Scialle di Sabina

Bacco e le Dionisiache

All’interno del catalogo dei decori del mondo tardo romano non mancano raffigurazioni di divinità appartenenti al pantheon pagano, ma rilette e riviste attraverso la lente della nuova religione cristiana. Questo tipo di rappresentazioni sono utilizzate in contesti funerari, in quanto si connotano di significati escatologici e misterico-salvifici.

La figura del dio Bacco è certamente quella più comune.

Bacco (o Dioniso in lingua greca) è una delle principali divinità del mondo antico, e in particolare del Pantheon greco-romano. Il culto di questa divinità venne traslato in Egitto già nell’epoca Tolemaica. Fin dalla fondazione, nel 332 a.C., della città di Alessandria, la dinastia dei Tolomei tentò di promuovere e incoraggiare il culto del dio, anche attraverso l’assimilazione di questo con altre figure divine già presenti nel mondo spirituale dell’antico Egitto, come ad esempio Osiride, noto agli egiziani come il dio della resurrezione e maestro del vino. Due caratteristiche che ben si sposano con quelle di Bacco.

Infatti, anche Bacco, nei racconti mitici greci e latini, ha un destino di morte e resurrezione.

Molti dei sovrani Tolomei portavano addirittura il nome dello stesso dio, Neos Dionysos, legittimando così anche il loro potere.

Iconografie a carattere dionisiaco popolano non solo le sepolture dell’Egitto tardo antico, ma anche quelle del mondo romano dei secoli precedenti. Alcune testimonianze di particolare rilievo sono osservabili nei corredi funerari e nelle tombe (risalenti al II secolo d.C.), rinvenute nel corso di più scavi avvenuti nel XIX secolo, nell’area necropolare di Beligna, a sud della cittadina altoadriatica di Aquileia (UD).

Beligna è una zona dell’aquileiese così denominata per via della presenza di uno (o forse più) santuario dedicato in antico al dio Beleno, divinità (anche questa) dai poteri sananti e salutiferi. Come Bacco e Osiride, anche Beleno ebbe un destino di morte, poi sconfitto secondo i percorsi della ierogenesi. La stessa zona, inoltre, divenne anche sede del culto di Iside e Serapide. La scelta di quest’area necropolare dunque sembra essere dettata dalla consapevolezza di certi individui, nel caso specifico donne, sensibili ad aspettative di natura escatologica, legate alla sfera mistero-salvifica. Alcune delle defunto sono state disposte su letti funerari in avorio, la cui sintassi decorativa rimanderebbe al ciclo dionisiaco, rappresentativo di una promessa di vita futura.

Date le premesse, si possono riscontrare numerose similitudini e somiglianze tra l’antico culto del dio pagano e quello cristiano. Perciò, per i primi cristiani, l’associazione fra i miti di Bacco e i racconti evangelici era alquanto chiara e scontata.

Il vino, elemento centrale del culto dionisiaco, già in epoca antica andava a sostituire il sacrificio di sangue. Il sangue era uno degli elementi fondamentali, nel mondo pagano greco-romano, per mettersi in comunicazione con gli Dei. Il vino è dunque, come anche per i cristiani, visto come il sangue della vigna, in relazione all’Ultima Cena, e al sangue che Cristo ha versato sulla croce per l’umanità.

Tunica di V secolo d.C. con scene bacchiche, MET Museum

Parte del successo delle raffigurazioni con iconografie a carattere dionisiaco del mondo tardo antico è forse anche da attribuire al celebre poema di Nonno di Panopoli, le Dionisiache.

Nonno di Panopoli è un poeta di lingua greca, vissuto attorno al V secolo d.C., del quale però non abbiamo molte notizie riguardo la sua vita. Al contrario, tuttavia, sappiamo moltissimo riguardo al sua opera letteraria, che oltre a comprendere il poema sopra citato, si arricchisce di ulteriori componimenti, tra cui di particolare rilevanza risulta essere la trasposizione in esametri del Vangelo di san Giovanni.

Le Dionisiache, il suo capolavoro, comprende circa quarantotto canti, in cui si racconta la “parabola” terrena di Bacco: dalla nascita all’ascesa all’Olimpo. Il tema principale ruota attorno alla spedizione di Dioniso e la sua conquista dell’India. Nella descrizione dei paesaggi esotici del sub-continente indiano, emerge la familiarità e la profonda conoscenza dell’autore della letteratura classica. Anche se non mancano accenni di pura fantasia, i passaggi che riguardano l’India fanno trasparire la conoscenza dell’autore dei resoconti dei viaggi di Alessandro Magno.

Il poema non presenta una salda e compatta unità d’argomenti, ma anzi il suo gusto centrifugo e l’amore per i dettagli, porta la vicenda principale a essere spesso interrotta e intervallata da una ricca serie di digressioni. Tuttavia vi è un saldo equilibrio dell’impianto architettonico e strutturale dell’opera: impianto nel quale si possono osservare delle corrispondenze tra  le vicende mitiche e amorose trattate.

Anche nel testo di Nonno di Panopoli, Bacco è costretto ad affrontare numerose difficoltà, per essere riammesso nei Cieli. Ciò è un chiaro rimando alla rappresentazione della Salvezza.

Oltre al dio, molti altri personaggi nel racconto condividono il suo fato di morte e anastasi, come l’eroe lidico Tylos. Questi, dopo la morte causata dal morso di una serpe, viene riportato in vita dalla sorella con un miracoloso antidoto, noto come Fiore di Zeus. La vicenda narrata ha delle similitudini col racconto evangelico di Lazzaro.

Di rilevante importanza, però, è la figura di Arianna, la giovane principessa cretese sedotta e infine abbandonata dall’eroe Teseo. La fanciulla, al termine del mito originale, convola a nozze proprio con Bacco, il quale le concede addirittura un posto nella volta celeste sotto forma di costellazione. Un vero privilegio per un mortale. L’amore tra Arianna e Bacco è da sempre stato interpretato come un amore puro, che esula dalla sfera mortale, e tende verso quella del divino.

Nelle Dionisiache, la donna viene uccisa, non una ma ben due volte: la prima nel libro XXV, e in seguito nel XXXXVII.

Orbiculum con al centro Dioniso in atto di abbeverare una pantera, attorniato da scene di caccia, V – VII secolo d.C., Düsseldorf Kunstmuseum

La danza

La danza, soprattutto nel mondo pagano, aveva assunto un vero e proprio ruolo iniziatico, specie in determinati culti di carattere misterico, come quelli orfici e isiaci. I movimenti ritmici di braccia e gambe erano espressione della religiosità del fedele. Infatti, prima di essere spettacolo, il ballo era parte integrante della formazione e dell’educazione dei giovani nella Grecia Antica.

In alcuni motivi decorativi, si possono addirittura trovare scene di devoti, raffigurati nell’atto di agitare i sistri (strumenti idiofoni associati alla dea Iside, il cui suono è legato alla fecondità e alla rigenerazione), in atto di ballare durante la cerimonia del Navigium Isidis, una festività del calendario pagano, che si svolgeva il quinto giorno del mese di Marzo, in occasione della ripresa della navigazione che andava dalla primavera fino a Ottobre.

Iside è un’antica dea del Pantheon egizio, il cui culto a partire dal I secolo a.C. si diffuse anche a Roma. Questo infondeva speranza della vita dopo la morte. A lei si rivolgevano tutti gli uomini, fossero essi liberi o schiavi, indipendentemente dal sesso o dal ceto sociale. Gli officianti dei riti di Iside potevano essere sia uomini che donne, e tutte le donne prendevano parte alle cerimonie in suo onore, senza alcuna distinzione di censo, come invece accadeva per altri culti del mondo pagano romano. La devozione per la dea, cancellando le differenze, metteva in contatto anche persone che nella prassi sociale erano destinate a non incontrarsi. Un pò come farà la figura di Gesù nel mondo cristiano.

Frammento di scollo di tunica con figure femminili in danza, VI – VII secolo d.C., Museo Poldi Pezzoli

Le figure rappresentate nei tessuti però raramente indossano il tipico abito dei devoti di Iside: un ampio mantello dai bordi frangiati, che si chiude sul petto con un particolare nodo.

Come per i motivi figurativi con scene bacchiche, anche quelle con raffigurazioni di danze e scene isiache sono usate solo in contesti funerari.

Per i primi cristiani, la danza non ricopriva un ruolo centrale nel culto, anche se la musica (accompagnata dal canto) era una parte fondamentale della liturgia, ma allo stesso tempo era guardata con indifferenza e con sospetto. Il ballo poteva assumere nelle speculazioni dottrinali cristiane sia caratteristiche positive (Davide che danza al cospetto di Dio; o i dodici angeli che danzano in un moto circolare durante la Creazione) che negative (la danza di Salomè).

[Leggi anche Musica e danza nel mondo romano]

Il cavaliere

Il tema del cavaliere, diffuso in Egitto dai Tolomei, è ben attestato nei tessuti tardo romani e può presentare varie figure: da quella imperiale al cacciatore, al guerriero vincitore sulle forze del male, al santo.
La figura del cavaliere fa la sua comparsa già nel IV – V secolo, ma la sua maggior diffusione avviene fra il VI e l’inizio del VII secolo.
Spesso è raffigurato come un’immagine isolata al centro di un orbiculo, il cavaliere incarna molteplici significati: la caccia, il combattimento, la vittoria.
La simbologia anche in questo caso ha una valenza escatologica, in quanto il cavaliere impersona il defunto che ha concluso la sua lotta, combattuta in vita, contro il male, per infine presentarsi disarmato e vittorioso, pronto a intraprendere il cammino verso il suo destino ultraterreno.

Temi cristologici

Accanto a iconografie di matrice mitologica e pagana, non mancano altrettante scene di natura cristologica, raffiguranti episodi della vita di Cristo, anche se in quantità decisamente inferiore.

La stragrande maggioranza dei motivi decorativi di questa categoria sono incentrati sul tema dell’infanzia di Gesù: la natività, l’adorazione dei Magi, la fuga in Egitto, l’Annunciazione. Non mancano tuttavia scene che rimandano alla vita adulta di Cristo, quali l’Ultima Cena, la parabola della buona Samaritana, la Maddalena come testimone dell’avvenuta resurrezione.

In origine, si era propensi a ritenere che questo tipo di iconografie adornasse solo le tuniche di esponenti del clero, basandosi sl resocnto dell’archimandrita Scenute di Atripe, il quale si sofferma sui misteri dell’incarnazione e della persistenza di Cristo (la nascita del Salvatore e la sua divinità) in relazione al ruolo di Maria come Madre di Dio. Per realizzare il suo sermone, Scenute utilizza proprio delle immagini intessute nel lino come testimonianze o prove di questa dottrina.

Egli descrive come l’utilizzo di questi ricami sia uno strumento per identificare e correggere alcune errate credenze di monaci cripto-nestoriani.

Ma la tesi di questo specifico utilizzo delle tuniche con scene cristologiche non trova alcun altro riscontro attendibile. Da altre fonti scritte, siamo infatti a conoscenza di membri del clero che insultano coloro, soprattutto esponenti di ceti sociali elevati, che indossano siffatte tuniche.

Un’importante fonte in tal senso ci viene da un’omelia di IV secolo d.C. del vescovo di Amaseia (una città dell’Asia Minore), Asterio. In questo sermone, Asterio usa parole dure contro coloro che adornano le tuniche con immagini a tema cristologico, così come chi le produce. Egli arriva anche a proibire agli astanti di indossare questi capi di vestiario per non essere accusati di blasfemia, in quanto “l’atto umile dell’incarnazione era sufficiente a Lui”.

Questo testo fa supporre, appunto, che questo tipo di vestiario fosse indossato soprattutto da laici, forse con una qualche funzione apotropaica per ricevere una protezione o un favore divino.

Due studiosi, Gary Vikan e Henry Maguire, nel 1990 proposero una nuova rilettura di questi motivi decorativi. Nei loro articoli portarono avanti la tesi che questi costituissero il vestiario tipico dei pellegrini.

Non dobbiamo dimenticare, infatti, che dal IV secolo vi fu una particolare crescita di pellegrinaggi verso i luoghi santi della Cristianità. A contribuire a questo sviluppo, ci fu il fenomeno del monachesimo, visto che i monaci davano ospitalità e indicazioni ai pellegrini. La prima “pellegrina” fu sicuramente Elena, madre dell’imperatore Costantino, che tra il 327 ed il 328, si recò nelle provincie orientali dell’impero, andando in pellegrinaggio a Gerusalemme. Dopo di lei anche altre donne tentarono l’impresa. La più grande testimonianza di questi pellegrinaggi è data da un testo, redatto con molta probabilità alla fine del IV secolo, noto come Itinerarium Egeriae o Peregrinatio Aetheriae, ovvero un resoconto di un pellegrinaggio compiuto da una donna di nobili natali (di nome Egeria o Eteria), proveniente dalla Galizia o dalla Gallia. Prima della stesura dell’Itinerarium, la donna racconta di essere stata in Egitto, mentre dal resoconto sappiamo che si recò anche in Terra Santa, in Mesopotamia e a Costantinopoli. Le descrizioni sono molto accurate, e il viaggio veniva effettuato seguendo l’indicazioni delle Sacre Scritture.

La più antica delle opere di questo genere, forse scritta tra il 333 ed il 334, è l’ Intinerarium Burdigalense. Questo è, per lo più, un elenco di stazioni di posta lungo le strade, con indicazioni di città, distanze, ed alloggi.

Secondo Vikan e Maguire i Magi, che provenivano da luoghi molto lontani per far visita al Cristo bambino, erano visti come modelli da imitare dai primi pellegrini cristiani che si recavano in Terra Santa. I pellegrini divenivano così dei novelli Magi in viaggio nei luoghi della fede. La tesi dei due studiosi era sostenuta dall’abbondanza di oggetti, come ciondoli, fibule e amuleti che raffiguravano la scena.

Questi oggetti di oreficeria avrebbero anche garantito il benessere del viaggiatore e la Divina Protezione.

I decori con le immagini di Cristo avrebbero avuto una funzione simpatetica di proteggere chi le indossava dalle malattie.

Ma forse, oltre ad avere una valenza apotropaica, questo tipo di indumenti avrebbe potuto svolgere anche una funzione mimetica in contesti funerari dove il viaggio avrebbe potuto indicare quello metaforico nell’aldilà per giungere alla Gerusalemme Celeste.

Altri studiosi, come Stephen J. Davis dell’Università di Yale, hanno ipotizzato invece che l’iconografia cristologica delle tuniche, vista all’interno del contesto delle dottrine egizie tradizionali sull’ incarnazione e theosis (ossia un processo di trasformazione nel divino di un credente che nel corso della sua esistenza ha deciso di mettere in pratica gli insegnamenti di Cristo e del suo Vangelo. Per molti fedeli, questa è il vero scopo dell’incarnazione), fosse una sorta di “divinizzazione” dell’essere umano attraverso la “partecipazione” nell’incarnazione di Cristo.

Il tema dell’incarnazione era un argomento molto controverso e problematico tra il IV ed il V secolo d.C.

Indossare dei capi di abbigliamento con l’immagine di Cristo o con racconti tratti dai Vangeli poteva essere un modo per alcuni primi Cristiani di mimetizzarsi e assimilarsi visivamente a Cristo nella sua incarnazione.

Questa idea di assimilarsi a Gesù non è del tutto nuova. Troviamo degli accenni anche nelle Sacre Scritture, in particolare negli scritti di san Paolo, che spesso usa metafore sul vestiario per descrivere questa assimilazione. Per il santo, già il rito del battesimo è un modo per identificarsi con Cristo, nel quale il credente si spoglia e rinasce.

Questa metafora battesimale dell’abito era evidentemente usata in maniera esplicita per esprimere il concetto della partecipazione umana nel Divino.

La stessa nozione si può riscontrare anche in testi successivi (II secolo d.C.), come il Paedagogos del filosofo e teologo Clemente Alessandrino, un trattato pratico in tre libri il cui scopo era quello di guidare il fedele verso una vita retta. Nel testo, egli affronta il problema della formazione del cristiano. Clemente unisce rivelazione e cultura filosofica, servendosi di entrambe per ascendere alla gnosi.

Clemente, appunto perché si forma all’interno dell’ambiente culturale di Alessandria, fa largo uso della filosofia greca, soprattutto platonico-stoica, per elaborare concetti relativi alla gnosi cristiana, assieme all’allegorismo nell’interpretazione dei testi sacri.

La gnosi di Clemente Alessandrino è una forma di conoscenza religiosa che utilizza tutta la tradizione culturale greca e la fonde con gli insegnamenti della rivelazione giudaico-cristiani, in una prospettiva in cui la stessa rivelazione è essenziale alla gnosi. La filosofia e la religione si fondono come avvicinamento e “imitazione” di Dio.

Tutte le tematiche affrontate dai due autori confluiscono negli scritti di Atanasio e Cirillo, i due teologi che danno definitivamente forma all’ambiente cristiano alessandrino durante le controversie religiose del IV e del V secolo. L’assimilazione del fedele a Cristo è concepita come una forma di deificazione o divinizzazione, ossia una sorta di theosis. Come scrive lo stesso Atanasio nel suo trattato Sull’incarnazione: “La Parola di Dio divenne un essere umano, così che voi poteste imparare dall’essere umano come un uomo possa diventare Dio”. E ancora: “La parola di Dio ci è stata manifestata in un corpo umano per l’interesse nella nostra salvezza”.

Il santo nelle sue opere enfatizza questa corrispondenza mimetica tra la Parola di Dio che dà la vita e il corpo che si veste di immortalità.

A tal scopo, fa anche una rilettura della parabola evangelica del figliol prodigo, mettendo soprattutto l’accento sul gesto che fa il padre di vestire il figlio con abiti sontuosi dopo il suo ritorno a casa. Tale atto è visto come un’estesa metafora della creazione divina del genere umano “nell’immagine della gloria di Cristo”.

Per Cirillo, anche il sacramento dell’Eucarestia diventa un privilegio, perché permette a tutti i fedeli di partecipare al Divino, dato che l’unione tra mortale e immortale, tra umano e divino è, per il santo, permanente.

Per concludere, si potrebbe supporre che, dato che le vesti con immagini relative alla vita di Cristo erano viste come una sorta di imitazione e di partecipazione del Divino, che queste fossero utilizzate non nella vita di tutti i giorni, ma in contesti rituali, in cui magari proprio il vestiario diveniva la chiave di volta del rito, nel quale i partecipanti rendevano manifesto questo nuovo stato.

La sopravvivenza di questo genere di tuniche dal V all’VIII secolo d.C. fa supporre, inoltre, che le critiche rivolte da personaggi come il vescovo Asterio non abbiano sortito l’effetto sperato. Molti esponenti di classi sociali medio-alte dell’Egitto tardo antico continuarono a commissionare motivi decorativi a carattere cristologico.

Una forma di mimesi: le tovaglie d’altare

Tra il IV ed il VII secolo d.C. i tessuti decorati non adornano solo il corpo, ma anche cappelle, chiese, edifici, sepolture e ambienti domestici.

Un caso particolare di questa produzione tessile è riscontrabile nelle tovaglie realizzate per abbellire gli altari dei luoghi di culto cristiani. Così come nell’antica Grecia e nella Roma pagana i fedeli di alcuni determinati culti, come ad esempio quello di Athena Parthenos, realizzavano degli abiti per adornare la statua della Dea, cosi le tovaglie d’altare costituivano un’offerta o un dono a Dio.

Al contrario dei luoghi di culto pagani, nei quali gli altari erano generalmente lasciati spogli per via dei sacrifici animali e delle offerte che venivano bruciate e donate alle divinità, gli altari cristiani erano ricoperti con tovaglie, con una funzione pratica: proteggere l’altare e avere uno spazio pulito su cui offrire il pane e il vino del rituale eucaristico.

L’altare in sé era visto come una sorta di sepolcro di Cristo, e di conseguenza la tovaglia costituiva il sudario di tale tomba.

Data questa corrispondenza tovaglia/sudario, il clero si impegnò nello stendere un regolamento per la realizzazione di questo genere di suppellettili. Una prima regolamentazione in tal senso risale al IV secolo, all’epoca del Concilio di Nicea del 325, nel quale il papa di Roma, Silvestro, decretò che “il sacrificio dell’altare non deve essere celebrato su tovaglie di seta o tinte, ma solo su stoffe di lino come quelle in cui era stato avvolto e sepolto nostro Signore Gesù Cristo”.

Questo perché nel mondo antico, la percezione e la valenza simbolico del colore era molto diversa da quella che abbiamo noi oggi. Il bianco, in tal caso, sarebbe stato l’unico colore appropriato perché colore dell’innocenza e della purezza divina. Inoltre, avrebbe sicuramente creato nell’immaginario collettivo un forte contrasto cromatico con il rosso del sangue versato sugli altari pagani.

La necessità di stendere un regolamento ci fa supporre che, come per il vestiario del clero, anche per le stoffe che adornavano i luoghi sacri non vi fossero state vere e proprie regole standard, ma che ognuno seguisse le proprie credenze.

Come per gli altri motivi decorativi che abbiamo preso in esame, anche quelli realizzati su queste stoffe avevano dei particolari significati. Uno dei più comuni era il gammadia, un decoro geometrico che traeva il nome dalla lettera greca gamma maiuscola.

Solitamente si sceglievano per le tovaglie d’altare dei decori molto semplici e geometrici, ma non mancano testimonianze di motivi decorativi molto più elaborati, addirittura figurativi. Come si può leggere nel Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis, per esempio, nel quale il presbitero Andrea Agnello descrive quattro di queste opere tessili, dette endothim, donate dal vescovo Massimiano alle chiese di Ravenna. In una vi era anche il ritratto dello stesso vescovo.

Un’altra testimonianza ci giunge dalla poetica ekphrasis, redatta da Paolo Silenziario, nella quale descrive la basilica di Hagia Sophia di Costantinopoli del 562, anno della seconda consacrazione. Nella sua descrizione, egli parla di tovaglie realizzate con una vasta gamma di colori in fili di seta, con ricami in argento e oro.

Altri tessuti potevano avere dimensioni monumentali ed essere appesi nei luoghi di culto, con lo scopo di creare un legame tra la Terra e il Regno dei Cieli, una sorta di Paradiso in Terra.

Le tovaglie costituivano anche uno dei doni più frequenti che i fedeli facevano alla Chiesa come offerta votiva. Nella letteratura del periodo troviamo numerosi riferimenti a riguardo, come nei testi del vescovo di Costantinopoli Gregorio Nazianzeno (IV sec.).

Le tovaglie erano anche usate per avvolgere o nascondere alla vista le reliquie. Il contatto con queste rendeva anche la stoffa un oggetto sacro e di devozione.

A tal proposito, sappiamo di un interessante aneddoto, tratto dalla vita di Gregorio Magno, al quale venne chiesta una reliquia dell’apostolo Pietro. Egli non aveva alcuna intenzione di disfarsi di una delle ossa del santo, considerate di un valore inestimabile per la Chiesa di Roma. Così, donò un lembo della tovaglia dell’altare della basilica di san Pietro. I destinatari del dono, un gruppo di Franchi, rimasero alquanto delusi dal regalo, e tornarono a Roma per aver un risarcimento dal papa. Gregorio Magno aprì il cofanetto in cui il pezzo di stoffa era posto, ne tagliò una parte, e con gran sorpresa dei Franchi, questa iniziò a sanguinare, dimostrando che anche la tovaglia a contatto con le ossa del santo ne aveva assunto la natura miracolosa.

Motivi vegetali

I temi decorativi legati al mondo vegetale sono assai frequenti nella produzione tessile tardo antica. I più antichi attestano uno spiccato gusto naturalistico, sovente posto in risalto dalla resa volumetrica avvalorata da una accesa policromia.

Nella decorazione vegetale tessile riscontriamo tuttavia un numero ridotto di tipologie di piante, foglie, e frutti, ripetendo di continuo quelli più adatti a esprimere determinate simbologie.

Frammento di clavo, IV – V secolo d.C., MET Museum

Tra i girali rigogliosi di queste piante fanno la loro comparsa anche volatili e altri animali, tra cui ad esempio la lepre. Questa è da sempre considerata simbolo di fecondità. Lepri o conigli, associati alla vite e ai suoi frutti, sono raffigurati già a partire dal VI secolo a.C. nell’arte del bacino del Mediterraneo. Dall’età ellenistica, una lepre intenta a mangiare dell’uva compare soprattutto in contesti funerari legati al culto di Bacco. Il platonico Proclo (412 – 485) ricorda infatti che la divinità era anche nota col nome di Οΐνος. ossia “vino”. L’associazione Dioniso/vino era inoltre data dal fatto che il succo fermentato della vite veniva spesso visto come una manifestazione diretta del mito di morte e resurrezione del dio.

Come abbiamo già accennato precedentemente, la figura di Dioniso/Bacco è vista spesso in correlazione stretta ad altre divinità con le quali condivide il destino di morte e anastasi.

Queste corrispondenze si possono oltretutto vedere nell’arte dell’Egitto copto: le scene che raffigurano la deposizione di Cristo rispecchiano l’impianto iconografico di quella del dio Osiride (divinità egizia assimilata a Bacco già in epoca Tolemaica) circondato da Iside e Nephti. Inoltre, anche l’antica usanza di mummificare i corpi dei defunti andrà avanti almeno fino al VII secolo d.C.

Sia dall’antico Egitto, il coniglio o la lepre sono visti come simbolo di vittoria sulla morte, di resurrezione. Ciò trova inoltre un parallelo col geroglifico per indicare uno degli epiteti del dio Osiride. Con molta probabilità, il coniglio venne preso in prestito dai primi cristiani lasciandone invariato il significato simbolico.

Spesso nei tessuti infatti troviamo raffigurato questo animale tra girali d vite a richiamare appunto l’anastasi di Cristo.

Oltre alla vite, sono numerose specie di piante e fiori sono rappresentati sui tessuti tardo romani. Tra questi spiccano sicuramente dei non ben identificati fiori (forse loto) dai vistosi petali rossi o rosa simbolo di vita.

Gli arbusti occupano un posto di primo piano nelle decorazioni. Questi simboleggiano l’albero della vita e quello della conoscenza. I due alberi, rigogliosi e colmi di frutti, fuoriescono da cantharos attorniato da putti, altra vegetazione, e animali.

Queste raffigurazioni trovano dei corrispettivi in testi di matrice gnostica, come L’origine del Mondo. In questo volume, i due arbusti sono minuziosamente descritti: il primo, situato a nord del Paradiso, risplende di luce solare, ha foglie simili a quelle del cipresso, e frutti che rimandano agli acini d’uva. Le sue fronde immortali si innalzano fino al cielo. L’altro, al contrario, risplende di flebile luce lunare, le sue foglie sono simili a quelle del fico, e i suoi frutti sono dolci come datteri.

Accanto all’albero della vita e quella della conoscenza, troviamo fra i vegetali più comunemente raffigurati l’edera: pianta sacra a Bacco, simbolo di immortalità e rinascita.

Come abbiamo già accennato, una grande varietà di uccelli popola il mondo dei tessuti dell’Egitto tardo antico. I volatili, in accordo con l’alntica tradizione egizia, rappresentano l’anima, e proprio con questo significato spesso li troviamo anche scolpiti su steli funerarie.

I tessuti copti rinvenuti nella cittadina di Antinoè mostrano numerosi uccelli con caratteristiche diverse, di cui non sempre è facile individuarne la specie. A volte, nei tessuti si tende ad un’eccessiva stilizzazione che non rende affatto possibile delineare da un punto di vista ornitologico il volatile in questione.

Gli uccelli sono spesso raffigurati uno l’accanto all’altra, come in una sorta di teoria di volatili. Come nel caso dei conigli, anche questi possono comparire in tralci e girali di fiori e arbusti, che si snodano in sinuose curve; o inseriti in motivi geometrici. Altre volte, gli uccelli possono invece occuppare l’intero spazio di una tabula o di un orbiculo.

Cerchiamo ora di analizzare le specie più riccorenti che compaiono nei decori.

In primo luogo, spiccano sicuramente le figure di oche e anatre. Animali ben noti nel territorio egiziano da molto tempo, e allevati per la loro carne e per le uova. L’oca ha spesso un aspetto sinuoso e elegante.

Le raffigurazioni di questo animale nell’arte dell’Egitto faraonico sono molto frequenti, spesso in associazione al dio Geb, come ben dimostra anche il suo geroglifico. L’oca è simbolo di fertilità e prosperità, e ricopriva il ruolo di annunciar l’ascesa al trono del nuovo sovrano.

Troviamo oche e anatre a coronamento della scena del mitico eroe Bellorofonte nel cosidetto Scialle di Sabina.

Dettaglio dello scialle di Sabina, Musée du Luovre

L’altro uccello di estrema importanza non solo per l’analisi qui svolta, ma in generale per l’arte cristiana, è il pavone, simbolo di eternità. Facilmente riconoscibile per i suoi splendidi colori e la coda, questo uccello è da sempre stato considerato simbolo di immortalità, di rinascita, di resurrezione. Esso compare in numerosi miti greci e latini. Per i cristiani, i suoi numerosi “occhi”, che adornano la coda, sono un’emblema dell’onniscienza di Dio.

Sant’Agostino, che nelle sue opere spesso parla del mondo animale (spesso riprendendo i testi classici), ricorda che la carne del pavone non marcisse mai, e perciò vede un parallelo tra l’uccello e l’immagine della resurezione di Cristo.

Nei motivi decorativi spesso ci vengono mostrati due pavoni affrontanti, divisi al centro da un croce, da un cantharos, una fonte, o un ankh. L’acqua della fonte e la rigogliose piante sono richiama alle forza rigeneratrici e alla fecondità. Mentre la croce e l’ankh rimandano alla vita oltre la morte.

A volte, i pavoni possono essere inseriti entro cornici architettoniche e tralci di vite. Il collegamento tra il significato dell’animale e questa pianta è ormai alquanto evidente.

Altro uccello molto frequente nei tessuti copti è lo struzzo. Anche questo uccello era ben noto fin dall’antichità, tanto che l’autore greco Aristotele lo ricorda nei suoi testi come una creatura a metà tra un uccello e un mammifero. Nell’Egitto faraonico, lo struzzo era uno degli attributi della dea Maat, divinità che presiedeva alla pesatura della anime dei mortali. La piuma di una struzzo serviva provo a questo scopo, ed era considerata come simbolo di equità, poiché si riteneva che le penne dello struzzo fossero tutte della stessa lunghezza.

Nei decori tardo antichi, l’animale compare in scene nilotiche assieme a putti e uccelli acquatici.

Altro uccello piuttosto popolare sembra essere il parrocchetto, un piccolo pappagallo dal piumaggio verdastro con striature azzurre sulla coda. Per via della somiglianza cromatica del piumaggio però, questo pappagallino potrebbe in realtà essere una colomba treronina, meglio nota come piccione verde africano.

Il dubbio è sollevato dal fatto che in testi di natura cristiana, soprattutto di matrice gnostica, come il Pistis Sophia, troviamo la figura di Dio associata a questo volatile: “Dopo che Gesù fu risorto dai morti trascorse undici anni con i suoi discepoli (…) istruendoli soltanto fino ai luoghi del primo comandamento e fino ai luoghi del primo mistero al di là della cortina, all’interno del primo comandamento, cioè il ventiquattresimo mistero esterno e inferiore; questi misteri si trovano nel secondo spazio del primo mistero anteriore a tuti i misteri: il padre in forma di colomba”. Considerando che testi come questo sono stati prodotti in Egitto, dove l’animale sembra anche essere piuttosto comune, non è improbabile dunque che si possa trattare di una colomba treronina.

Tra gli uccelli che fanno la loro comparsa nei tessuti tardo antichi non mancano di certo quelli che appartengono al repertorio figurativo dell’Egitto più antico, come: il gallo, il falco, l’aquila, la faraona, e la pernice.

L’aquila, il cui nome deriva dal latino acumen, termine atto a sottolinerae la sua acuta vista e la sua formidabile capacità predatoria, è considerato il rapace per eccellenza, e considerata da motli popoli del bacino del Mediterraneo come simbolo di forza e potere.

Addirittura, i Greci ritenevano che questo uccello fosse in grado di fissare i cocenti raggi solari, e di bruciare nel suo calore per poi risorgere. Questa credenza a reso l’aquila uno dei simboli di rinascita e di rinnovamento.

In contesti funerari, l’immagine di un’aquila compare accanto a simboli di virtù, o con ghirlande e corone di fori, o croci, che può stringere tra le zampe o sostenere col possente becco. In epoca romana, il rapace veniva lasciato libero di librarsi in cielo, durante il rito funebre di un imperatore.

In alcuni scritti, l’aquila diventa anche simbolo di umiltà per le donne innamorate: così come il volatile, secondo la credenza, spezza il suo becco per potersi nutrire, così la donna si spoglia del suo orgoglio davanti all’uomo che ama.

Nell’iconografia dell’Egitto faraonico, questo rapace fa molto tardi la sua comparsa, e con molta probabilità venne introdotto da popolazioni straniere. Molti più comuni nell’immaginario egizio sono i falchi, assimilati al dio Horus.

In ambito tardo romano, l’aquila viene adottata come simbolo di vittoria sulla morte. La si trova spesso mostrata di profilo ad ali spiegate.

Come per l’aquila anche il falco assume un significato analogo. E spesso i due rapaci tendono a sovrapporsi.

Il gallo è l’uccello che col suo canto risveglio il mondo dall’inerzia e dal topore del sonno, annunciando la fine della notte e il sorgere del nuovo giorno. Greci e Romani legavano la figura del gallo a quelle di molte divinità, tra cui Apollo e suo figlio Esculapio. A questo animale si attribuivano numerose qualità come la fierezza e il coraggio. Il colore rosso vivo della sua cresta era considerato un colore benaugurante e dalle forti valenze apotropaiche.

Il gallo, nell’iconografia greco-romana, è uno degli animali del seguito di Mercurio. La funzione principale del dio era quella di essere uno psicopompo, e intermediario tra il mondo divino e quello degli uomini.

La faraona è facilmente riconoscibile nelle raffigurazioni per via di piccole macchie biancastre che ricoprono il corpo. Non ne conosciamo purtroppo il possibile significato. Mentre la pernice potrebbe rappresentare, per via dell’abitudine di accudire anche pulcini non propri e per le sue urla, il buon cristiano, che si occupa dei membri della comunità e fa atti di proselitismo.

Tabula, IV secolo d.C.

Dal VII secolo d.C., fanno la loro comparsa anche uccelli aventi dei nastri legati attorno al collo, secondo un gusto tipicamente persiano.

Oltre a conigli e uccelli, nei tessuti copti si possono spesso individuare anche le figure di animali feroci, quali leoni e orsi. Queste fiere assumono nell’arte copta dei significati complessi, legati alla natura del peccato, e all’eterna lotta fra il bene e il male, tra il vizio e la virtù. Le bestie feroci in tal senso costituirebbero la raffigurazione visiva e tangibile del peccato, mentre i guerrieri danzanti, che spesso popolano le scene con leoni, sarebbe figure atte a celebrare la vittoria sula male.

Un corrispettivo fra leone e il concetto di male si può riscontrare ancora una volta nel Pistis Sophia, così come in altri testi di stampo gnostico. Qui si parla di un demone dall’aspetto leonino, bisessuato, e che vive nelle profondità del mare. Il leone è detto “nemico dell’uomo” e sarà maledetto colui che verrà mangiato.

Infine, non si poteva escludere da tale lista il pesce. Animale tipico della cultura nilotica e simbolo del battesimo, e pertanto dell’appartenenza alla fede cristiana. Il pesce usato come simbolo della fede dai primi cristiani era spesso un delfino. Era altresì raffigurato sottoforma di delfino il “grosso pesce”, che aveva inghiottito Giona. Questo fu interpretato come una prefigurazione della morte e della resurrezione di Cristo, delle quali l’animale è simbolo. Nell’arte antica inoltre questa creatura compare in numerose raffigurazioni, accanto a varie divinità, tra cui anche Bacco.

Frammento di clavo, V – VI secolo d.C., MET Museum

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A. Zaccaria Ruggiu 2001, Significato e simbolo della tunica copta e delle sue decorazioni in Revue Archéologique, pp. 279 – 301

A. Zanni 1997, La tunica dell’Egitto cristiano. Restauro e iconografia dei tessuti copti del Museo Poldi Pezzoli


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