[Leggi anche L’avventura di Costante II e il ritorno della corte in Italia. (I) Il pontefice usurpatore]
Trascorso qualche anno senza che in Italia si verificassero nuovi rovesci politici, morto Martino, il papa ribelle, dopo un rapido processo che ne ha decretato la condanna e definitivamente stabilizzatosi il limes longobardo, Costante decise di raggiungere la provincia d’Italia.
Una decisione impopolare. L’assassinio di Teodosio.
Era un’idea che già carezzava da tempo e che fu ben lungi da prenderne celermente la decisione.
Nel 661 ritroviamo il sovrano ormai in disaccordo col senato, il quale non aveva rinunciato alle prerogative esecutive conquistate all’inizio del regno. L’assemblea aveva infatti alienato l’umore della plebe aizzandone i capi contro il sovrano. L’impopolarità raggiunse perciò il culmine con l’uccisione dell’ultimo, superstite fratello di Costante: l’esiliato Teodosio.

Questi, sordo dalla nascita, aveva passato tutta la vita nelle preghiere entro le mura conventuali in seguito alla salita al trono proprio di Costante, i cui tutori non volevano altri pretendenti della stessa dinastia. Teodosio venne quindi confinato tra i religiosi, rendendolo inoffensivo. O quasi.
Il popolo prese a chiamare Costante “Caino”, come a rimarcare solennemente la responsabilità del fratricidio attraverso l’omonimo episodio biblico.
Per quanto la precisa ragione dell’atto efferato sia rimasta oscura, gli storici oggi ipotizzano un probabile colpo di stato. Benché “difettato”, quindi eccezion fatta alla menomazione invalidante al trono, Teodosio poteva venir eletto quindi manovrato dal senato.
Può darsi che Costante intendesse così salvare l’Impero da un governo fantoccio nel momento in cui gli equilibri politici tornavano a stabilizzarsi.
Gli arabi avevano a che fare con la loro prima fitna, la guerra civile. I Longobardi avevano definitivamente preso possesso della Liguria e delle Venetiae, da tempo indifese e lontane dai pensieri dell’Esarca, sancendo così la “sazietà” -seppur momentanea- delle proprie ambizioni. Nulla di eccessivamente preoccupante.
[Leggi anche La battaglia dello Scultenna (643). Come muore un esarca.]
[Leggi anche “Ottomila morti”. L’esercito dell’esarco Isacio allo Scultenna (643)]
Da Costantinopoli all’Italia. Viaggio attraverso la Grecia.
Nel 661 Costante parte alla volta dell’Occidente percorrendo con una flotta la rotta litoranea balcanica fino ad Atene, ove soggiorna. Di tanto in tano sbarca per premurarsi della fedeltà dei funzionari locali e per difendere il territorio, come nel caso di Tessalonica; qui le sue truppe vanificano i raid slavi che minacciano da tempo la città.
Spostatosi ad Atene, qui ha il tempo di predisporre ogni cosa in vista del suo viaggio, di inviare i delegati in Italia per avvisarli in anticipo; quindi, omaggia il patriziato che lo ospita.
Nell’occasione, il sovrano annuncia pubblicamente proprio ad Atene di voler raggiungere l’isola di Sikelia, tanto ricca quanto importante come scalo marittimo centrale nel Mediterraneo e perciò sempre minacciata da nuovi invasori. La notizia crea un certo clamore ma non sorprende il Senato, il quale era informato delle intenzioni di Costante, cui s’era negato il permesso di portar via con sé la famiglia e gli eredi.
Quest’ultimi avrebbero funto da “ostaggi”, da garanzia nelle mosse politiche tra l’augusto e il collegio legislativo. Una scelta quanto mai furba! Costante riesce almeno a strappare dal palatium di Costantinopoli il primogenito Costantino, tanto basta a rassicurarlo.
Si prosegue fino a Corinto, secondo un itinerario nuovo e inusuale. Il consueto passaggio lungo l’antichissima Via consolare Egnatia era impedito dall’imperversare dei predoni slavi e Dyrrachium avrebbe dovuto essere raggiunta diversamente.
Nel frattempo, le spie imperiali si sono premurate di corrompere gli ambasciatori del re dei Franchi, signori delle antiche Galliae, per spingerne le ambizioni guerresche verso il settentrione italico. Una guerra in Pianura Padana avrebbe tenuto a bada Pavia, impedendo l’arrivo di rinforzi dal capoluogo cisalpino verso la Langobardia Minor, ove la riconquista romana era primo obbiettivo di Costante.

La guerra contro i Longobardi
Il conflitto ha quindi avvio e il Cesare dei Romani non temerà alcuna ingerenza da nord: Costante sbarca.
Taranto è il primo punto su cui innalzare il vessillo. La spedizione può contare su di un numero di effettivi di 20-30.000 unità, più un corpo palatino di Armeni, i prediletti da Costante quali somatophylakes, guardie personali. Taranto accoglie il legittimo Cesare e la sua flotta, la quale ormeggia nel porto solo in parte, inviando un distaccamento a pattugliare le coste apulo-adriatiche.
Qui risale un episodio leggendario ma riferito da Paolo Diacono nella sua “Storia dei Longobardi”. Il cronista riporta che Costante «[…] si recò da un eremita che si diceva avere lo spirito della profezia, chiedendogli con sollecitudine se sarebbe riuscito a vincere e dominare il popolo dei Longobardi che abitava in Italia». La richiesta di vaticinio sicuramente è un topos letterario che risale ancora agli antichi e che Paolo Diacono riporta quale invenzione di squisito gusto narrativo. Anche la richiesta sembra esagerata: Costante intendeva riprendersi parte ma non tutta la Langobardia, il meridione avrebbe consentito l’unificazione dell’Esarcato con il mezzogiorno e le coste ioniche.
Mai avrebbe intentato la risalita fino alle Alpi, Costante sapeva bene quanto logorante sarebbe stato il conflitto e di campagne dispendiose ve n’erano già state a sufficienza sotto il suo regno, specie nella facinorosa provincia italica. Di una sola ne avrebbe finanziato il costo, non una di più!
Sta di fatto che l’eremita, dopo aver chiesto e ottenuto una notte intera di preghiera per sapere la risposta, avrebbe predetto la disfatta al sovrano. Quest’ultimo, benché risentito, marciò ugualmente alla volta delle roccaforti longobarde. Il principe nemico Romoaldo, figlio del rex Grimoaldo, non riesce a fermare Costante il quale è penetrato nel beneventano, assediando e prendendo ogni città nemica. Tra queste vi era l’antica Lucera, la cui resistenza è piegata e scontata con un fio terribile: il saccheggio e la distruzione. Da tempo i Romani non marcavano visita in modo così drastico. Romoaldo deve chiedere aiuto al padre e monarca.
I Franchi lo tengono però ancora impegnato qualche mese, fino alla loro disfatta in Val di Susa e, solo dopo strenue lotte lungo gli appennini contro le truppe esarcali, il re longobardo riesce a raggiungere il sud. Si tratta comunque di un esercito decimato e già fiaccato dalla guerra contro l’invasore franco. Paolo Diacono ci informa inoltre che diverse defezioni rendevano rischioso l’itinerario di Grimoaldo. I guerrieri erano infatti avidi di bottino e ogni oppidum in loro possesso costituiva rifugio e attrattiva di futura, stabile dimora.
Costante può farcela.
Romoaldo è ormai accerchiato a Benevento, le cui mura subiscono ogni genere di assalto, qualsivoglia genere di proietto scagliato dai reparti specializzati nella poliorcetica.
Il re di Pavia è ben lungi dall’arrivare, di conseguenza l’inviato del principe -nonché suo precettore- Sesualdo decide di escogitare una menzogna per salvare il regno meridionale. Una volta catturato dall’avanguardia romana, Sesualdo è portato al cospetto di Costante e qui gli dichiara l’imminente arrivo di Grimoaldo.

Il racconto fatto dal longobardo dev’essere stato di certo menzognero, perché se l’imperatore avesse saputo la reale consistenza dei rinforzi nemici mai avrebbe ordinato la ritirata. Il cronista asserisce che Costante fosse “sgomento” per il racconto. In realtà, sicuramente ignaro di cosa accadesse al dì fuori del territorio circostante, non aveva forze sufficienti per affrontare padre e figlio, divenendo da assediante ad assediato. Costante non era Cesare e Benevento non era Alesia: un doppio attacco da ambedue le direzioni di marcia avrebbe significato disfatta certa.
Costante si ritira dopo aver istruito «[…] i suoi di fare la pace con Romoaldo per potersene tornare a Napoli».
Giorni dopo raggiunge le porte di Benevento e quando i difensori si sporgono dalle mura, il sovrano parlamenta.
Al momento del proclama, Costante ha ottenuto una tregua da Grimoaldo al prezzo della di lui sorella Gisa, la quale potrà fungere da garanzia o merce di scambio all’interno del patriziato romano quale sposa garante della pace. Sesualdo è presente e, quando il principe longobardo fuoriesce dalla città per il colloquio di pace, rivela la verità. Costante aveva minacciato il precettore per farlo tacere ma quest’ultimo preferisce sacrificarsi informando il suo padrone e signore di Benevento del prossimo intervento paterno.
Grimoaldo ha praticamente vinto, gli tocca solo aspettare un altro po’. Costante monta su tutte le furie e quanto a Sesualdo «[…] gli tagliarono la testa e la gettarono nella città con quella macchina da guerra che chiamano catapulta da pietre». Questo episodio immortala l’esasperazione del campo romano, il cui leader da ordine di smontare padiglioni e fortificazioni. La partita per ora è persa e una nuova sortita longobarda, guidata da Mitola, conte di Capua, incalza la colonna romana diretta in Campania, facendone strage. Lo scontro accade più particolarmente presso il fiume Calore, e ancora un secolo e mezzo dopo i fatti quella località è chiamata “Pugna”, cioè battaglia.
La battaglia di Forino (663). La fine del sogno di riconquista
A Napoli Costante opta di leccarsi le ferite e di non rischiare altre avventure guerresche. Ancora e una volta Paolo Diacono ci descrive le vicende di quelle settimane. Un guerriero armeno della sua scorta, tale Saburro, chiese a Costante di ottenere truppe romane cui aggiungere quelle napoletane, ancora fresche e bramose di combattere.
Il cronista riporta 20.000 soldati in tutto, certamente erano assai meno. Un nuovo exercitus imperiale si appresta a marciare contro il principe Romoaldo, il quale è ora a fianco del padre.
La marcia viene però arrestata presso un oppidum chiamato Forino, vicino l’odierna Avellino, e lì si inscena l’ultima tragedia della prima avventura italiana di Costante.
Lo scontro, che inizia con un segnale di trombe nei quattro punti cardinali che circondano il campo -forse un’ imboscata? – di battaglia, volge bene per i Romani.
Essi hanno fin da subito la meglio sulle fanterie longobarde. Queste ormai esauste, cedono quindi il posto alla carica della loro cavalleria. Ora i fatti volgono ad un esito inaspettato, le sorti si ribaltano e inizia la rimonta longobarda.

Più particolarmente un nobile del seguito reale, tale Amalongo, imbracciava la lancia personale del re (quindi un suo fedelissimo) e guidava la resistenza dei suoi. Questi al galoppo disarciona un cavaliere imperiale brandendo il contus a due mani con così tanta veemenza (lo avrebbe addirittura sollevato quasi fosse uno stendardo) che a tale vista «[…] l’esercito dei Greci [i.e. Romani] fu di botto colpito da una paura incontenibile […] si volse in fuga e […] procurò la disfatta a sé […]».
La vittoria dell’erede al trono longobardo sull’inviato imperiale chiude il capitolo della disavventura beneventana e inaugura quello del soggiorno romano di Costante.
[Leggi anche La battaglia di Forino (663). La disfatta contro i Longobardi.]
Il soggiorno a Roma e il “sacco” legalizzato
Il sovrano, ottenuta la pacificazione a fortiori del sud, decide di non intraprendere più alcuna sortita militare ma anzi di consolidare quanto si trova già sotto la sua potestà: l’agro romano. Mentre quindi re Grimoaldo torna a nord, ostacolato dagli abitanti di Forlimpopoli, poi espugnata quindi distrutta, i ravennati compiono un raid nell’entroterra longobardo recuperando per qualche tempo l’antica città di Oderzo. La partita in Pianura Padana è tutt’altro che decisa, anche se però può attendere. Costante ha ora altri grattacapi.
L’itinerario tocca le antiche strade consolari come la Trajana, la Appia e infine la Via Latina, tra Napoli e l’Urbe, che l’imperatore munisce di fortificazioni e rende più sicura per il commercio, il quale ancora sostenta il ducato napoletano collegandolo via terra alla Romània. Qui, al sesto miglio da Roma, il papa Vitaliano, sostituto di Martino e fedelissimo della causa imperiale, accoglie coi funzionari Costante, accompagnandolo lungo tutto il suburbio.
Qui Costante prende alloggio nei palatia lateranensi e decide di rimanere per due settimane, durante le quali indice una nundina consecrata, ossia nove giorni di processioni e funzioni religiose il cui rituale munifica l’autorità papale, quella di Costante e riverisce Dio. Il rapporto tra il patriarcato di Costantinopoli e la massima autorità cristiana d’occidente è ora rinsaldato. Forse. La devozione alla chiesa di Roma è infatti apparente e i luoghi di culto subiscono ben presto il ratto dei loro tesori.
Roma alla metà del VII secolo non è più la metropoli del principato, è una cittadina ruinante provinciale. Poche migliaia di abitanti, rifugiati in villaggi di fortuna poi fortificati a borgate sotto la spada dei signori locali. La “corte” romana è in realtà uno stuolo di aristocratici signorotti che interferiscono gli uni cogli altri nello scacchiere di rovine ed edifici decadenti e disabitati. I mausolei imperiali come quello adrianeo o di Augusto divengono fortezze, le Thermae sono cave di spogliazione per nuovo materiale edilizio.

I fori non ricevono più manutenzione e la reazione selvosa fa il resto: inondazioni e detriti sostituiscono il lastricato col fango, diventano pascoli e macchie boschive. Solo i grandi edifici religiosi resistono: basiliche e templi un tempo pagani. Questi conservano infatti larga parte del loro antico arredo. Costante coglie l’occasione di abbellire la capitale Costantinopoli e di ingraziarsi i decurioni che governano la sua futura meta, Siracusa.
Gli ultimi due giorni del suo passaggio a Roma fa spogliare d’ogni prezioso gli edifici che hanno resistito alla decadenza e ai saccheggi.
Proverbiali rimangono le coperture in bronzo trafugate dal Pantheon, ora “tempio d’ogni martiri”, oppure le tegole che rivestivano i fani e le are capitoline come la chiesa di Santa Maria cosiddetta ad Martyres.
Insomma, l’ultima, a lungo attesa, prestigiosa visita dell’imperatore romano dopo trecento anni si rivela un amaro calice e le autorità, la plebe e il clero assistono impotenti alla razzia. Il soggiorno romano ricorda le incursioni dei barbari come Alarico o Genserico, i cui sacchi non hanno mai smesso di far rabbrividire gli italici e i romani.
Bibliografia
Fonti
Paolo Diacono, Historia Langobardorum
Studi moderni
F. Cognasso 2017, Bisanzio. Storia di una civiltà
C. Della Rocca 2018, Quando i papi erano sudditi di Bisanzio
M. Gallina 2016, Bisanzio. Storia di un impero (secoli IV-XIII)
J. Herrin 2022, Ravenna. Capitale dell’impero, crogiolo d’Europa
T. Indelli 2019, I bizantini nel Mezzogiorno d’Italia
R. Lilies 2005, Bisanzio. La seconda Roma.
G. Ostrogorsky 1968, Storia dell’impero bizantino
G. Ravegnani 2008, Introduzione alla storia bizantina
G. Ravegnani 2011, Gli esarchi d’Italia
G. Ravegnani 2018, I bizantini in Italia
G. Ravegnani 2019, Bisanzio e l’occidente medievale
W. Treadgold. 2009, Storia di Bisanzio

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