
Questo articolo nasce a seguito di una recente visita al Museo delle Navi Antiche di Pisa. Più che un’esposizione sulle imbarcazioni rinvenute in località San Rossore, il museo è un vero e proprio viaggio alla scoperta delle origini della città, all’interno di uno spazio espositivo ricavato dagli arsenali medicei, situati sul Lungarno.
Questi furono realizzati per iniziativa di Cosimo I (1537 – 1574) nell’ambito della sua ampia politica di riorganizzazione territoriale, proseguita poi dai figli Francesco I (1564 – 1587) e Ferdinando I (1587 – 1609). Lo stato di profonda crisi nel quale versava la città motivò, a seguito della conquista fiorentina, una serie di interventi volti a potenziarne il ruolo commerciale ed economico. Il complesso consisteva in otto navate ad archi poggianti su pilastri, con tetto a doppio spiovente su capriata lignea. Il cantiere era già pienamente funzionante nel 1540, e varò la prima galera (interamente costruita da maestranze locali) nel 1546.
La concorrenza dei cantieri di Livorno e Portoferraio ne decretò un lento e inesorabile declino, almeno fino alla metà del XVIII secolo, periodo in cui il complesso mutò la sua destinazione d’uso, ospitando i cavalli del reggimento dei Dragoni. L’utilizzo a stalle della cavalleria e centro ippico militare dell’arsenale continuò fino al secondo dopoguerra.
Il percorso espositivo si articola dunque attorno al grande e lungo corridoio centrale, che va a costituire la spina dorsale sulla quale si affacciano le varie sezioni tematiche, che conducono infine all’ampia area in cui sono allestire le navi rinvenute nel cantiere di Pisa – San Rossore.
Un’esperienza davvero unica che mi ha permesso di scoprire (o forse riscoprire) la storia di questa regione.
Pisa romana
Ricostruire la storia e la parvenza della città di Pisa in epoca romana non è impresa facile.
Tutto quello che sappiamo della città ci è dato da fonti letterarie di autori vissuti tra il I e il V secolo d.C., e da documenti epigrafici. Il visitatore infatti potrebbe essere tratto in inganno dalla presenza di sarcofagi figurati attualmente conservati all’interno del Camposanto Monumentale, e prendere questi oggetti come testimonianza della grandezza della città in epoca romana. Ma, in realtà, la maggior parte di essi è giunta a Pisa attraverso il mercato antiquariale nel periodo della Repubblica marinara.

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L’abitato di Pisa sorge nella piana alluvionale dell’Arno, interessata in questo punto dal passaggio di una serie di corsi d’acqua, fra cui i principali sono appunto l’Arnus (Arno) e l’Auser (Serchio). In età antica, il Serchio, o uno dei suoi rami principali, confluiva immediatamente a monte della città nell’Arno. Questo invece sfociava al mare in tre rami.
Tra il III e il II secolo a.C., la città e il porto sono ricordati come base della flotta romana e degli eserciti impiegati nelle guerre per la conquista della Sardegna e dei territori occupati dai Galli e dai Liguri. La presenza del Portus Pisanus è testimonianza della vitalità economica di cui gode Pisa durante il periodo del conflitto bellico.
Forse proprio in funzione anti-ligure, la città incoraggia nel 180 a.C. la fondazione della colonia di Lucca. Ma sarà la nascita nel 177 a.C. della città di Luni a far perdere a Pisa il controllo di parte del territorio a nord dell’Arno e anche il primato di centro marittimo dell’Etruria settentrionale.
Sicuramente gli avvenimenti più significativi che riguardano la storia della città, negli anni compresi tra la metà del II e la metà del I secolo a.C., sono la concessione della cittadinanza romana agli abitanti di Pisa, divenuta municipum in virtù della Lex Iulia dell’86 a.C., e la fondazione coloniale con l’immissione di veterani di Augusto (eventi che traspaiono dalla denominazione di colonia Opsequens Iulia Pisana) e dalla sistemazione agraria catastale in diverse parti del territorio, come avremo modo di esaminare meglio in seguito.
L’urbanistica di Pisa romana rimane a tutt’oggi un mistero. La presenza di edifici pubblici è nota solo attraverso epigrafi rivenute agli inizi del XVII secolo e oggi conservate nel Camposanto Monumentale. Si tratta dei celebri Decreta pisana (2 – 4 d.C.), disposizioni della colonia emanate in concomitanza della morte di Lucio e Gaio Cesari, figli adottivi di Augusto, nei quali si fa riferimento all’Augusteum, situato nel foro, e nominano inoltre tutta una serie di altri edifici che, per l’anniversario del lutto, sarebbero dovuti restare chiusi: templi, bagni pubblici, luoghi di spettacoli, botteghe.
Al teatro o forse anfiteatro potrebbero appartenere le strutture curvilinee localizzate in via san Zeno e associate al toponimo di chiara origine longobarda Parlascio. Nell’attuale largo del Parlascio sono invece visibile le cosiddette “terme di Nerone”, unica testimonianza monumentale di Pisa romana.
Nell’area dove oggi possiamo ammirare i splendidi monumenti di Piazza dei Miracoli, gli scavi archeologici hanno portato alla luce un quartiere occupato da domus di epoca tardo repubblicana – augustea. L’abbandono di tale area residenziale, a partire dal IV – V secolo d.C., è forse dovuto al cambio di destinazione d’uso dell’area, ora occupata da un vasto sepolcreto, che nel VII secolo d.C., ospiterà anche tombe di longobardi illustri, e vedrà la costruzione di una primitiva cattedrale.
Infine, nella fascia periurbana, lungo i rami dell’Auser (Serchio) e dell’Arno, gli archeologi hanno individuato dei quartieri artigianali.
La centuriazione
La centuriatio (o limitatio) è un sistema di divisione agraria caratteristico del mondo romano. Il terreno è suddiviso in lotti regolari, detti centuriae, da tracciati, percorsi, e allineamenti segnati da cippi (limites). Le centuriae hanno una misura di circa 170 m di lato, e sono suddivise in 100 lotti di 2 jugera. Le terre che non vengono assegnate restano come aree di rispetto e di uso pubblico (ager publicus) da sfruttare per attività come la raccolta della legna o la pastorizia.
La centuriazione pisana deve essere stata tracciata probabilmente nel corso del I secolo a.C., in concomitanza con la deduzione della colonia Opsequens Iulia Pisana.

A seguito della colonizzazione romana il paesaggio pisano ha subito una consistente trasformazione: realizzazione di canali di irrigazione, canali ortogonali, bonifica delle aree paludose, opere di disboscamento. Per quanto riguarda il legname sono significative le parole di Strabone (5.2.5): “Pare che [Pisa] un tempo sia stata prospera e ancor oggi gode di fama grazie alla fertilità della terra, alle cave di pietra e al legname per allestire navi, della quali si servivano in passato contro i pericoli provenienti dal mare […] oggi questo legname si usa per lo più per la costruzione di palazzi a Roma e che i proprietari si fanno costruire fastosi come regge dei re persiani”.
Dunque, l’ambiente extraurbano agricolo è interessato da villae e fattorie, con una fitta rete di distribuzione collegata a una struttura muraria rettilinea, di una lunghezza di circa otto metri. Questo potrebbe essere verosimilmente un molo, realizzato in pietrame frammisto a malta sabbiosa. La sua realizzazione è da ascrivere al periodo del Principato.
Pisa e il mare: il Portus Pisanus
Nella lunga storia della città di Pisa il rapporto col mare è una costante. Proprio in funzione di una precoce vocazione marittima si spiega la scelta dell’ubicazione del primo agglomerato proto-urbano, risalente al IX – VIII secolo a.C. Anche se il panorama appare del tutto anomalo nell’ambito dell’Etruria vera e propria, e mostra alcuni paragoni solo con altri due centri emporici situati al limite settentrionale del mondo etrusco, ovvero Adria (RO) e Spina (FE).
Questo luogo già nel VI secolo a.C. diventa un polo commerciale, come ben testimoniato dal dato archeologico (col rinvenimento di anfore vinarie arcaiche prodotte in loco e diffuse in scali e porti del Mediterraneo nord-occidentale) e ancora una volta le parole di Strabone che ricorda come i Pisani sin “da epoca molto antica” utilizzano il legno delle loro selve per la costruzione di navi con le quali fronteggiano i pericoli del mare.
Ovviamente la situazione pisana doveva sicuramente apparire differente rispetto allo stato attuale: la linea di costa era arretrata di vari chilometri, e articolata in un ampio golfo (il Sinus Pisanus spesso citato nelle fonti). Al centro del golfo sfociavano i tre bracci del delta dell’Arno, mentre a sud di questi la costa appariva piuttosto acquitrinosa. Nella parte a nord, al contrario, si trovavano una fitta serie di canali, in parte naturali, in parte irreggimentati, che fanno riferimento al bacino idrografico dell’Auser. In questo punto, sembra di poter individuare una serie di punti di approdo. Alla metà del I secolo a.C. si daterebbe invece un edificio di carattere commerciale, ancora frequentato nel corso del VI d.C., e una necropoli di IV – V secolo d.C. Tra la metà del II e la metà del III secolo d.C., l’ambiente che occupa l’angola sud-occidentale dell’edificio viene adibito al culto del dio Mitra. La piccola comunità che frequenta il santuario prosegue le sue attività almeno fino ai primi anni del V secolo d.C., epoca in cui le strutture vengono volontariamente abbandonate o distrutte.

Il sistema del Portus Pisanus di età romana dovrebbe verosimilmente rientrare invece nella categoria dei porti lagunari e sembrerebbe essere il principale approdo. L’identificazione del luogo, che dovrebbe corrispondere all’area di Santo Stefano ai Lupi a breve distanza da Livorno, si basa sul racconto del 417 d.C. di Rutilio Namaziano (De Reditu, I, 559 – 574), il quale descrive un ampio golfo. L’autore ci dice che il porto si trova nei pressi di una grande villa (nota anche da altri fonti) che prende il nome di Turrita ( o Triturrita). Da qui le merci risalgono i due rami meridionali dell’Arno oppure giungono a Pisa via terra. In antico, con molta probabilità, non era possibile navigare il ramo principale del fiume con sufficiente sicurezza in quanto, stando ancora una volta alle parole di Strabone, è caratterizzato da turbolenze alla foce, forse generate dallo scontro tra le correnti marine e quella fluviale.
Le merci provenienti da Nord, invece, si inseriscono nella fitta rete di canali che collegano appunto l’Arno all’Auser per giungere direttamente in città.
Il Portus Pisanus nelle fonti letterarie
Una prima testimonianza, anche se non ancora col nome di Portus Pisanus, risale al 56 a.C. da una lettera di Cicerone al fratello Quinto. Tacito, ricordando la fuga dall’Italia del generale Fabio Valente del 69 d.C., dice che egli sarebbe partito dal sinu Pisano per recarsi a Portus Herculis Monoeci (Monaco). Questo aneddoto fa capire l’importanza di Pisae come scalo portuale nel corso del Principato.
Il termine sinus dovrebbe far riferimento a un golfo protetto, ma abbastanza profondo da poter costituire un punto di approdo per il traffico navale. Il sinus Pisano sarebbe forse da identificare col Portus Pisanus o a un suo settore.
La definizione di Portus Pisanus spunta infatti solo in epoca Tardo Antica, nell’opera di C. Rutilio Namaziano, il quale parla esplicitamente di un portus e ricorda le attività di carattere commerciale; e l’ Itinerarium maritimum (501, 1 – 4), un elenco di porti e degli approdi presenti lunga la rotta che da Roma giunge ad Arelate (Arles). L’itinerarium è il risultato di più itinerari databili dal III al V secolo.
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Infine, dal De bello Gildonico di Claudiano, un testo redatto tra la fine del IV e i primi anni del V secolo, in onore di F. Stilicone, troviamo un riferimento (anche se non esplicito) al Portus Pisanus.
Le navi antiche di Pisa
Il contesto di ritrovamento
Nel 1998, in occasione della costruzione di un centro direzionale di controllo della linea Roma – Genova delle Ferrovie dello Stato, nella periferia di Pisa, fu effettuata una scoperta archeologica di considerevole rilevanza, ossia il ritrovamento di una serie di manufatti lignei ancora in buono stato di conservazione data l’elevata umidità dell’ambiente.
Il rinvenimento della navi di Pisa si localizza all’interno dell’area della pianura pisana caratterizzata dalla porzione esposta di un bacino sedimentario, sviluppatosi a partire dal Miocene superiore (circa 10 milioni di anni fa) e che è stato interessato successivamente da una dinamica fluviale, costiera, e antropica che ne ha determinato l’attuale assetto geomorfologico.
La presenza di un preesistente alveo fluviale posto circa un chilometro a nord di un’ansa dell’Arno (o forse del Serchio), in epoca romana, permetteva il collegamento col mare e il trasporto di merci e altri carichi in acque tranquille in direzione di Pisa.
Le navi sono state dunque rinvenute in un’area golenale, periodicamente soggetta a esondazioni e alluvioni dell’Arno, che si manifestarono con regolarità dal II secolo a.C. fino alla Tarda Antichità, forse causate anche dalla massiccia attività antropica legata alla colonizzazione del territorio col disboscamento di intere porzioni di territorio e la rettifica e regolarizzazione dei corsi d’acqua minori.
Per cui non si tratterebbe di un porto urbano (non dimentichiamo che nella lingua latina il termine portus assume diversi significati. La parola indica sia lo scalo commerciale che il luogo di sbarco e imbarco delle merci, il punto doganale, o in ambito fluviale il semplice passo o traghetto).
Inoltre, un’attenta revisione dei numerosi dati offerti dallo scavo ha permesso un tentativo di ricostruzione dell’ambiente circostante a partire dalle su fasi più antiche. Le prove fin ora ottenute consentono di tracciare le prime frequentazioni di quest’area all’VIII – VII secolo a.C. A questa fase può essere ascritto il ritrovamento di pali lignei in leccio, quercia, olmo, e frassino che dovevano verosimilmente costituire una sorta di palizzata o una struttura di rinforzo della sponda fluviale. A pochi metri da questa, venne ritrovato un accumulo di pietrame di dimensioni variabili e rozzamente sbozzato, allineato con un’altra fila di pali.

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Le navi
La prima di queste alluvioni sembrerebbe risalire ai primi decenni del II secolo a.C. Questa ha causato l’affondamento della cosiddetta “nave ellenistica”. L’imbarcazione fu probabilmente trascinata dalla corrente, andando in pezzi. La lunghezza del relitto si aggira attorno ai 14 metri circa con una larghezza di 4,50 m. Lo scafo (di un peso di circa 12 tonnellate) ha un ampio fondo piatto con uno spazio disponibile per il carico.
La nave trova confronti, per via della tecnica di costruzione, con imbarcazioni databili dal VI secolo a.C. al Principato. Ad esempio, il relitto di Valle Ponti a Comacchio di età augustea mostra con la “nave ellenistica” strette analogie. Anche se una certa rozzezza nell’esecuzione avvalorerebbe l’ipotesi di una destinazione a spostamenti locali.
Si tratterebbe di una nave oneraria di medie dimensioni. Il carico è costituito da circa trecento anfore greco-italiche di tipo Dressel 1 e Lyding Will D e qualche esemplare punico. Di particolare interesse sono però i materiali del corredo di bordo (che ci forniscono un chiaro quadro dell’origine dell’imbarcazione stessa. Il possibile itinerario della nave potrebbe dunque essere dalla zona di Alicante o Cartagena, per poi proseguire tutto l’arco mediterraneo facendo tappa a Marsiglia, e infine Pisa, dove il viaggio si è interrotto bruscamente), tra cui un consistente numero di oggetti di provenienza ispanica, come alcune spalle anteriori di suino. Gli ossi sono quasi tutti relativi alla spalla destra degli animali, in accordo con una diffusa tradizione centro-italica per cui il lato destro del maiale sarebbe quello più pregiato, che farebbero pensare a una provenienza del relitto dalla costa spagnola.
Il deposito ha inglobato inoltre una struttura lignea in abete di una lunghezza di 2,40 m e larga 70 cm. Le dimensioni propendono a ritenere che si tratti di una passerella mobile.
Dopo l’alluvione di età ellenistica, un secondo evento traumatico si data tra la fine dell’età augustea e quella tiberiana. Questa alluvione ha interessato un numero maggiore di imbarcazione, alcune delle quali ancora in perfetto stato di conservazione.
A queste appartiene la cosiddetta Nave B, rinvenuta inclinata su un lato e con una parte del carico fuoriuscito. Era un’imbarcazione di medie dimensioni utilizzata per il trasporto di anfora vinarie, reimpiegate a contenere frutta (noci, castagne, pesche, ciliegie, olive, susine), conserve, e sabbia augitica di presumibile provenienza laziale-campana. Se non si è certi dello scopo del trasporto di tale materiale, la sua provenienza presunta non lascia invece alcun dubbio, in quanto confermata da una serie di caratterizzazioni litologiche effettuate sulle numerose pietre di zavorra, che testimoniano la presenza di elementi originari dell’area flegrea. Un’altra nave oneraria è stata contraddistinta con la lettera E. Questa, rinvenuta a poca distanza dalla precedente, ha un carico costituito da anfore ispaniche, e materiali di origine corsa e sudgallica. A questa è pertinente la presenza di un’ancora lignea.

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Il relitto noto come la Nave C è invece una grossa barca fluviale con una lunghezza di circa 12 – 14 metri, rinvenuta ancora ormeggiata a un palo. Questa si conserva in un eccellente stato di conservazione, e sono ancora visibili la maggior parte degli elementi strutturali, quali ad esempio la chiglia, e almeno cinque banchi di voga, uno dei quali recante un’iscrizione incisa. La scritta, in caratteri greci, potrebbe riportare il nome dell’imbarcazione, ΑΛΚ[Ε]ΔΟ. Il termine è dapprima risultato non di facile lettura, in quanto non si tratta di una parola greca, ma della trascrizione in caratteri greci della parola latina alcedo (ossia gabbiano). Questo sembrerebbe essere il primo caso di attribuzione del nome di una nave.

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La prua mostra il tagliaflutti ancora in perfetto stato di conservazione, ricavato da un unico blocco di legno di quercia, rinforzato da chiodi di bronzo e da una fascia di ferro negli incassi laterali. Alcune analisi effettuate hanno permesso di individuare l’utilizzo della tecnica ad encausto, descritta da Plinio, per il rivestimento dello scafo.
Per quanto riguarda la Nave P si tratterebbe di un barchino fluviale a fondo piatto.
Un’ulteriore alluvione è da ascrivere alla prima età adrianea, nella quale anche qui sono state coinvolte un gran numero di imbarcazioni. Il relitto contrassegnato dalla lettera F è estremamente ben conservato. Si tratta di una nave lunga circa 9 metri e larga 1, e costruita interamente in legno di quercia con rare parti in ontano. A poca distanza da questa, vennero rinvenute le Navi G e H.
Infine, un ultimo traumatico evento si manifesta durante la Tarda Antichità. Per via dei materiali rinvenuti, la datazione di tale alluvione è da collocarsi dopo il V secolo d.C. Questa interessò un’imbarcazione, nota come Nave D, ritrovata rovesciata e quasi completamente priva dell’opera viva, forse già spoliata in antico. Si tratterebbe di un barcone di grandi dimensioni, realizzato con chiodatura su scheletro del fasciame, allo stesso tempo fissato con mortase e tenoni.
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Rotte e commerci
I materiali rinvenuti negli scavi archeologici sono spesso delle testimonianze fondamentali per l’individuazione di direttrici commerciali antiche. Ad esempio: i cerali provengono dalla costa africana, l’olio dalla Betica, il vino dall’Italia, ma anche Gallia, Iberia, Africa, ecc.
Gran parte dei manufatti ceramici provenienti dallo scavo delle navi romane sono riferibili in grossa parte a contenitori da trasporto (come anfore e olle), ai resti del loro contenuto, e oggetti di uso quotidiano della vita di bordo. Tali oggetti indicano una provenienza di questi materiali dell’Italia insulare e centro meridionale.
Le anfore da vino o per il garum sono rivestite internamente di resina o pece per renderle impermeabili. Quelle olearie sono tratte con resina di alberi da frutto o addirittura prive di tale rivestimento. I tappi sono generalmente in sughero, cera, pozzolana, gesso o calce, e terracotta sigillati in resina, e recanti i marchi del produttore.
Lo studio dei tituli picti permette di associare a ogni forma un prodotto, il luogo di produzione, e la sua diffusione.

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A bordo delle navi è stato rinvenuto anche un ingente quantitativo di suppellettili e ceramica molto simile a quella di uso domestico. Si tratta per la maggior parte di terra sigillata italica, un tipo di ceramica molto diffusa in età augustea e all’inizio dell’età flavia, e prodotta anche presso Pisa. Il nome deriva dal sigillum, ossia dal timbro, col quale il vasaio “firmava” il prodotto, destinato alla mensa della gente comune. Vitruvio (VIII, 6) ricorda: “Benché le nostre tavole trasbordino di posate in argento, tutti usano ancora stoviglie in terraglia per preservare il sapore delle vivande”. Gli artigiani realizzavano questi oggetti in serie prendendo come prototipi suppellettili analoghe in metallo.
A Pisa ci è noto il nome della gens degli Ateii, un’importante famiglia che controllava la produzione di sigillata pisana dal 20 a.C. fino alla metà del I secolo d.C. Grazie ai commerci, i loro prodotti si diffusero in tutto il bacino del Mediterraneo, raggiungendo anche la costa atlantica, e i castra del limes germanico. Il prodotto era talmente noto che ben presto fiorirono diverse imitazioni in Gallia, Germania, Britannia, e Mediterraneo Orientale.
Altri ritrovamenti
Altri ritrovamenti sono collegabili al bagaglio e al vestiario, non solo dei marinai ma anche di alcuni passeggeri.
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Il costo di una traversata via mare sembra sia particolarmente basso, anche perché i servizi forniti si limitano per lo più alle razioni di acqua e a un posto sul ponte, mentre il vitto è a carico proprio, e i principali introiti del viaggio sono comunque dati dal trasporto delle merci. Inoltre, non vi sono, come avevamo già accennato in articoli precedenti, navi adibite esclusivamente al trasporto dei passeggeri. A tal proposito la Lex Rodia stabilisce un minimo di 1,15 metri quadrati per passeggero. Alcune grandi imbarcazioni, come ci ricorda Flavio Giuseppe, possono trasportare anche fino a seicento passeggeri.
Tra gli oggetti rinvenuti sicuramente di particolare rilevanza è la famosa cassetta lignea del marinaio, al cui interno vi è contenuta la paga mensile dell’uomo (circa 170 sesterzi), un medicinale, un acciarino, e materiale per scrivere.
Lo scavo del cantiere delle Navi Antiche di Pisa ha inoltre restituito un’ingente quantità di lucerne, appartenenti a varie tipologie con una datazione che si estende dal IV secolo a.C. fino al IV secolo d.C.

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Altro reperto di particolare rilevanza venne scoperto durante la campagna di scavo del 2002. Si tratta di un giaccone in pelle, rinvenuto all’interno dell’Alkedo. Il capo di abbigliamento venne trovato sotto forma di un ammasso di fogli di cuoio, ripiegati su sé stessi, di circa 40 x 40 cm di grandezza. Dopo un attento lavoro di pulitura e restauro, è stato possibile stabile che si trattava appunto di un giaccone in pelle con maniche lunghe, realizzato assemblando ritagli e piccoli elementi di pelle forse di recupero. Date le dimensioni, il giaccone doveva appartenere a un individuo adulto, di media corporatura, con un torace piuttosto ampio (circa 80 cm), ma di bassa statura (tra il 1,60 m e il 1,65 m).
Il reperto si è conservato per più di due terzi. La giacca è a un unico strato di pelle, e tutte le bordure semplici sono state realizzate ripiegando la pelle e impunturandola con una fila di doppi punti a giorno, piuttosto regolari, distanti in media 7 – 8 mm. I fili impiegati per le cuciture non si sono tuttavia conservati, ma le cuciture sono perfettamente identificabili dalla serie di fori ben visibili. Il reperto presenta molte tracce di toppe per riparazione, tutte caratterizzate da una forma tondeggiante, fissate al giaccone con semplici e fitti punti a giorno. Le toppe originarie sono andate perdute, ma sono ricostruibili sulla base dei fori.
Pur non avendo notizie a disposizione riguardo tali capi di abbigliamento, e non potendo nemmeno far affidamento sulle fonti iconografiche, si potrebbe comunque affermare che la giacca, per via della forma stretta lungo le maniche e ampia sul torace, e il rinforzo sul collo, non sia da ascrivere alla categoria dei subarmalis, ma sarebbe da identificare piuttosto come un giaccone di un marinaio o di un portuale, un indumento pratico per lo svolgimento di attività legate alla vita in mare, come trasportare pesi o carichi.

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Appendice: …”And that whale of a crew was reduced down to two / Just myself and the Captain’s old dog“
Durante lo scavo del fondale della nave oneraria “B”, è stata rinvenuta, sul fianco occidentale, una serie di ossa umane, probabilmente schiacciate dal crollo di reperti riferibili al carico della nave stessa o di parte del fasciame. I resti umani sono pertinenti ad un individuo maschio adulto, ritrovato supino, assieme allo scheletro di un cane. La morte dei due deve essere avvenuta a seguito della caduta in acqua, conseguente all’inclinazione della nave, e all’annegamento sotto il peso del carico e del fasciame.
Le particolari condizioni di giacitura in ambiente acquatico e sotto la pressione del sedimento, ne hanno garantito una quasi perfetta fossilizzazione.
Le analisi condotte sulle ossa dell’individuo hanno inoltre consentito di determinare l’età dell’uomo (tra i 40 e i 45 anni) e di formulare alcune ipotesi sulla sua dieta (a base di carne, frutta secca e verdure essiccate, garum, e un certo incremento di alimenti vegetali nelle ultime settimane di vita, forse da ascrivere a un periodo di stazionamento sulla terraferma). La possente struttura ossea degli arti superiori hanno indicato che il marinaio era solito svolgere lavori si sollevamento, carico, e tiro.
Per quanto riguarda l’esame archeozoologico condotto negli scavi delle Navi Antiche di Pisa è di particolare interesse il dato numerico riferito a questi reperti, di cui ben novantasette di cani. Dalle analisi è emersa la presenza di tre tipologie canine ben distinte: una di grandi dimensioni, una varietà toy definita in antico “da grembo” o Melitaea, e una dei segugi nani acondroplastici, a cui appartiene anche il nostro cane del marinaio, rinvenuto integro assieme al suo padrone, e la cui altezza al garrese si aggira attorno ai 35 cm. Questa tipologia canina è solitamente impiegata per la caccia ai roditori, ma forse questo cane nello specifico doveva essere stato considerato come un moderno animale da compagnia.
Ovviamente, a bordo delle navi sono presenti anche cani prettamente destinati ad attività lavorative.

Pisa, Museo delle Navi Antiche di Pisa
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Le Navi Antiche di Pisa (consultato nel Gennaio 2023)