Le gemme nella Roma antica

Molti di noi sono sicuramente rimasti colpiti dalla bellezza e dalla raffinatezza delle gemme, pietre dure e paste vitree incise dagli artigiani romani nel corso dei secoli.

Secondo Isidoro di Siviglia, vissuto tra il 560 ed il 636, le gemme “sono così chiamate in quanto trasparenti come gocce d’acqua” (Etimologie 20, 16, 6, 2).

Ovviamente, l’origine etimologica del termine rintracciato dall’autore non è veritiera, ma crea un suggestivo collegamento tra il vocabolo e una delle caratteristiche delle gemme: la trasparenza, la capacità di riflettere la luce e rifrangere i raggi solari.

Le stesse peculiarità si possono ritrovare nel Digesto (XXXIV, 2, 19, 17), a una voce del giurista Ulpiano (morto nel 228 d.C.): “Le gemme sono fatte di materiale trasparente”.

Il termine glittica (ovvero la tecnica dell’incisione su pietre dure e preziose) proviene invece dal verbo greco glyphein, ossia incidere.

Centri di produzione e officine

Da ciò che sappiamo, i principali centri di produzione delle gemme nella Penisola in età romana sono stati Aquileia, Roma, e Pompei.

Ad Aquileia, forse il centro di produzione più fiorente tra i tre, giunsero nel II secolo a.C. molto artigiani centro-italici. Anche se non abbiamo tracce dell’impianto delle loro officine, sono giunti fino a noi straordinari esempi dei beni da loro prodotti.

Gemma etrusca di III secolo a.C., Londra (Regno Unito), British Museum

Dato che non abbiamo quasi nessuno resto archeologico o resti strutturali di tali officine, è alquanto difficile immaginarsi come poteva apparire o dove potessero essere situate (anche se con molta probabilità nelle periferie cittadine).

Inoltre, le attrezzature impiegate non sembrano esser particolarmente ingombranti o voluminose, il che forse permetteva di ospitare l’officina direttamente presso la propria abitazione, come è ben testimoniato del resto da una delle domus di Pompei: la casa di Pinario Ceriale.

L’uomo esercitava il mestiere d’incisore, e proprio un vano della sua stessa abitazione, coperto da un intonaco giallo, era stato destinato a bottega.

Signarii e gemmarii

Nella Roma Antica, non sempre il mestiere dell’artigiano coincideva con quello del venditore.

Anche nell’ambito della produzione delle gemme, vi era una netta distinzione tra signarius o scalptor, colui che intagliava le gemme e il gemmarius, ossia il rivenditore (anche se spesso in latino il termine si sovrappone a “gioielliere”).

A svolgere questi lavori potevano essere uomini liberi o liberti. Le attività potevano essere gestite da singoli, anche con l’ausilio di familiari o schiavi.

Particolarmente toccante risulta essere una stele funeraria, rinvenuta in Roma nel 1631. Questa era dedicata ad un giovane di appena dodici anni, Pago, lodato per le sue abilità e doti, che lo avevano reso un lavoratore insuperabile nel “realizzare bellissimi gioielli e incastonare gemme variopinte”.

Dato che i lavoratori in campo glittico usavano materiali costosi e pregiati, il mondo legislativo dovette occuparsene spesso, introducendo tutta una serie di nuove leggi e norme.
Ad esempio, nella circostanza in cui una gemma, comprata altrove, fosse stata consegnata all’artigiano per essere incastonata o incisa, e questa fosse stata danneggiata o rotta, non ci sarebbe stata azione legale se ciò era accaduto per un difetto della pietra stessa e non per l’incompetenza del signarius.

La lavorazione

Gli attrezzi e le tecniche impiegate dagli artigiani di duemila anni fa sono sostanzialmente usati ancora oggi.

Prima di passare a inciderne una, le pietre dovevano assumere le dimensioni desiderate, attraverso un processo noto col nome di frantumazione o scheggiatura. A questa seguiva la sbozzatura o sgrossatura, che serviva per dare la giusta forma.

L’esperienza acquisita dagli artigiani permetteva di capire come meglio procedere per tale processo, dato che ogni pietra possiede differenti caratteristiche che la rendono più o meno duttile. In tal senso, la pietra più facile da lavorare era la corniola, molto amata dai Romani, la cui struttura e durezza intermedia permettevano di ricavare forme regolari ben definite.

Corniola con Luna crescente e stelle, Aquileia (UD), Museo Archeologico Nazionale
Ph. Martina Cammerata Photography

La forma prediletta rimase sempre ovale o tondeggiante, raramente poligonale. Nel corso dei secoli invece variò l’andamento delle superfici, dapprima convesse e poi piane, come ben si evince anche da un passo di Plinio (Naturalis Historia 37, 12, 196).

Dopo la sbozzatura, la gemma andava sottoposta ad una prima lucidatura, usando polveri minerali a secco o paste abrasive, queste ultime ottenute con grasso di montone o strutto unito a sabbia. Si ottenevano così superfici a specchio su cui sarebbe risultato più facile procedere con l’incisione, eseguita a bulino o a trapano.

Come ben si evince dalle fonti, per realizzare la decorazione sulla pietra non si necessitava di molta forza o pressione. La chiave stava nel calore prodotto dalla punta nell’attrito con la superficie della gemma.

Per questa ragione le punte impiegate erano dapprima immerse in una pasta di smeriglio e olio: in primo luogo per facilitare l’attrito, secondariamente per lubrificare e refrigerare.

Infine, l’ultimo passaggio prevedeva un’ulteriore rifinitura fatta con olio, o grasso, sulla parte incisa o solo su un settore della gemma, per conferire maggior risalto al motivo decorativo.

Plinio (Naturalis Historia 37, 12. 195) suggeriva di immergere le gemme nel miele della Corsica per una maggiore lucentezza.

La bottega del gemmarius

La bottega del gemmarius, così come i negozi degli odierni gioiellieri, era raffinata ed elegante. Al loro interno, le gemme potevano essere vendute sciolte o già incastonate.

Stele da Divodurum Mediomatricorum (Metz), che mostra la bottega di un gemmarius

Nella capitale, le botteghe dei gemmarii erano situate lungo la Via Sacra, una zona ricca di attività commerciali già a partire dal I secolo a.C.

I materiali

Paste vitree

Oltre alle pietre dure, per produrre gemme si poteva far uso di paste vitree. Lo stesso Plinio (Naturalis Historia 37, 76 198 – 200) annovera qualche trucchetto per distinguere le pietre di valore da quelle in vetro.
Per esempio le prime, se messe in bocca, danno una sensazione di freddo. O ancora, se si passava un frammento di ossidiana sulla gemma, questo avrebbe lasciato dei segni sulla pasta vitrea ma non su una gemma realizzata con una pietra di valore.

L’autore dà questi consigli perché, all’occhio di un cliente poco esperto, l’inganno sarebbe risultato semplice. Alcuni episodi di frode sono narrati anche nella Historia Augusta.
Nella biografia dell’imperatore Gallieno (253 – 268), si parla di un gemmarius che osò proporre alla consorte del sovrano, Salonina, delle paste vitree, spacciandole per gemme d’alto valore. L’imperatore, allora, decise di punirlo…truffandolo a sua volta.
Gallieno fece credere all’uomo d’essere stato condannato a combattere contro una belva feroce. Quando vide lo sguardo del commerciante pieno di terrore, Gallieno fece aprire la gabbia, dalla quale uscì però un cappone.

Ovviamente, la pasta vitrea non serviva solo a scopi truffaldini, ma anzi era molto amata dalla clientela, soprattutto per via dei costi inferiori a quelli delle pietre dure, che potevano soddisfare le esigenze anche di classi sociali meno abbienti.
Anche tra le paste vitree non mancano tuttavia esemplari di gran pregio, che venivano venduti a prezzi esorbitanti.

Un aspetto indubbiamente interessante era la possibilità di ottenere da una singola matrice innumerevoli repliche di gemme in pasta vitrea, una sorta di produzione seriale di immagini. Tale aspetto venne usato anche a scopi propagandistici: la glittica, infatti, ebbe un ruolo di rilevanza in questo, poiché un semplice oggetto d’ornamento permetteva di autorappresentarsi, veicolando anche messaggi, credenze, opinioni, pensieri.

Cammei

Non mi soffermerò molto sui cammei, dato che a questi tempo fa dedicai un approfondimento proprio qui sul sito.

Leggi anche Cammei nella Roma Antica

In sintesi, ciò che differenzia una gemma da un cammeo sta nella lavorazione. La prima è incisa in negativo, il secondo è realizzato in altorilievo col motivo in positivo. In genere, per un cammeo sono predilette le pietre dure che presentano naturalmente un’ampia sfumatura di colori e rientranze in differenti cromie.

Anche per i cammei possono essere impiegate le paste vitree, composte da differenti strati di vetro colorato, legati a caldo.

Cammeo recante la scritta MNHMÓNEYE, ovvero “Ricorda”, Aquileia (UD), Museo Archeologico Nazionale
Ph. Martina Cammerata Photography

Pietre dure

Le pietre dure possono avere diverse tonalità, colori, sfumature, o essere totalmente trasparenti come nel caso del quarzo ialino. Esse simboleggiano i quattro elementi.

Ovviamente, è banale ammettere che i colori delle gemme assumevano svariati significati e funzioni, legate anche al mondo magico e della superstizione. Così, anche i motivi decorativi non erano scelti con casualità, ma sempre associati ad una determinata pietra o a un determinato colore.

Agata

L’agata era legata a tutti gli elementi naturali per via delle sue innumerevoli sfumature.

Essa era ritenuta in grado di essere utile contro le punture di insetto (come ragni e scorpioni) e le malattie della vista. Se di colore particolarmente brillante, era desiderata dagli atleti per essere invincibili.

Ametista

Questo forse è il quarzo più apprezzato dai Romani, per via delle sue tonalità che vanno dal viola intenso all’incolore. L’ametista era amata per la sua presunta capacità di tenere lontana l’ebbrezza, ma anche per combattere emorragie nasali, calmare la tachicardia, e i dolori nevralgici.

Per quanto riguarda gli effetti dell’alcol, Plinio (Naturalis Historia 37, 9, 121) scrive che: “Magorum vanitas ebrietati eas resistere promitit et inde appellatas, praeterea, si lunae nomen ac solis inscribatur in iis atque ita suspendantur e collo cum pilis cynocephali et plumis hirundinis, resistere veneficiis, iam vero quoquo modo adesse reges adituris, grandinem quoque avertere ac locustas precatione addita, quam demonstrat. Nec non in smaragidis quoque similia promisere, si aquilae scalperentur aut scarabei, quae quidem scripsisse eos non sine contemptu et inrisu generis humani arbitror“.

Ossia: “I Magi impostori assicuravano che le ametiste tengono lontana l’ebbrezza e che da ciò derivano il nome, e che inoltre a incidervi sopra il nome della Luna e del Sole e ad appenderle poi al collo con peli di cinocefalo e piume di rondine tengano lontani i malefici; e ancora che, in qualunque modo siano usate, assistono le persone che devono rivolgersi a un re, e che allontanano anche la grandine e le cavallette, se solo vi si aggiunge una formula di preghiera che essi insegnano. Ma cose simili le assicurano anche per li smeraldi, se vi sono incise aquile o scarabei; cose che ritengono davvero essi abbiano scritto non senza disprezzo e irrisione del genere umano”.

Ametista, I secolo a.C. La raffigurazione allude al dio Bacco. Aquileia (UD), Museo Archeologico Nazionale

Proprio per via di questa proprietà, le ametiste recano spesso l’immagine di Methe, dea dell’ebbrezza, che fa parte del corteggio di Bacco.
Derivato quindi da quello di Methe preceduto dall’alfa privativo, che ne rovescia il significato, il nome della pietra significava “la non ubriaca”: chi la indossava sarebbe stato perciò un non-ubriaco, e avrebbe potuto bere a volontà senza risentire dei postumi.

Corniola

La corniola è il tipo di calcedonio più amato dai Romani. Questa pietra, che può assumere sfumature che vanno dal giallo, al rosso, al bruno, proveniva dalle Alpi Noriche, dall’India, dalla Persia e dall’Arabia.

Le gemme realizzate con corniola sono quelle maggiormente attestate, tanto che il termine “corniola” divenne sinonimo di gemma.

Secondo le credenze, questa pietra era legata al fuoco, al sangue e al sole. Per i Romani, la corniola aveva la capacità di fermare emorragie, calmava i disturbi femminili, allontanava il malocchio, contrastava il pessimismo e garantiva la vittoria.

Corniola con raffigurazione di Amore e Psiche, Wien (Austria), Kunsthistorisches Museum

Diaspro

I diaspri vennero molto usati tra la fine del II e per tutto il III secolo d.C.

Si riteneva che il diaspro rosso avesse gli stessi poteri della corniola. Quello verde invece avrebbe protetto i feti nel ventre materno e facilitava la nascita dei bambini.

Eliotropo

L’eliotropo, noto anche col nome improprio di “diaspro sanguigno”, secondo Plinio (Naturalis Historia 37, 60, 165) doveva il suo nome al fatto che, se gettato in acqua, aveva la capacità di tramutare i raggi solari che lo colpivano in riflessi sanguigni.

Questa pietra ebbe la sua massima diffusione nel III secolo d.C. per la realizzazione delle cosiddette “gemme magiche”, dato che per i Romani favoriva gli incantesimi, proteggeva dagli incubi e consentiva di predire il futuro.

Ematite

Il nome deriva dal greco aima, ossia sangue. Come appunto sostiene la sua etimologia, anche questa pietra era legata al sangue e si credeva fosse un antiemorragico. Si riteneva, inoltre, che potesse giovare ai reni, e che potesse difendere dai pericoli della guerra, concedendo una lunga vita.

Lapislazzulo

Il lapislazzulo era noto in nel mondo antico coi termini kyanos o sappheiros, parole che sembrano corrispondere a due differenti tipologie di lapislazzuli (il cui nome moderno deriva dalla lingua araba e dal latino medievale). Per via della sua colorazione, che rimanda al cielo, la pietra era sacra alla dea Afrodite. Per via di tale rimando alla Venere Anadiomene, si pensava favorisse i sentimenti e l’amore coniugale.

I Romani le attribuivano inoltre virtù mediche, quali curare le ferite degli scorpioni, le ulcere e le malattie oculari.

Nicolo

Questo tipo di calcedonio nero-grigio ebbe largo impiego nel III secolo d.C., con la funzione di “occhio magico”, da cui deriva anche il nome, contaminazione del termine latino oculus (piccolo occhio).

Nicolo con Cerbero, II d.C., Aquileia (UD), Museo Archeologico Nazionale

Onice

Calcedonio molto amato in età imperiale dalle diverse proprietà magiche, che avrebbero potuto, in mani sbagliate, trasformarlo da benevolo amuleto a forza ostile.

Pietra di luna

La pietra di luna era nota nel mondo romano col nome di Selenites, anche se attualmente col termine “selenite” si intende una varietà di gypsum, ossia un gesso cristallino.
La credenza popolare voleva che questa pietra venisse raccolta di notte e che assicurasse la protezione contro gli attacchi epilettici. Anche la perla era ritenuta utile contro questo male.

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Le perle, data la loro associazione all’astro lunare, si riteneva che fossero in grado di curare malattie e disturbi connessi alle fasi lunari, quindi non solo l’epilessia, la follia e la malinconia, ma anche malattie ginecologiche.

Prasio

Il prasio è un calcedonio dal colorito verde brillante. Questa pietra giungeva dall’India, e ricordava molto lo smeraldo. Così come lo smeraldo, si riteneva che anche il prasio giovasse ai problemi di vista. Inoltre i Romani lo utilizzavano come amuleto durante i viaggi, e credevano che proteggesse da pericoli e malefici.

Quarzo ialino

Il quarzo ialino, come abbiamo già avuto modo di dire a proposito della sepoltura di contrada Beligna (Aquileia – UD), era considerato ghiaccio pietrificato, creatosi dalla solidificazione improvvisa di acqua o neve pura. Per sua natura, quindi, era ritenuto fonte di sollievo per l’anima nel suo cammino ultraterreno. Questo si estraeva in India e nelle Alpi Noriche.

Leggi anche L’enigmatica “Tomba delle mosche d’oro” da Beligna (Aquileia)

Cicala in cristallo di rocca, Aquileia (UD), Museo Archeologico Nazionale
Ph. Martina Cammerata Photography

Solitamente, il quarzo ialino era impiegato per la realizzazione in oggetti a tutto tondo, più che per le gemme.

Secondo i Romani, questo materiale era in grado di tener lontana la malasorte, abbassare la febbre, curare la cattiva digestione, aiutava le donne a concepire figlie femmine e favoriva le piogge.

L’impiego delle gemme

Gli utilizzi delle gemme erano molteplici.
Si andava dal semplice collezionismo alla realizzazione di gioielli, offerte votive alle divinità e persino come ornamento di mobili, suppellettili, acconciature, foderi delle spade, elmi, indumenti e pareti.

Per quanto riguarda i gioielli, le gemme adornavano soprattutto anelli. Questi potevano aver non solo una funzione estetica, ma anche pratica, come fungere da anello-sigillo (anulus signatorius) o aver degli intenti propagandistici. Tali oggetti erano addirittura citati nei testamenti, e lasciati solitamente ai primogeniti maschi della famiglia.

Gli anelli-sigillo era portati sulla mano destra, ma nulla vietava, nel quotidiano, di spostarli sulla sinistra per evitare di graffiare o rompere la gemma.

La moda romana consentiva di portare anelli su entrambe le mani e su qualunque dito, ad eccezione del medio, detto impudicus o infamis, per la sua somiglianza, se tenuto dritto, col membro maschile. Per tale ragione, ancora oggi, alzare il dito medio è ritenuto un gesto volgare.

Aquileia (UD), Museo Archeologico Nazionale
Ph. Martina Cammerata Photography

Le gemme di grandi dimensioni potevano adornare anche collane od orecchini.

Ovviamente, come accennato sopra, le pietre erano anche utilizzate come amuleti o talismani, come nel caso delle cosiddette “gemme magiche”.

Questo tipo di preziosi non era usualmente realizzato in Italia, ma proveniva dall’Egitto (dove già in età tolemaica è ben attestato), in particolare da Alessandria, in un periodo compreso tra la fine del II e il III secolo d.C.

Nella città egizia avevano sede botteghe di artigiani altamente specializzati nella realizzazione di queste gemme, che per essere dotate dei poteri richiesti necessitavano dell’intervento di maghi.
Esse recavano incise anche formule, frasi, parole rituali, dal senso a volte ancora oggi oscuro. Anche da un punto di vista iconografico e iconologico, si distinguono dal classico repertorio figurativo delle gemme per la presenza di divinità e creature tratte dall’immaginario mistico sacrale del mondo egizio, giudaico-alessandrino e dei primi cristiani.

Indossare un simile amuleto avrebbe permesso al proprietario di entrare in diretta comunicazione con il dio, mentre le formule magiche incise gli avrebbero permesso di superare qualunque difficoltà.

Gemma in ematite con Seth. Sul lato opposto la pietra reca un’iscrizione greca con la parola “malattia”.
Aquileia (UD), Museo Archeologico Nazionale
Ph. Martina Cammerata Photography

Una funziona analoga è svolta dalle gemme mediche.
Nel mondo antico infatti son ben attestate le interferenze fra ars medica e magicae vanitates. Lo stesso Plinio afferma che il successo della prima era dovuto proprio alla commistione con altre “scienze”, come la religione, la filosofia, le arti astrologiche.
Non va però dimenticato che l’atteggiamento dell’autore latino, come abbiamo già visto pocanzi per l’ametista, è alquanto oscillante nei confronti della magia, in bilico fra curiosità, timore e diffidenza.
Del resto, prima della comparsa di questo tipo di gemme, la magia romana antica, almeno fino al VI secolo a.C., consisteva solo nella pratica delle defixiones e di altre pratiche tramandate oralmente.

Dal II – III secolo d.C. fino ad oltre la tarda antichità fanno la loro comparsa le gemme uterine, amuleti atti a curare malattie e disturbi legati al mondo femminile, come emorragie interne o aborti, favorire una gravidanza o al contrario evitarla, e per contenere eventuali spostamenti anomali.

Fin dalla Grecia Antica, si riteneva che l’utero fosse mobile. Questa credenza fa la sua apparizione nel De natura mulierum di Ippocrate. Il medico affermava che a volte l’utero tende a spostarsi, causando a seconda della zona dei disturbi. Per esempio, se vicino al fegato, la donna cadeva in un grave stato di prostrazione che si manifestava nel colore livido della pelle, e nelle difficoltà nel linguaggio.

Questi sintomi si sarebbero manifestati soprattutto in due categorie di donne: le vergini avanti con l’età e le vedove, se divenute tali quando ancora fertili. Ovviamente, le cure prescritte erano diverse a seconda dei casi. Ciò non vuol dire che le donne sposate non fossero considerate soggette ad altre malattie uterine.

Gemma uterina

Le gemme uterine presentano svariate raffigurazioni, che mutano col passare dei secoli. Dapprima l’utero è rappresentano iscritto in un serpente che si morde la corda. In seguito assume l’aspetto di un polpo o di una piovra, munito di tentacoli, fino all’epoca tarda antica in cui diventa una vera e propria Gorgone.

In età cristiana, alla Gorgone vengono associati varie figure di santi, angeli, arcangeli, e a volte la stessa Theotokos.

Sempre dall’Egitto, tra la fine del I secolo a.C. e i decenni centrali del I secolo d.C., giungono altre gemme molto particolari, recanti motivi giocosi o scherzosi. Queste prendono il nome di grylloi, e sono generalmente diaspri rossi o corniole.

Anche i grylloi sono piccoli amuleti. L’iconografia di queste gemme è alquanto bizzarra, e mostra degli esseri antropomorfi, che avevano il preciso compito di allontanare la sfortuna, attirando la sua attenzione con “indovinelli”, in modo da distrarla dal suo compito.

Gryllos con testa umana, II secolo d.C., Aquileia (UD), Museo Archeologico Nazionale

Secondo Plinio il Vecchio, l’ideatore di queste immagini sarebbe stato il pittore greco Antiphilos.

Infine, come abbiamo accennato, le gemme erano considerate degli oggetti degni di essere offerti alle divinità, non solo da membri dei ceti elevati, ma anche da uomini e donne meno abbienti. Ad esempio, da Aquileia conosciamo il caso di Popillia Marcellina (I secolo d.C.). Affranta per la perdita della figlia, offrì alla dea Venere i gioielli della defunta, al fine di adornare la statua della divinità a perenne memoria della devozione delle due donne.

Le fonti antiche

Oltre a Plinio il Vecchio, che ho avuto modo di menzionare più volte nel corso di questo articolo, anche altri autori antichi si sono interessati al tema delle gemme e delle pietre dure in genere.

Il primo trattato giunto fino a noi su questo argomento è un’opera di Teofrasto, discepolo di Aristotele, redatta tra il 314 e il 305 a.C. Nel testo, egli classifica i minerali secondo le proprietà fisiche, corrispondenti ai quattro elementi, ma non sono presenti molti riferimenti all’uso medico delle gemme.

Al II – IV secolo d.C. risale un lapidario in versi d’ispirazione mitico-religiosa. All’Egitto dell’età imperiale risale un altro componimento in prosa, nonché il lapidario nautico, che illustra come superare i pericoli del viaggio in mare attraverso il potere delle pietre.

Leggi anche Viaggiare nell’impero romano. (2) Il viaggio via mare.

Al I-IV secolo d.C. risale il trattato medico-magico dei Cyranides, basato sulla corrispondenza degli esseri viventi associati dalla lettere alfabetica iniziale secondo la legge della sympatheia. Altro trattato celebre sulle pietre è inoltre quello di Michelo Psello dell’XI secolo.

Infine il lapidario magico-astrologico Damigeron – Evax, scritto in lingua latina, trasposizione di un testo originale greco di VI secolo d.C., che si presenta come un dono da parte di un ignoto re degli Arabi all’imperatore Tiberio.

In questi testi si afferma che le pietre si possono distinguere anche in base al sesso, e che di conseguenza esisterebbero pietre-femmine (che si distinguerebbero per il colore particolarmente brillante), e pietre-maschi (dalle tonalità scure simile alle fiamme).

Bibliografia (clicca i link qui sotto per acquistare la tua copia del libro)

Plinio il Vecchio, Naturalis Historia

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