Musica e danza nel mondo romano

La danza ha da sempre caratterizzato l’esistenza dell’uomo, accompagnandolo nei momenti salienti della vita sociale e religiosa. Il corpo è infatti il primo mezzo che l’uomo ha per esprimersi.

Nel mondo antico, la pratica della danza, la quale ovviamente è strettamente connessa alla musica, è legata all’universo, e si riteneva che avesse un’origine divina, come un dono degli déi agli uomini e il mezzo per accostarsi a loro, poiché il ballo e i suoi ritmi producono uno stato alterato di coscienza, atto a elaborare esperienze mistiche ed estatiche, e stabilire una connessione fra il mondo terreno e quello divino.

Le testimonianze scritte costituiscono una fonte essenziale per comprendere proprio la valenza etica ed estetica di questa pratica.

Tuttavia, data l’immaterialità dell’argomento (sia per quanto riguarda la danza sia per la musica) è un compito alquanto arduo quello di ricostruire come il ballo dovesse apparire nel mondo romano. I primi studi sull’argomento risalgono addirittura al 1618, anno in cui l’olandese Johannes Mersiuis pubblica nel tomo VIII del Thesaurus Graecae antiquitatis de Gronovie un piccolo trattato dal titolo Orchestra, sive de saltationibus veterum, al cui interno si possono trovare più di duecento danze o figure di danza.

L’etimologia del termine “danza”

Come ben abbiamo avuto modo di dire anche in articoli precedenti, le lingue antiche sono ricche di termini spesso polisemantici, che rendono spesso difficile anche individuare l’origine di una determinata parola.

E anche il vocabolo “danza” non fa eccezione. Esso potrebbe derivare da danser, che a sua volta deriva da un termine della lingua franca, dintjan (da cui ad esempio anche il tedesco tanzen); oppure potrebbe affondare le sue radici nel latino deantiare, ossia “andare avanti”. Secondo altre teorie, potrebbe derivare dal sanscrito tan, “tendere”.

Nella lingua latina abbiamo tre lemmi che si possono ricondurre semanticamente a parole moderne: chorea (danza in coro), saltatio (ballo), e tripudium (danza sacra). Tuttavia questi termini, pur giunti fino a noi, hanno subito delle lievi degenerazioni semantiche.

Ludi scaenici

I primi ludi scaenici sembrerebbero risalire al 365 a.C., quando a seguito di un’epidemia vennero indetti a Roma per propiziare il favore degli dèi. La fonte a cui si può far riferimento è Tito Livio (Ab Urbe Condita, libro VII, 2), il quale spiega anche la derivazione dall’etrusco del termine ister, istrione: “senza nessun canto, senza gesti tesi a imitare mimicamente il canto, dei ballerini fatti arrivare dall’Etruria, danzano al suono dell’aulos, eseguivano movimenti pieni di grazia secondo il modo etrusco. I giovani cominciarono poi a imitarli, scambiandosi nel contempo motteggi in versi volgari e accordando i movimenti alle parole. La novità piacque e si affermò sempre di più. In seguito agli artisti indigenti, poiché il ballerino era chiamato con parola etrusca ister, fu dato il nome di istrioni”.

Musici e danzatrici

Documenti databili tra il II e il IV secolo d.C. comprovano esibizioni di complessi musicali (i quali sono tenuti al pagamento di una tassa per esercitare la loro attività) e danzatrici durante le feste o le cerimonie in vari villaggi e città.

Fra le danzatrici, molto ricercate sono quelle con nacchere. Le danzatrici si ornano con ricchi gioielli, e solitamente si vestono di abiti leggeri e trasparenti, che svolazzando accompagnano i movimenti voluttuosi e aggraziati dei loro corpi.

Dettaglio di mosaico di fine II secolo d.C. con scena di danza

I pantomimi

La pantomima è una danza drammatica durante la quale un esecutore (o esecutrice), col volto celato da una maschera con le labbra serrate, mette in scena una vicenda mitica attraverso gesti convenzionali e una sequenza codificata di movimenti orchestici, la cui forte carica erotica attira l’interesse del pubblico e le frenesie degli spettatori.

Secondo Luciano, l’aggettivo “pantomimo” significa “imitatore di tutto”, poiché la specialità del danzatore consiste proprio nell’eseguire mimicamente ogni azione necessaria durante la rappresentazione.

L’attestazione più antica di questa tipologia di spettacoli proviene da un’iscrizione della città di Priene, dove si fa cenno a un certo Plutogenes, che per quattro giorni si esibì a pagamento nel teatro cittadino attorno all’80 a.C.
Per gli anni 84 / 60 a.C., si ha notizia di Philistion, un artista originario di Durazzo, ma attivo a Delfi.

La pantomima scenica con le innovazioni apportate dall’alessandrino Batillo, da Mecenate, e dal cilicio Pilade, considerati come gli inventori del genere, suscita a Roma un grande interesse, tanto che subito questo genere di intrattenimento si diffonde in tutto l’Impero, soprattutto nelle dimore patrizie. L’innovazione consiste nel combinare danze derivate dal dramma satiresco, dalla commedia, e dalla tragedia, con musiche e canti eseguiti a intervalli specifici dello spettacolo, al fine di aiutare il pubblico nella comprensione della vicenda rappresentata. Nella maggior parte dei casi, la scena è preceduta da un avanspettacolo, solitamente un ballo. Per ricoprire i diversi ruoli, il danzatore deve ricorre di frequente a rapidi cambi d’abito e a varietà di movimenti.

Assieme al protagonista vi sono il coro e un’orchestra formata da suonatori di strumenti a fiato, a corda e a percussione. Il ruolo di maggior spicco fra i musicisti è ricoperto da un auleta, che ha anche il compito di scandire il tempo di danza con l’ausilio di uno speciale strumento in legno azionato con la pressione del piede, dando così contemporaneamente nota e ritmo.

I pantomimi sono inoltre aiutati da un coreografo, che traduce in passi e figure di danza le trame, armonizzandoli con la musica.

Statuetta di danzatrice (IV secolo d.C.), Aquileia (UD), Museo Archeologico Nazionale

Il tetimino

Il tetimimo è un’evoluzione dell’arte della pantomima e della danza. Questo riscuote un grosso successo a Roma nei primi tre secoli dell’età imperiale. Il tetimimo consiste in un balletto acquatico: nei teatri a volte l’orchestra viene allagata attraverso un sistema di condotti e tubature, per permettere a nuotatori seminudi di esibirsi in danze legati a vicende mitiche a tema marino.

[Leggi anche Origine, Arbuscola, Citeride: le attrici più desiderate dell’Urbe]

Danza e religione

Come accennato in apertura a questo lavoro, la pratica della danza è spesso connessa alla religione, a riti propiziatori, o a grandi festività in onore di una qualche divinità. Casi emblematici sono sicuramente: i Saturnalia, i Baccanali, e le danze dei Lupercalia.

Qui, però, dato anche il mese, ho scelto di trattare in maniera più approfondita un tipo particolare di danza, una sorta di danza armata, tipica del mondo romano: la danza dei sacerdoti Salii.

Scena di cerimonia bacchica, IV – VI secolo d.C.

[Leggi anche Roma tra paganesimo e cristianesimo. Viaggio nelle “religioni della crisi” (III-IV sec. d.C.)]

I sacerdoti Salii

Tra i vari collegi che caratterizzano la vita religiosa della Roma Antica un ruolo di spicco è occupato dai sacerdoti danzatori del dio Marte: i Salii.
Il nome stesso della sodalitas viene fatto derivare dal verbo salire, dal significato appunto di “danzare”. La danza costituisce l’elemento fondamentale del sacerdozio, e ne è considerata una delle caratteristiche principali. Ciò era ben chiaro anche agli occhi di uno straniero come Dionigi di Alicarnasso, il quale scrive: “i Salii sono quelli che in lingua greca si chiamano Kuretes, almeno così io credo; da noi sono stati denominati così per l’età, in quanto kuroi, i Romani invece li chiamano Salii per il loro tumultuoso movimento”.

La divinità a cui i sacerdoti danzatori tributano il culto è un’antica divinità italica dal carattere etnico, che appartiene alla schiera dei “Marti italici”, come ben testimoniano le forme usate nei canti dei frates Arvales come Marmar o Marmor . Inoltre, l’aggettivo gradivus associato al nome del dio, potrebbe far pensare a una divinità guerriera a difesa dei gradus di accesso al Palatino, nucleo primordiale dell’abitato e sede in età storica della curia Saliorum.

Non sappiamo con certezza quando il collegio venne istituito. La tradizione ne vorrebbe attribuire la paternità al re di Roma Numa Pompilio.

Esistono diverse versioni del mito, che differiscono sostanzialmente solo in alcuni dettagli. La fonte più esaustiva in merito è Plutarco, il quale narra che durante il regno di Numa, un primo di marzo, uno scudo cadde dal cielo (Ovidio aggiunge con tuoni e fulmini sine nube) nelle braccia del sovrano, che interpretò il prodigioso evento come un segnale della garanzia divina circa la salvezza della città, in quel momento in preda a un’epidemia. Per evitare che l’oggetto potesse essere trafugato, il re ordinò all’artigiano Mamurio Veturio di realizzare altre undici copie. Egli fu così abile nel compito, che era impossibile distinguere lo scudo originale dagli altri. Come ricompensa per il lavoro svolto, il nome di Mamurio Veturio era ricordato nel canto dei Salii, che avevano il compito di custodire questi oggetti sacri. La danza eseguita dai sacerdoti, i canti, e l’uso di particolari scudi (di cui parleremo meglio in seguito) noti col nome di ancilia hanno il compito di rievocare periodicamente ai Romani il favore loro accordato dagli dèi.

Gemma etrusca con scena processionale, forse raffigurazione del mito dei Sette a Tebe


Le feste e le celebrazione dei sacerdoti Salii si svolgono nel mese di Marzo, primo mese dell’anno e quello dedicato a Marte. I giorni sono il 01, 09, 19, e 23. Come detto in precedenza, il 01 di marzo si celebra la caduta dell’ancile; il 09 indicato nei calendari con la perifrasi arma ancilia movet dovrebbe essere quello in cui si svolgeva la danza vera e propria nelle strade di Roma, lungo un percorso che prevedeva tappe (mansiones) prestabilite; il 19 è indicato come Salii faciunt in comotio saltu cum pontificibus et tribunis celerum; infine il 23 è il giorno in cui gli ancilia vengono riposti fino all’utilizzo nell’anno successivo.
Il 14 di Marzo si svolgono i Mamuralia, feste in onore di Mamurio Vetrurio.

Il numero dei membri del collegio è di dodici, così come appunto dodici sono gli ancilia. Non si sa con certezza se il numero dodici faccia riferimento ai mesi dell’anno, voluti da Numa Pompilio (l’anno romuleo era composto da soli dieci mesi), alle fasi lunari (che rimanderebbero anche alla forma degli scudi), o se sia collegato a credenze legate alla magia-rituale italica.

L’accesso alla sodalitas avviene per cooptazione e i requisiti fondamentali per accedervi sono: l’appartenenza al patriziato e l’avere entrambi i genitori ancora in vita. Proprio per l’ultima ragione, si accede al collegio dei sacerdoti Salii in giovane età. Furono Salii molti esponenti delle più antiche e prestigiose gentes, tra le quali i Claudii e i Cornelii. A proposito dei Cornelii è degno di attenzione un aneddoto riportato da Polibio riguardo Publio Cornelio Scipione Africano, il quale entrò nel collegio sicuramente prima del 211 a.C.: durante la guerra contro Antioco III nel 190 a.C., l’Africano aveva dovuto far fermare le sue truppe per un mese nell’Ellesponto poiché “durante il periodo del sacrificio, dovunque capiti loro di trovarsi [i Salii], per trenta giorni non devono cambiare residenza”.

Sappiamo inoltre che alcune cariche civili, quali il consolato o la pretura, e religiose, come il flaminato, sono considerate incompatibili col saliato, e si ritiene opportuno uscirne mediante l’exauguratio. Probabilmente la carica religiosa dei sacerdoti Salii è in contrasto con una civile cum imperio, per via della collisione di doveri e incombenze.

Gemma romano-italica da Firenze con scena di trasporto processionale di scudi da parte di due personaggi in abito sacerdotale

La danza eseguita dai Salii è guidata da un corifeo, detto praesul. L’azione principale di tale esibizione è quella di battere i piedi in terra, tanto che Seneca paragona i sacerdoti ai fullones , ma Plutarco non sembra essere della stessa opinione e riporta invece che la danza consiste “soprattutto nel gioco dei piedi: i Salii li muovono con grazia, eseguendo certe figure complicate e variate con un ritmo veloce e serrato, con forza e leggerezza”. La loro saltatio è strutturata secondo un ritmo ternario, detto tripudium.

La peculiarità del rituale dei Salii risiede non solo nella coreografia, ma anche dal fatto che (come abbiamo accennato poco sopra) questa è accompagnata da canti, noti come carmina Saliaria, la cui corretta esecuzione è affidata a un vates. Questi inni sacri godono di rispetto e considerazione presso i Romani, tanto che non venne mai attualizzata la lingua, rimasta quella arcaica. Pertanto il testo non è più perfettamente compreso e padroneggiato dai medesimi celebranti in età storica. I Romani considerano questi canti come i più antichi della letteratura latina.

Altra caratteristica fondamentale dei sacerdoti Salii è l’abbigliamento, che li connota effettivamente come sacerdoti-guerrieri. Il loro equipaggiamento consiste in: una tunica picta (probabilmente di colore porpora o rosso, considerando anche la valenza simbolica di questo colore. La tunica saliare è di dimensioni alquanto ridotte per non ostacolare i movimenti durante la danza); l’ apex (un particolare copricapo terminante in un bastoncino, comune anche ai flamini), la trabea (un mantello degli antichi re, in seguito divenuto una delle più solenni insegne sacerdotali. Anche questa è più corta rispetto alla toga comune, e conferisce a chi l’indossa un carattere semidivino, poiché era usata per avvolgere le statue delle divinità); una lancia o bastone; e lo scudo.
Gli ancilia sono appunti i scudi sacri conservati nella Regia, i quali costituiscono in un certo senso la causa fondante del sacerdozio.

Moneta di Antonio Pio con scudi e legenda Ancilia, 143 d.C.

Gli ancilia sono dei scudi bronzei bilobati ben attestati nel Lazio e nell’Etruria meridionale dal X al terzo venticinquennio dell’VIII secolo a.C. Alla fine dell’VIII secolo, questa tipologia di scudo sembra scomparire del tutto, per essere sostituita da uno scudo rotondo preoplitico, e per caricarsi di valenza sacrali, religiose, e simboliche. Gli ancilia sono infatti annoverati fra i pignora imperii, ossia oggetti sacri di varia provenienza che hanno la funzione di assicurare a Roma la continuità dell’esistenza nel tempo, e che contemporaneamente costituiscono un segno di legittimazione del potere derivante dalla scelta degli dèi in favore del popolo romano (non va dimenticato che il termine pignus assume il significato di pegno, garanzia, prova, testimonianza). Per i Romani dunque gli ancilia sono il segno tangibile della volontà degli dèi.

Durante la danza gli scudi sono percossi al fine di generare un suono, un rumore, il quale assume nel contesto una valenza apotropaica: il frastuono genera infatti terrore nei demoni e in tutte le forze maligne invisibili e pericolose.

Nella tarda antichità, sappiamo che i pontifices Vestae si occupano a loro spese di restaurare le mansiones dei Salii Palatini, da lungo tempo in rovina. Forse con l’avvento della religione cristiana, alcune cerimonie e celebrazioni pubbliche vanno in disuso, così come sembra essere sempre meno agevole il reclutamento di sacerdoti. Ciò nonostante, vi è ancora una minoranza aristocratica che si fa carico di difendere gli antichi culti e di mantenere la Pax Deorum.

[Leggi anche Gli ancilia, gli scudi sacri di Roma]

Lusus Troiae

Il Lusus Troiae dovrebbe derivare il suo nome da un gioco o molto più probabilmente da una danza armata etrusca. L’ultima testimonianza di questa pratica risale al II secolo d.C.

Questo ballo è praticato dai giovani patrizi all’interno del Campo Marzio. Come anche il nome suggerisce, questa danza ha lo scopo di rievocare l’origine troiana del popolo romano. Virgilio, nel libro V dell’Eneide, descrive parte dell’esibizione, in cui i partecipanti eseguono una “danza labirintica”.

Plinio il Vecchio afferma che il Lusus Troiae ha un’origine tipicamente latina, ma molto studiosi non concordano con le parole dell’autore classico, individuando in questa danza una possibile origine etrusca.

La tarda antichità

Se si pensa alla tarda antichità, sicuramente la prima cosa che viene in mente sono le compagnie di mimi. Queste in realtà non nascono in questo periodo, ma nel primo Ellenismo, quando il pubblico iniziò a preferire la riproposizione di intrecci comici tratti da opere di successo. In queste rappresentazioni gli elementi caratteristici sono la danza, la musica (con accompagnamento musicale o solo cantata), e la presenza femminile.

L’allestimento scenografico, quando presente, è solitamente ridotto all’essenziale, o sostituito dalla gestualità degli interpreti, che agiscono privi di maschere e calzature, vestiti con un corto abito.

I temi trattati sono ispirati a opere letterarie celebri, o più solitamente a vicende quotidiane. In generale sono privilegiati gli argomenti di carattere erotico, con situazioni di adulterio, presentate in modo grottesco; o scenette di contrasto in cui a opporsi sono due personaggi antitetici, dove i tratti caratteriali delle figure sono esasperati. Le trame prevedono falsi matrimoni, processi, naufragi, finte morti, astuzie, raggiri, intrighi, tentativi di avvelenamento. A tutto questo, si susseguono in modo tumultuoso e caotico evoluzioni orchestriche, brani musicali, numeri acrobatici, giochi di prestigio; e non mancano di certo volgarità di ogni tipo.

Dettaglio della stele della mima Bassilla, III secolo d.C., Aquileia (UD), Museo Archeologico Nazionale
Ph. Martina Cammerata Photography

Le compagnie sono guidate da un archimimo (o archimima), al quale spetta la responsabilità della preparazione artistica, e la scelta dei soggetti. Dai documenti papiracei in nostro possesso, sappiamo che di solito questi gruppi non sono molto numerosi, e che partecipano a feste in villaggi e città. In Oriente, mimi e pantomimi sono esclusi dagli agoni sacri, e si esibiscono soltanto durante le feste, ma a partire dagli ultimi anni del II secolo d.C. si indicono dei concorsi appositi.

Altre testimonianze scritte, datate dal II al V secolo d.C., sono costituite da testi caratterizzati da una grafia poco accurata, impaginazione informale, annotazioni, abbreviazioni, sigle algebriche, ecc. una sorta di quaderni di regia, usati come supporto alla recitazione. In questi vi sono contenuti anche elenchi di oggetti da utilizzare in scena.

Un manoscritto del tutto particolare per via del contenuto è quello attualmente conservato alla Biblioteca di Berlino e datato al V – VI secolo d.C., contenente la descrizione di un dramma religioso, composto dal diacono Isa, originariamente in greco e tradotto poco in siriaco dopo la fine del VI secolo d.C. Questo ci offre molti dettagli sulle rappresentazioni mimiche che con intento dissacrante fanno parodia di dottrina, dogmi, riti, e misteri della religione cristiana.

Nel VI secolo d.C., il cristiano Coricio di Gaza, autore della Apologia dei mimi afferma che le rappresentazioni mimiche sono migliori delle gare equestri e delle pantomime, poiché non generano disordini. In quel periodo, i mimi si esibiscono in piccoli siparietti, che intervallano le corse degli aurighi nell’ippodromo.

Le rappresentazioni dei mimi continueranno almeno fino al 692, anno in cui il Secondo Concilio Trullano, tenutosi a Costantinopoli, ne decreterà la definitiva scomparsa.

[Leggi anche I divertimenti pubblici dei Romani nella tarda antichità]

Ancora nella tarda antichità si assiste alla sopravvivenza della poesia secolare, che deve essere recitata cantando e accompagnata da strumenti (come il flauto) e danze. Nell’Oriente romano, come ad esempio a Costantinopoli, gli strumenti usati a tale scopo sono vari, come la lira, i cimbali, e l’organo. L’organo viene reintrodotto nell’Occidente europeo dall’imperatore Costantino V, che ne fa dono al re di Francia Pipino. Inoltre, questo è il primo organo del suo genere a giungere in Europa. In tempi più antichi (precisamente dal I secolo d.C.), i Romani erano soliti utilizzare l’organo idraulico.
Probabilmente, dovevano esistere anche organi di dimensioni ridotte, dato che sappiamo che Costantino VI e sua madre Irene ne portarono uno nel loro viaggio in Tracia.

I musicisti compongono musica per tutti questi strumenti, adattando una scala a sedici toni, mentre se ne usa una a otto per comporre musica religiosa (che solitamente non è strumentale). La musica profana è suddivisa in varie sottocategorie, in base al fatto che si tratti di musica prodotta per la corte o celebrazioni di palazzo, popolare, o epica.

Lo stesso imperatore Giustiniano compose inni assieme a testi di natura teologica. Nell’VIII secolo d.C., alcuni di questi inni religiosi in lingua greca susciteranno anche l’ammirazione dell’Occidente, tanto che Carlo Magno ne farà adattare e tradurre qualcuno in lingua latina.

La partecipazione femminile nella musica è alquanto limitata, a causa dell’associazione di questa con la pratica della prostituzione. Di conseguenza, alle giovani è anche proibito suonare uno strumento musicale in pubblico, divieto che trae origine dall’Antichità. Così, i monasteri e i conventi diventano importanti centri di grande attività musicale e culturale nei territori imperiali, senza problemi di stigmatizzazione sociale. Si conoscono inoltre alcuni nomi di compositrici di musica religiosa: Marta (vissuta nel VI secolo d.C.), Tecla (di IX secolo), Teodosia ( sempre di IX secolo), Cassia (di IX secolo), Kounouklisena (di XIII secolo), e Paleologina (di XIV secolo).

Mosaico romano da Mariamin, Siria, IV secolo d.C.

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