Fin dagli albori dell’umanità, tingere e dipingere di rosso era una cosa molto semplice e, per così dire, spontanea.
Per molti secoli, se non millenni, il rosso è stato considerato come l’unico vero colore.
Qualcosa che si riflette in molte lingue, tanto passate quanto moderne.
In latino, ad esempio, col termine coloratus era generalmente indicato qualcosa di colore rosso. Ciò resta anche in alcune lingue derivate dal latino, come lo spagnolo, dove con le parole “tinto” e “colorado” si indica qualcosa di colore rosso.
Anche nelle lingue slave il rosso è considerato il colore per eccellenza. Infatti in russo “krasnyi” (rosso) e “krasivj” (bello) hanno la stessa radice.
La simbologia del rosso in Egitto e Vicino Oriente
L’Egitto è forse uno dei primi luoghi in cui vediamo una sovrabbondanza dell’utilizzo del rosso.
Nell’antico Egitto si ricavava il rosso dal cinabro e dal realgar, due solfuri naturali rispettivamente di mercurio e arsenico.
Essendo molto importanti e costosi, erano usati con parsimonia – ma non a causa della loro tossicità, della quale gli antichi erano all’oscuro.
Gli antichi Egizi ottenevano il rosso anche dalla robbia, dal chermes e dalla porpora – fonti note e utilizzate anche dai Romani.
Gli artigiani fenici ed egizi non utilizzavano il rosso solo come colorante, ma anche sotto forma di cosmetico, sapone e farmaco. Si riteneva ad esempio che l’ematite fosse un ottimo rimedio per le malattie del sangue e per le emorragie.
Il rosso ha sempre avuto una dimensione simbolica intrinseca molto complessa, legata tanto a concetti positivi (vita, forza, energia) quanto nefasti (morte, violenza, distruzione). Allo stesso modo, alcuni termini derivati dal rosso in lingua egizia hanno valenze in alcuni casi positive (arrossire), in altri negative (morire).
Diverse tonalità di rosso potevano avere significati differenti: vittoria, sangue, potere, protezione dagli spiriti maligni.
Gli Egizi avevano anche degli amuleti di diaspro rosso, che rimandavano al mito del sangue di Iside.

La natura anche nefasta del rosso si evince da diverse raffigurazioni del dio Seth, fratello della dea Iside e del dio Osiride. Seth è la divinità del caos, delle forze del male, della crudeltà. Spesso anche il suo nome è riportato in rosso, appunto per ricordare la sua natura pericolosa.
Purtroppo la simbologia complessa e sfaccettata di questo colore non è sempre di facile lettura, poiché muta sia temporalmente, dall’epoca dell’Antico Regno a quella ellenistica, che geograficamente, tra Alto e Basso Egitto.
I Romani e il rosso
Il rosso, contrariamente al verde e al blu, era un colore molto amato dai Romani, e faceva parte dei colores austeri.
Anche nel mondo greco e romano si riscontra la doppia valenza del rosso già incontrata nella cultura egizia: tanto colore benevolo, vitale, e salvifico, quanto legato alla morte.
Per Greci e Romani il rosso era legato al sangue e al fuoco.
Entrambi, come il colore che li rappresenta, possono aver connotazioni negative o positive. Il sangue infatti dà e rappresenta la vita, ma se esce dal corpo la toglie.
Il sangue era un elemento fondamentale in alcuni riti, nei sacrifici, e per comunicare con gli déi.
A tal proposito, si pensi per esempio ai culti mitraici, acquisiti dai Romani dall’Oriente.
Il sangue veniva a volte sostituito dal vino, “il sangue della vigna”, come per esempio nei culti dionisiaci.
Si ritrova il rosso anche nei riti funebri, dove fungeva da protezione e aiuto per il defunto nella vita ultraterrena.
A Roma, ad esempio, si spargevano petali di fiori rossi o violacei, come papaveri o violette (un’usanza che si ritrova nel Canto V dell’Eneide). Questi fiori rappresentavano la caducità dell’esistenza umana, poiché perdono facilmente i petali.
A volte, anche le rose assumevano un significato analogo, nella festività dei Rosalia, un insieme di riti dedicati ai Mani che si svolgevano tra Maggio e Luglio.
Significato molto diverso, invece, era dato al fiore di amaranto, simbolo di immortalità.

Per quanto riguarda l’uso che i Romani fanno del rosso in pittura, parecchie testimonianze risalgono al periodo tra tarda repubblica e Principato. Le nostre fonti principali sono Vitruvio, Dioscoride, e ovviamente la Naturalis Historia di Plinio (libro XXXV).
In epoca alto imperiale, sappiamo che l’uso dell’ematite, almeno a Roma, era già andato in declino, in favore del più amato e costoso cinabro.
Questo era estratto dalle miniere della Spagna Centrale, giungeva nell’Urbe sotto forma di minerale grezzo e in seguito veniva lavorato in laboratori alle pendici del Quirinale.
Plinio ci riporta che il cinabro fosse cinque volte più costoso dell’ocra d’Africa, e che il suo prezzo fosse addirittura superiore al blu d’Alessandria (il famoso “blu egizio”).
Altro rosso molto apprezzato era la rubrica, ottenuto da un’ocra riscaldato ad altissime temperature. Questa giungeva da Sinope, sulla costa settentrionale dell’Asia Minore.
Vi era anche il minio (minimu in latino), ottenuto riscaldando il bianco di piombo.
Esisteva anche una vasta gamma di pigmenti di origine animale o vegetale. Tra queste, le resine di piante presenti in territorio imperiale (cipressi o tuie) ed esotiche (albero del drago), nonché le lacche, preferite a causa della loro maggior resistenza alla luce.
Per quanto riguarda le tinture utilizzate per i tessuti, sappiamo che almeno fino dalla tarda Repubblica, esisteva un collegium tinctorium, che distingueva ben sei categorie di artigiani per la produzione di tinte e stoffe rosse, a seconda dei materiali usati:
- Sandicinii (robbia);
- Coccinarii (chermes);
- Purarii o Purpurarii (porpora);
- Spadicarii (con varie tipologie di legni);
- Flamarii (cartamo);
- Crocotarii (zafferano, per produrre tinte gialle e arancioni. Il giallo era usato anche per creare alcune tonalità di rosso, e in alcuni casi, come del resto l’arancione, era assimilati tra i rossi).

I Romani non esitarono a integrare le loro conoscenze sulla tintura da altri popoli del bacino del Mediterraneo.
In particolare, Plinio riconosce agli Egizi una grande abilità con le tinture, tanto da attribuire loro l’invenzione della mordenzatura – quel processo che, appunto attraverso un mordente, facilita poi il fissaggio della tinta su un tessuto.
Gli antichi Egizi tingevano con henné, cartamo (un fiore), oricello (un tipo di lichene, che Plinio riporta essere la fonte del miglior rosso), e la robbia (detta anche garanza).
Quest’ultima è la pianta che sicuramente ebbe più fortuna, utilizzata universalmente già in età protostorica, conosciuta per le sue capacità tintorie dall’Asia all’Europa.
La robbia cresce soprattutto in terreni umidi e paludosi. Produce un colore intenso e, per ottenere delle sfumature, basta aggiungere del mordente.
Anche se la utilizzavano ampiamente già prima, in età imperiale i Romani misero in piedi una vera e propria “industria” della rubia.
Intere regioni si specializzarono nella coltivazione di questo vegetale, come la valle del Rodano, la pianura Padana, il nord della penisola Iberica, la Siria, l’Armenia, ed il Golfo Persico.
La coltivazione della robbia non era affatto semplice.
Il terreno doveva assolutamente esser fresco, calcareo e ben irrigato. La semina iniziava a marzo, e dopo diciotto mesi alla pianta crescevano foglie e fusti, usati come foraggio (tanto che il latte delle mucche che li mangiavano diventava tendente al rosso).
Solo dopo tre anni si potevano anche raccogliere le radici della pianta, cioè la parte da cui si può estrarre il pigmento, e macinarle.
Infine, dalla polvere si ricavava poi la tintura.
In aggiunta a queste difficoltà, era necessario anche tenere lontani i topi, i quali erano ghiotti delle ghiande prodotte dalla pianta. Queste ultime, secondo il medico Galeno, avevano proprietà diuretiche.
Il rubia era un colore con gradevoli e profondi toni rossi, ma troppo opaco.
Per ottenere dei rossi carichi e brillanti, molto meglio era di sicuro il chermes, chiamato coccum dai Latini.
Questo era una sostanza animale, ricavata dal corpo essiccato della cocciniglia, un tipo di insetto raccolto soprattutto dalle foglie di querce (anche se si poteva trovare pure su altre piante).
Solo le femmine di questo insetto erano adatte, e dovevano esser prese prima che deponessero le uova.
In seguito, le cocciniglie raccolte erano esposte a vapori d’aceto ed essiccate al sole.
Da questo procedimento si otteneva il granum, una specie di chicco brunastro, dal quale si estraeva infine il succo colorante tramite spremitura.
Il rosso ottenuto dal coccum era solido, intenso, luminoso. Ciò lo rendeva naturalmente anche molto costoso.
Tuttavia, non costoso quanto il rosso ricavato dalla porpora – che tratteremo più avanti.
Il rosso non era solo usato per dipingere e tingere stoffe, ma anche per la produzione di cosmetici.
Nella toeletta di una matrona romana, di sicuro, non sarebbero mancati i tre colori fondamentali: bianco, nero, e rosso.
Il primo, ottenuto con gesso o cerussa (oggi più nota come biacca), serviva per conferire all’incarnato un certo pallore, e si usava per ricoprire la fronte, le guance e le braccia.
Il nero, ricavato da cenere, polvere d’antimonio, e vari carboni, era utilizzato per definire le ciglia ed il contorno occhi.
Infine, il rosso, solitamente di rubrica o fucus, era usato come rossetto o per rendere gli zigomi rosei.
Spesso rossi erano anche gioielli, amuleti, o pendenti, indossati dalle matrone romane, poiché si riteneva che fossero oggetti portafortuna.
Questa usanza venne ripresa in epoca tardo antica anche dagli uomini, che occultavano questi ciondoli sotto le vesti.

Il corallo era invece portato specialmente dai marinai, come protezione contro i fulmini.
Però, anche se il rosso era ben augurante, come nell’antico Egitto troviamo anche nella Roma antica una doppia valenza di questo colore.
Nel mondo greco-romano, come poi sarà nell’Europa medievale, aver la capigliatura rossa era un segno nefasto. Forse, una concezione ripresa senza soluzione di continuità addirittura dall’Egitto e dal culto del dio Seth, al quale, secondo Plutarco, venivano dati in sacrificio giovani dalla chioma fulva.
Anche nella mitologia ellenica ritroviamo infatti personaggi negativi con folti capelli rossastri, come Tifone, figlio di Gea e nemico degli dèi.
Lo storico del I secolo a.C. Diodoro Siculo narrava di come un tempo si sacrificassero uomini rossi di capelli a Tifone per placarne l’ira.
A Roma, avere i capelli rossi non era considerato affatto positivo. Ciò ben si evince dal teatro romano, in cui personaggi dalla chioma rossa incarnano esseri buffoni, crudeli, viziosi, falsi e subdoli.
Una fanciulla dai capelli rossi sarebbe stata considerata una donna dissoluta, mentre per un uomo si sarebbe sospettata una discendenza barbarica.
Il termine rufus era, e sarà per tutto l’Alto Medioevo, un insulto!
Solo il gallo, animale amato dai Romani poiché sacro a molte divinità (Marte, Mercurio, Apollo, Cerere), poteva aver la chioma, o meglio la cresta, rossa. Proprio da questo pennuto nasce il termine rubrum cristatum, ossia una variante di rosso scintillante.
La doppia valenza del rosso, positiva e negativa, si riscontra anche in altri esempi del mondo animale.
Tito Livio racconta che, nel 217 a.C., un bue dal manto rosso (o meglio, di un colore che i Romani identificavano come tale), scappò dal Foro Boario e, dopo aver risalito le scale di un’insula, si sfracellò al suolo.
Questo evento fu interpretato come un segno nefasto, un annuncio di sconfitte sanguinose, proprio per la combinazione della triste fine dell’animale con il suo colore. A posteriori, fu infatti visto come un segno premonitore delle disfatte del Trasimeno e di Canne.
Il rosso era del resto anche il colore per eccellenza della guerra, associato a Marte.
Da moltissime fonti, sappiamo che era infatti un colore molto amato e utilizzato dai soldati.
Secondo Isidoro di Siviglia, i soldati del periodo repubblicano erano definiti russati proprio perché indossavano tuniche rosse, e una tunica o una bandiera rossa presso la tenda del comandante erano i segnali che quel giorno ci sarebbe stata battaglia.
La porpora
Il rosso per la tintura dei tessuti poteva anche essere ricavato dalla porpora.
Oltre al rosso, la porpora dava numerose altre tonalità, come il viola, il blu, il malva, e il nero.
La porpora era già conosciuta dai Fenici e dai Greci, i quali ne narrano anche l’origine mitica.
Sarebbe stata “scoperta” dal cane di Ercole (o re Minosse) che, giocando nella sabbia della spiaggia, sarebbe tornato dal padrone col muso sporco di rosso. Prima convinto che si trattasse di sangue e che il cane fosse ferito, Ercole si sarebbe poi reso conto che si trattava in realtà della secrezione emessa da un mollusco.
La porpora era molto amata e costosa, ricercata per via della sua luminosità ma anche perché era molto stabile e resistente con qualunque fonte di luce e produceva riflessi cangianti.
Non sembra esservi stata una vera distinzione di nomenclatura tra i vari tipi di porpora.
Il nome del colore in questo caso andò a indicare tutta quella gamma di colori ottenuti dall’estrazione del pigmento da un mollusco.
La porpora poteva esser ricavata da due molluschi: il purpura appunto, e il murex (brandaris o trunculus, che era il più ricercato).

La pesca dei molluschi poteva avvenire solo in autunno o in inverno. La primavera era il periodo della riproduzione, nel quale spariva anche la sostanza colorante.
Questa fuoriesce da una ghiandola (che i Romani pensavano fosse il fegato), al momento della morte dell’animale.
Plinio e altri autori ci dicono che con 15 o 16 libbre (ca. 4,9-5,2 kg) di questa secrezione si riuscivano a ottenere solo una quantità corrispondente a 324 grammi di colore.
Nell’impero, vi erano numerosi laboratori atti alla lavorazione della porpora, con attrezzature e personale specializzato.
Era considerata particolarmente pregiata la porpora di Tiro. Nel II secolo d.C., la lana tinta con questa porpora costava all’incirca venti volte di più rispetto a una lana non tinta.
Solo i sacerdoti, i comandanti militari, e i magistrati potevano portare abiti o parti di abito in color porpora (da cui appunto deriva la locuzione purpuram induere). Nella Roma repubblicana, anche i bordi della toga e i clavi delle tuniche di senatori ed equites erano color porpora.
I patrizi, pur di avere una stoffa purpurea, si accontentavano anche di piccoli oggetti d’arredamento od ornamentali. Talvolta anche solo stracci, come ci ricorda Orazio in una delle sue opere satiriche.
Col passare del tempo, questo pigmento divenne sempre più esclusivo, e associato quasi solo alla figura imperiale.
Vestirsi da capo a piedi di porpora, o comunque utilizzare capi di abbigliamento interamente color porpora, divenne appannaggio esclusivo dell’imperatore.
Emularlo era considerato alto tradimento, punibile con la messa a morte, come forse accadde al re cliente Tolomeo di Mauretania nel 41 d.C., stando alla testimonianza di Svetonio.
Il costo, assieme agli imbrogli e alla volontà di farne un pigmento esclusivo, portò nel tardo antico gli imperatori a ottenere il monopolio non solo sulla porpora in sé, ma anche sulla pesca, produzione, trasporto, e commercio.
In questo senso, se fino al IV secolo sicuramente la porpora utilizzata in ambito imperiale era anche quella che rientra nella gamma dei rossi, successivamente sembra notarsi una spiccata preferenza per la porpora della gamma dei viola e del blu (anche se il rosso porpora non scompare del tutto).

Roseus, il falso amico
Sappiamo che in latino esiste il termine roseus, costruito a partir dal termine rosa (che indica il fiore), ma non bisogna farsi ingannare: si tratta infatti di un falso amico. Quest’aggettivo non significa “rosa” o “rosato”, come per noi, ma indica una variante di rosso molto bello, acceso, brillante, vermiglio.
Le rose nell’antichità avevano una cromia che andava dal rosso, al bianco, raramente giallo. Ma per quanto ne sappiamo, non erano rosa.
Quando nel XVIII secolo il rosa come lo intendiamo noi fece la sua comparsa e prese piede come colore anche nell’abbigliamento e nella moda, sia maschile che femminile, si fece fatica a trovar una parola atta ad indicarlo, dato che non si poteva attingere dalle lingue classiche.
Si optò così per “incarnato”, termine che derivava dai dialetti toscano e veneto.
La cosa curiosa, inoltre, è che bisognerà attendere la moda americana del XIX e XX secolo, per trasformare il rosa in un colore prettamente femminile.
Inizialmente, essendo considerato una variante di rosso (e questo già nel mondo antico e romano), era molto amato anche dagli uomini.

Leggi anche:
I colori nel mondo antico. (1) Percezione ed etica del colore
I colori nel mondo antico. (2) Verde e blu
I colori nel mondo antico. (4) Giallo, nero e bianco
Bibliografia
La produzione letteraria inerente il mondo dei colori è vasta e variegata. Ci limitiamo per cui a segnalare alcuni titoli principali dai quali iniziare a studiare il tema, tanto per quanto concerne le fonti che gli studi moderni.
Fonti antiche
Plinio, Naturalis Historia
Studi
M. Bradley 2011, Colour and Meaning in Ancient Rome
M. Pastoureau 2002, Blu. Storia di un colore
M. Pastoureau, D. Simmonet 2006, Il piccolo libro dei colori
M. Pastoureau 2008, Nero. Storia di un colore
M. Pastoureau 2013, Verde. Storia di un colore
M. Pastoureau 2016, Rosso. Storia di un colore
M. Pastoureau 2019, Giallo. Storia di un colore
5 thoughts on “I colori nel mondo antico. (3) Rosso e porpora”