[Leggi anche parte II]
Nel 662 l’Imperatore Costante II, dopo una campagna tanto fulminea quanto sfortunata in Langobardia Minor e un soggiorno a Roma, antica capitale dell’Impero, si appresta a sbarcare in Sikelia.
Verso la Sicilia. La scelta di Siracusa come nuova capitale
Primo augusto a visitare le rovine dell’Urbe dopo trecento anni, il sovrano ha rinsaldato l’autorità imperiale coi membri del clero facinoroso e il loro papa. L’esarcato riesce a reggere l’urto dell’espansionismo, mai sazio, della corte longobarda di Pavia. Gli attacchi si susseguono ma senza sfociare in crisi territoriali gravi.
Gli Arabi hanno da poco concluso una sanguinosa guerra interna tra contendenti e ancora faticheranno a riprendere la spinta verso la “mela rossa”, Costantinopoli (per quanto sia un concetto che associamo ai Turchi, sembra potersi già ritrovare nel mondo arabo).
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[Leggi anche La rivolta dell’esarco Gregorio (646-647). La battaglia di Sufetula e l’avanzata araba in Africa]
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Costante II lo sa bene in quanto romano, imperatore di uno stato sempre sull’orlo dello scontro per la successione al trono. Le guerre civili prostrano un popolo ben oltre la conclusione delle ostilità.
La sua dinastia, quella Eraclide, ha i suoi eredi sia a oriente, nella capitale, sotto la protezione di un’ingerente senato, sia a occidente. Costante ha infatti al suo fianco il primogenito Costantino, suo successore secondo i piani.
La nuova corte dovrà stabilirsi a Siracusa, metropoli cioè “città madre” della Sicilia. Il suo porto è lo scalo diretto per ogni località costiera di quel mare internum che Costante pregusta di riappropriarsi. Quelle acque debbono tornare nostrum.
Quando Costante giunge nel capoluogo siculo, dopo un ritorno a Napoli, quindi a Reggio, l’isola conosce già, da alcuni anni, il motivo della visita: le incursioni arabe.
Già nel 652 i clan tribali assoggettati agli Arabi avevano “traghettato” questi ultimi lungo le coste europee fornendo porti, scali marittimi e punti di sbarco per il vettovagliamento.
Le comunità romane si erano quindi premunite con una generale militarizzazione dell’Isola e uno stato di allerta quasi perenne. Le coste erano pattugliate e gli oppida ulteriormente fortificati secondo un nuovo tipo di guerra. Una guerra così fulminea che non poteva permettersi di aspettare il soccorso dal governo centrale, spingendo i sudditi quindi a riunirsi in governo locale semi-autonomo. La realtà siciliana già da inizio secolo, sotto Eraclio, aveva conosciuto l’arbitrarietà di due funzionari: uno militare e l’altro civile.
L’organizzazione della Sicilia imperiale
Il primo, il dux, benché subordinato gerarchicamente agli esarchi d’Africa e Ravenna, era formalmente autonomo nelle decisioni e rispondeva direttamente ai vertici della piramide militare imperiale: i magistri militum. Aveva l’importantissimo compito di rendere quanto mai ardua la conquista nemica del territorio, guidando la guarnigione romana e pianificando al meglio difesa e reazione. Un ingrato compito in tempi che si preannunciavano quanto mai complicati, ora che ai Longobardi si dovevano sommare gli Arabi tra le schiere di nemici pronti ad aggredire le coste. Non a caso i porti di Siracusa ospitavano una delle flotte più importanti di tutta l’Orbe conquistata o rivendicata da Costantinopoli.
Il primo strumento su cui decise di mettere le mani fu proprio questo: Costante al suo arrivo ordinò l’ampliamento della flotta sicula.

Il secondo funzionario era invece il pretore. Come il suo omonimo a Costantinopoli, si occupava di amministrare la giustizia attraverso dei propri delegati, i quali vigilavano sul rispetto delle norme ufficiali e presiedevano i tribunali garantendo l’imparziale attività giudiziale: erano i consiliarii o assessores. Per la politica faceva riferimento al sommo ministro imperiale: il magister officiorum, culmine burocratico di tutto lo stato.
C’erano innumerevoli uffici, tutti disseminati negli oltre quindici distretti religiosi dell’isola: gli scrinia canonum.
Fungevano da archivio e bureau episcopali. Per lo più i pubblici ufficiali si dedicavano all’esazione delle tasse attraverso cariche come i collectarii e i apodectai, alla confisca degli immobili e alla cura del demanio, cioè proprietà dello stato incarnato nel sovrano, quindi proprietà di Costante in persona, erano incaricati rispettivamente i comites sacrarum largitionum e privatarum. In ultima analisi, un’economia agro-pastorale come la Sicilia d’allora, deve anche poter esportare, quindi commerciare: l’isola si dotò di zecche per il conio. La principale, coi suoi “scrinia aurea”, cioè sovrintendenze fiscali, si trovava proprio a Siracusa, ennesimo motivo per ritenerla caput ideale dell’amministrazione siciliana prima, di tutto l’Impero poi.
La ricchezza materiale e l’abbondanza alimentare dell’isola, granaio dell’impero allora come un tempo, non lasciavano dubbi: la corte si sarebbe colà stabilita. L’isola non fece fatica ad accettare l’autocrazia di un governo presieduto dall’imperatore stesso poiché i suoi abitanti già erano abituati ad un governo locale autonomo e non sottomesso alle prepotenze di uno judex lontano e assente (come Sardegna e Corsica).
Costante II, il governo della Sicilia e l’elevazione dell’Italia
Preso possesso della città di Siracusa, Costante provvede a seguirne l’amministrazione migliorando infrastrutture atte alla difesa o al trasporto.

Giustamente il prossimo attacco arabo sarebbe potuto giungere da ogni parte e i rinforzi al presidio colpito avrebbero dovuto arrivare quanto più celermente possibile. Anche l’amministrazione italica di quegli anni registra un netto miglioramento e viene ridisegnato il quadro amministrativo regione per regione, andando ad anticipare le future riforme che coinvolgeranno questi territori.
Agli anni di Costante si deve, a detta di molti autori (es. Warren Treadgold), l’introduzione della circoscrizione thematica, ossia un regime provinciale prettamente più militarizzato e incentrato al miglioramento dello stato guerresco dei suoi abitanti, i contadini-soldato prelevati per coscrizione dallo “strategos”, il generale, ogni volta questi avesse ritenuto in imminente pericolo i propri confini di pertinenza.
Non solo.
In ulteriore smacco all’autorità episcopale romana, sempre più insofferente al peso delle decisioni di Costantinopoli e del suo Patriarcato, Ravenna ottenne formale autonomia giuridica e religiosa: l’autocefalia tanto agognata dai pontefici.
La decisione di Costante ha un ché di inedito, come se intendesse rendere la capitale imperiale d’Italia sullo stesso piano della capitale imperiale vera e propria, Costantinopoli. Rendere un centro amministrativo di prim’ordine, alle dirette dipendenze dell’imperatore nel territorio medesimo su cui soggiornava in maniera stabile, una sede patriarcale autonoma voleva dire renderla capitale vera e propria, di nome e di fatto.
Un segno tangibile della volontà di cementare la base di una futura penisola quale pars occidentis rinata. I sogni di usurpatori e cesari sembravano trovare realizzazione negli acta di Costante, i quali rendono sempre più vicino il ritorno della provincia al ruolo di fulcro delle ambizioni costantinopolitane.
L’anno è il 666 e l’arcivescovo ora patriarca Mauro invia l’abate di Sant’Apollinare, tra i monasteri più prestigiosi e antichi di Ravenna, Reparato, in Sicilia a ricevere il diploma autocefalo.
Con lui reca e un falso clamoroso ma che troverà fortuna in un epigono a Roma due secoli dopo: una presunta “donazione” amministrativa fatta da Valentiniano III. I Pontefici prenderanno ispirazione con la ben più nota Donatio Costantinii con la quale, in identica maniera, rivendicheranno giurisdizione sui fedeli dell’intero occidente.
Mauro poteva nominare vescovi senza il consenso di Roma, anzi!
I pontefici avrebbero dovuto da ora in avanti chiedere permesso formale per buona parte dei deliberata lateranensi in tema religioso o politico. Sul suo sarcofago, Mauro farà infatti scolpire tale merito con parole semplici e che fanno riflettere: “Qui giace Mauro, vescovo che visse moltissimi anni e che liberò Ravenna dalla schiavitù di Roma”.
Sovvenzionare le fallaci campagne di Costante in Italia cogli aerarii di porporati e facoltosi fedeli aveva finalmente dato i suoi frutti.

Costante amplifica inoltre le mura perimetrali di Siracusa, aumentandone l’imponenza difensiva con tracciati, forti, torri e molto altro. Tutto ciò ha però un costo e il popolo si vede duplicare in pochissimo tempo la tassa pro capite dovuta al sovrano in quanto tale, più un ulteriore costo per il mantenimento della corte. Il malcontento serpeggia, quindi, e la presenza del sovrano, per quanto prestigiosa, diviene scomoda e invadente. I decurioni cittadini si scoprono esautorati nelle proprie funzioni dagli armeni al seguito di Costante, il quale affida loro incarichi militari prima, amministrativi poi.
Tra questi armeni, v’è anche Mecezio, un ufficiale con aspirazioni regali e su cui si concentrano le speranze di quanti vorrebbero eliminare il sovrano, o almeno cacciarlo dall’isola. Anche il senato è stufo di “regnare senza re”, richiede cioè la presenza del sovrano nella capitale legittima.
Qui sudditi e clero attendono il ritorno del porfirogenito per riceverne i donativi e pretendere i consueti privilegi annonari o fiscali altrimenti arrecati al distante territorio provinciale d’Italia ma che spetterebbero alla sola polis costantinopolitana. Bisogna agire.
L’assassinio di Costante II, la fine del sogno occidentale
Accadde così che un giorno, nel 668, mentre Costante si prendeva una pausa dai cerimoniali di corte, un servitore lo avvicinò nei bagni delle terme cosiddette “di Dafne”.
L’imperatore amava ristorarsi nelle calde acque sorgive e riprendere le forza per affrontare la pianificazione delle future campagne militari, ormai prossime al compimento.

Era rimasto solo. Costantino, suo figlio prediletto ed erede al trono, aveva fatto ritorno a Costantinopoli. La sua guardia personale nel giro di un lustro aveva occupato i seggi amministrativi insediandovi delle casate e prendendo le parti della popolazione che ora difendevano. Il patriziato siculo aveva quindi avuto modo di permeare col risentimento persino i fedelissimi somatophylakes di Costante, tra cui il sopramenzionato Mecezio.
Fu quest’ultimo ad ordire la congiura. Il servitore porse quindi il portasapone a Costante e quando questi si girò, lo colpì, tramortendolo a morte.
Finiva così la parabola imperiale di Costante II che, a soli trent’anni, prese in mano le redini di un impero in sfacelo e ridisegnò la sua politica tra i nemici interni (senato, clero ed usurpatori) e quelli esterni (Longobardi, Arabi e Slavi).
Certo, non sempre si rivelò all’altezza del nonno Eraclio o del suo predecessore Giustiniano, tuttavia la volontà di conferire alla penisola italiana un nuovo ruolo nell’accentramento militare delle mosse imperiali lungo lo scacchiere mediterraneo mostra come l’imperatore avesse compreso su quali assi si sarebbe dovuto muovere l’augusto dei Romani per salvare dalle invasioni le sue province.
Per esprimerci al meglio, decifriamo il significato di un regno purtroppo troppo sottovalutato o -alla peggio- ignorato come quello di Costante II, attraverso le parole del prof. Ravegnani ne “I Bizantini in Italia”.
«La scelta della Sicilia come nuova sede imperiale, infatti, doveva legarsi all’importanza strategica dell’isola, che permetteva il controllo di ampi teatri di guerra e, in particolare, dei movimenti navali degli Arabi, la cui potenza si era ricostituita dopo la guerra civile […] minacciando l’esarcato […] La spedizione italiana si rivelò a conti fatti un fallimento, almeno nella prospettiva di recuperare l’Italia all’impero, ma ebbe nondimeno un successo parziale, consistente nell’aver tenuto a freno i Longobardi meridionali con le truppe venute dall’Oriente, rimaste poi a quanto sembra in Sicilia anche dopo la morte del sovrano».
Ma soprattutto è doveroso sottolineare quanto segue, scritto sempre dal professore e che si allinea in perfetta sintonia col pensiero dell’autore di questo articolo:
«[Costante II] comportò un significativo spostamento della corte imperiale in Occidente […] per cui la questione italiana tornò in primo piano nella politica di un sovrano di Bisanzio [i.e. Romano] dopo un lungo periodo di disinteresse».
[Leggi anche Recensione: “I Bizantini in Italia”, di Giorgio Ravegnani]

In seguito, il figlio e successore Costantino IV avrebbe riconosciuto, nel 680, con un solenne patto, la situazione de facto realizzatasi: legittimazione piena ai duchi longobardi sui territori conquistati entro il Po.
Primo indizio di una fine che meno di un secolo dopo avrebbe “sradicato” da Ravenna le presenze imperiali romane, rigettando gli sforzi del padre Costante. Una vanificazione di generazioni e generazioni di armate costantinopolitane accorse per reggere all’urto del nemico lungo i limes dell’esarcato.
[Leggi anche La conquista longobarda di Ravenna (751) e la fine dell’Esarcato]
Allora l’opera di Costante II, seppur incompleta, di strenua resistenza, fu totalmente inutile?
La nostra mente non può che sognare cosa sarebbe accaduto se i piani dello sfortunato sovrano non fossero falliti; se nei campi beneventani i Longobardi avessero avuto la peggio; se il patriziato non avesse ordito ai danni del legittimo sovrano secondo una spirale tradizionalmente torbida di intrighi e congiure, vera condanna della politica imperiale per tutta la sua storia.
Occorre però fermarci qui, nel resoconto obbiettivo e con poche ipotesi, giacché “con i se e con i ma la Storia non si fa”.
[Leggi anche La caduta di Siracusa (878). La perdita della Sicilia.]
Bibliografia
Fonti
Paolo Diacono, Historia Langobardorum
Studi moderni
F. Cognasso 2017, Bisanzio. Storia di una civiltà
C. Della Rocca 2018, Quando i papi erano sudditi di Bisanzio
M. Gallina 2016, Bisanzio. Storia di un impero (secoli IV-XIII)
J. Herrin 2022, Ravenna. Capitale dell’impero, crogiolo d’Europa
T. Indelli 2019, I bizantini nel Mezzogiorno d’Italia
R. Lilies 2005, Bisanzio. La seconda Roma.
G. Ostrogorsky 1968, Storia dell’impero bizantino
G. Ravegnani 2008, Introduzione alla storia bizantina
G. Ravegnani 2011, Gli esarchi d’Italia
G. Ravegnani 2018, I bizantini in Italia
G. Ravegnani 2019, Bisanzio e l’occidente medievale
W. Treadgold. 2009, Storia di Bisanzio

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