La fibra tessile più usata nel mondo romano era sicuramente la lana. Questa era prodotta principalmente in Italia, Spagna, e Gallia. Dalle fonti antiche sappiamo inoltre che tutte le attività connesse alla lavorazione della lana (allevamento, tintura, commercio) alimentavano una vera e propria “industria” molto redditizia. Varrone, ad esempio, ricorda la lana come un’importante fonte di guadagno.
La lana era dunque la fibra tessile più nota, ed era ricavata dal vello degli ovini. Rispetto alle fibre di origine vegetale, la lana offre un ottimo grado di protezione dalle intemperie, e risulta ottima e facile da filare. Il vello delle pecore è composto da due tipi di pelo: la giarra, che permette l’isolamento dell’acqua dall’animale, e la borra, il pelo più sottile che permette l’isolamento dal freddo.
Il primo tipo di pecora comparso in Europa fu l’Ovis aries palustris, un esemplare domestico di piccola taglia ma con possenti corna. Probabilmente, fu introdotto dai primi coloni neolitici che approdarono dall’Oriente lungo le coste del Mediterraneo. In seguito a un lungo processo di selezione delle razze, si crearono notevoli mutamenti fisici atti ad avere un animale in grado di produrre più lana e una maggiore cromia del vello.
La pastorizia divenne fin dagli albori un importante fonte di reddito, tanto che in età regia, almeno secondo la tradizione, il secondo re di Roma Numa Pompilio avrebbe fatto coniare monete con immagini di ovini come simbolo della sua utilità.

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I centri di produzione
Da numerose fonti scritte ci sono noti alcuni dei principali centri di produzione della lana all’interno del territorio romano. Sfortunatamente, non sempre il dato scritto è supportato da quello archeologico, vista la deperibilità di alcuni materiali e i mutamenti del territorio.
Tra i centri produttivi spiccano la città di Mutina (odierna Modena), le aree attorno alle bocche del Timavo, l’Apulia, il Sannio e il Norico.
Nell’area incentrata sulla città di Mutina, tra gli Appennini e il Po, sono varie le fonti storiche e archeologiche che documentano l’ampio e articolato sviluppo delle attività legate alla lana, e il legame del territorio con questo settore produttivo.
In età romana è testimoniata nella zona la presenza di allevamenti ovini, connessi con l'”industria” della lana, sia stanziali sia transumanti.
Ad entrambe queste modalità di conduzione dovevano essere interessati sia la piccola che la media proprietà terriera, distribuita nell’ager publicus centuriato, ma anche più ingenti capitali (documentati ad esempio a livello municipale dai Nonii – gens ben nota a Mutina e legata al settore della produzione e vendita dei tessuti di lana), attirando anche investimenti dall’esterno, come ci ricorda Marziale nei suoi scritti.
Mutina e il territorio a essa connesso erano un centro di produzione di lana già da prima dell’arrivo dei Romani. Sicuramente, la posizione strategica al centro dell’immensa pianura Padana, all’incrocio della via Aemilia con percorrenze transappenniniche e direttrici viarie che conducevano al nord Europa da un lato, e all’Adriatico dall’altro (favorendo dunque anche i commerci col resto del Mediterraneo e dell’Egeo) contribuirono allo sviluppo della zona. Oltre al ruolo strategico militare e commerciale, la pianura era un luogo ricco di risorse (come ad esempio l’argilla per la produzione fittile) e ben adatto alla coltivazione e alla produzione di foraggi per l’allevamento. La presenza di boschi permetteva inoltre anche l’allevamento dei suini.
All’età imperiale risalgono anche la costruzione di ville urbano-rustiche, come centri produttivi che rispondevano alle necessità dei centri urbani e di un’economia di mercato destinata all’espansione a largo raggio, collocate lungo assi viari stradali e fluviali.
Livio, Strabone (5, 1, 11, C217), e Varrone (rust. 2, praef. 6) testimoniano la presenza di un mercato extraurbano con strutture stabili, in cui si teneva una fiera annuale d’importanza panitalica, principalmente dedicata al bestiame. Esso aveva il nome di Campi Macri, e gli archeologi ritengono che sia da collocare nell’attuale zona di Magreta (Formigine – MO), presso il corso del Secula-Secies (ossia il Secchia).
Strabone tra l’altro ricorda anche l’alta qualità della lana prodotta in questa zona (compresa tra i fiumi Secchia e Scultenna, oggi Panaro), affermando che superava le altre per morbidezza e bellezza.
Nel 176 a.C., sappiamo che il luogo dove sorgeva il mercato fu usato anche come base logistica per azioni militari. Ma la sua importanza decadde già attorno al 56 d.C., anno in cui ne venne autorizzata la demolizione. All’epoca del regno di Nerone, non restava più traccia delle infrastrutture dei Campi Macri. Tuttavia ciò non arrestò la fiorente “industria” della lana di Mutina, tanto che ancora agli inizi del IV secolo d.C., all’interno dell’Edictum de Pretiis dell’imperatore Diocleziano, la lana mutinense viene annoverata tra quelle più pregiate e costose (una dalmatica realizzata con questa lana, e bordata in porpora chiara, poteva raggiunge un costo di 46000 denari, e il prezzo della lana nell’editto si aggira attorno ai 300 denari per libbra).
Probabilmente, l’aggettivo mutinense faceva riferimento alla qualità di lana che dalla città di Mutina prese il nome quasi come una garanzia, ma che in realtà era prodotta nell’Emilia Occidentale.
Infatti in Emilia, anche se più vicino al corso del Po, vi era la città di Brixellum (odierna Brescello – RE) nota anch’essa per la qualità della lana.
Infine, in epoca tardo antica, gli allevamenti africani soppiantarono quelli padani per via dei prezzi più competitivi, portando al declino della transumanza specializzata.
Varrone (rust. 2), Columella e Marziale (epigr. 8, 28, 7 – 8) celebrano anche la zona delle bocche del Timavo come area di fiorenti allevamenti di ovini, e la lana prodotta da questi animali poteva addirittura gareggiare con quella betica e di Taranto (quest’ultima, famosa per la qualità e il colore scuro o fulvo del vello delle pecore – Plinio, NH. VIII, 190).
Le pecore ivi allevate erano dette oves molles, per via del vello morbido, lungo, e ondulato, che per mantenere tale era soggetto a speciali trattamenti. Inoltre, dato che questi ovini erano di costituzione piuttosto delicata, venivano allevati solo in forma stanziale e non transumante (nemmeno a breve raggio), e mandati di rado al pascolo, e solo in giornate particolarmente miti. Si preferiva dunque nutrirli (con erbe costose) in stalle, fornite di pavimenti in pietra o terra battuta, coperti da assi lignee, forate per favorire il drenaggio dei rifiuti organici. Le pecore erano poi avvolte in drappi di tessuto o cuoio (da cui il nome di oves tectae o oves pelitae). Queste coperture erano tolte di sovente per permettere la pulitura o per pettinare il vello, che veniva lavato circa tre volte l’anno con acqua e radice di saponaria officinalis. Tanta era la mole di lavoro che richiedevano questi capi di bestiame, che in un gregge di circa 1000 individui, due pastori badavano ad una sola pecora.
Gli ovini inoltre erano sfruttati il più possibile, e macellati solo al raggiungimento pieno dell’età adulta (ossia tra i due e i sei anni di vita), dato anche che col tempo la lana tendeva a diventare più pelosa e meno lanosa. La macellazione tuttavia, come abbiamo anche visto in un mio precedente lavoro, avveniva in concomitanza di riti in onore di divinità agricole deputate a proteggere e a favorire la fertilità delle messi, e i limiti dei campi coltivati. Tracce di macellazione sono dunque inquadrate principalmente in un’attività rituale finalizzata alla ridistribuzione della carne durante il rito.
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A tal proposito è interessante notare, sia in questa zona sia in quella del modenese di cui abbiamo parlato poco fa, la presenza di santuari dedicati a divinità legate alla pastorizia.
Per l’area a nord di Aquileia è testimoniata la presenza di un santuario di un culto arcaico incentrato su una divinità maschile dalla prevalente connotazione guerriera e pastorale, forse legata a corsi d’acqua o a fonti, a cui con la romanizzazione si andò a sovrapporre la figura di Ercole.
Il culto di Ercole era infatti collegato in ambito italico a contesti di transito, sosta, o commercio del bestiame, e costituisce solitamente un marcato indicatore di frequentazioni pastorali. Come nel caso appunto di Ponte d’Ercole, località dell’Appennino modenese, il cui toponimo rievoca questo suo passato di luogo di culto, e le cui testimonianze archeologiche hanno riportato alla luce una strada basolata con sepolture di epoca romana, e una fonte con offerte votive.
Per quanto concerne il Norico, la situazione è più complessa. Nel Norico meridionale, le città tardo-repubblicane e proto-imperiali di Flavia Solva e Virunum possono essere annoverate tra i principali centri di produzione tessile. L’ampia produzione di queste città sarebbe però da vedere sullo sfondo del centro di mercato e di produzione fondato da mercanti provenienti dall’Italia Settentrionale. Tuttavia la mancanza di dati scritti riguardanti la vita quotidiana in questi centri abitati, e la mancanza di approfonditi studi archeologici riguardo alle attrezzature da tessitura ivi rinvenute (pesi da telaio, aghi, tavolette, ecc.) rende a tutt’oggi impossibile affermare con certezza che la produzione tessile e il mercato dei tessili fosse prerogativa della regione.

Produzione e lavorazione della lana
La produzione tessile nel mondo antico era svolta principalmente all’interno delle mura domestiche ed era l’attività delle donne considerate oneste e laboriose.
Le attività di tessitura e filatura non compaiono mai infatti tra le antiche associazioni di mestieri istituite (secondo la tradizione) dal re Numa Pompilio. Eccezion fatta per i tintori, presenti sin dall’età regia, e suddivisi in base al colore in cui erano specializzati.
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A partire dal III secolo a.C., la produzione abbandonò man mano l’ambito familiare (Columella infatti si scaglia contro tutte quelle donne che non filano più all’interno dell’ambiente domestico) per passare alle botteghe e a officine specializzate. Sono attestati infatti fulloni che perseguivano un’organizzazione professionale nel campo della tessitura, in grado di fare fronte a un mercato sempre più ricco e specializzato.
I tessitori di lana (o lino, altra fibra molto diffusa e coltivata nell’area padana) erano retribuiti a peso, in base alla quantità di filo prodotto. In media un tessitore poteva guadagnare all’incirca quaranta denari per ogni libra di tessuto eseguito. Il tutto era comprensivo di vitto.
In origine, i Romani strappavano la lana direttamente dal corpo dell’animale. La lana proveniva dunque dal naturale cambio del pelo degli ovini in primavera, che poteva appunto essere raccolto mediante l’ausilio di strappi. In seguito, si preferì passare alla tosatura delle pecore, eseguita con la forfex, ossia con delle cesoie, da magister pecoris, responsabile del gregge, o da pastori suoi dipendenti. La tosatura era effettuata due volte l’anno: a marzo e a settembre.

La stele mostra uno strumento di lavoro che può indicare più lavorazioni legate alla lana,
caratterizzate dall’uso di acqua o altri liquidi.
Ogni officina si occupava di una fase diversa della lavorazione della fibra di lana.
Il primo passaggio era costituito dal lavaggio, operato dai lanifricari in appositi laboratori, noti come officinae lanifricariae, con una miscela di acqua e olio d’oliva.
La lana era poi sgrassata con i medesimi prodotti usati per la follatura, come ad esempio l’urina, e poi veniva lasciata ad asciugare. In seguito, la fibra ottenuta veniva pesata per la vendita. In tale circostanza, bisognava stare molto attenti a non incappare in frodi: se la lana non era risciacquata a dovere infatti, poteva ancora avere tracce di lanolina (una sostanza grassa), che ne faceva di conseguenza aumentare il peso.
Da qui, la lana passava alle tinctoriae, in cui si procedeva alla tintura della fibra. Una volta pettinata e cardata (la cardatura era un passaggio molto delicato, in quanto la finezza dei filamenti non dipendeva direttamente dalla razza delle pecore ma proprio da questo passaggio della lavorazione) nelle officinae textoriae, la lana era pronta per essere filata e tessuta nelle officinae coactiliariae. La filatura può sembrare un’attività prettamente femminile, ma abbiamo testimonianza di uomini impegnati in tale mestiere.
Infine, il prodotto finito era inviato alle fullonicae, che procedevano al finissaggio. Il tessuto era candeggiato mediante solforazione con l’utilizzo di una viminea cavea, sulla quale la stoffa stesa era sottoposta ai vapori dello zolfo.
A motivo della grande mole di lavoro, i tessuti non venivano prodotti come merce da vendere a metraggio, ma già tessuti in maniera il più possibile vicina alla forma finale (una stoffa romana aveva in media circa 15/20 fili per centimetro di ordito e trama).
Nelle fullonicae venivano anche lavati e smacchiati i panni. A Mutina è inoltre documentata un fullo, che, grazie alla sua immensa disponibilità economica, era riuscito a finanziare i giochi nell’anfiteatro (Marziale, 3, 59).
Tutte queste attività potevano appartenere a membri facoltosi di una gens, ma erano poi gestite da liberti della famiglia, o appartenere direttamente a questi.

La professione di tonsore era evidentemente abbastanza considerata se, grazie a essa, Primus poté accedere alla corporazione degli Apollinares, importante collegio addetto al culto imperiale in ambito municipale. Probabilmente il tonsor svolgeva un’attività di mediazione tra produttori, artigiani, e commercianti di lane, industria fiorente fra Modena e Parma.
Modena, Musei Civici
Donne e mestieri
Per quanto riguarda il mondo del lavoro la documentazione è scarsa e di carattere più generale. Per le donne “imprenditrici”, ad esempio, vi era la necessità di ricorrere a un intermediario, spesso un liberto, che si occupasse della gestione degli affari. Raramente dunque sono ricordate nelle epigrafi donne in questa veste, dato che la loro immagine pubblica tendeva ad essere mediata dai tradizionali ruoli familiari. Testimonianze diverse provengono dalla documentazione e dagli archivi privati, in cui si nota che non vi era alcun ostacolo alla gestione al femminile degli affari, come nel caso di Alliatoria Celsilla, domina di Ercolano, proprietaria di alcuni edifici nella zona dei Campi Macri.
Per legge però era inibito alle donne l’esercizio delle attività bancarie (officium argentarii), come attestato anche da Callistrato, giurista romano della prima metà del III secolo d.C., in quanto ritenute attività prettamente maschili.
Per lo svolgimento di altro tipo di mansioni, siamo a conoscenza di lavoro servile femminile in età ellenistica in Asia Minore: le schiave svolgevano, oltre ad attività prettamente femminili quali tessitrice, nutrice o prostituta, anche altre meno connotabili come femminili nell’agricoltura o nella pastorizia, ma anche in laboratori e fabbriche, forse anche sulle navi.
Dall’Egitto romano abbiamo attestazioni papiracee di donne che apprendevano un mestiere al di fuori dell’ambiente domestico.
Per quanto riguarda la documentazione offerta da marchi di fabbrica dei prodotti in vetro o di laterizi, tra la fine del I secolo a.C. e il III secolo d.C., le donne appaiono come commercianti, artigiane, o operaie. Per le donne lavoratrici di estrazione sociale servile o libertina, le testimonianze epigrafiche ricordano il nome e il mestiere svolto. Questo genere di epigrafi compare molto più frequentemente nei columbaria, ossia grandi luoghi di sepoltura collettiva utilizzati dai membri di condizione servile di grandi famiglie aristocratiche. Nel caso di singole sepolture invece le donne lavoratrici compaiono il più delle volte da sole, con l’aggiunta a volte della rappresentazione degli attrezzi del mestiere, e talvolta il monumento funebre poteva essere commissionato già in vita dalle stesse. In alcuni casi, la titolare del sepolcro disponeva la sepoltura di altre persone, per lo più di condizione libertina, secondo un rapporto già mutuato all’interno dell’ambiente lavorativo.
I lavori svolti dalle donne potevano essere quelli di: nutrice, ostetrica, librariae (segretaria), ornatrices (parrucchiera), vestiplicae (colei addetta al guardaroba), unctrices e tractatrices (ungitrice e massaggiatrice), cameriera, fornaia (furnariae), pescivendole (piscatrices), commercianti di generi alimentari, ostesse e locandiere.

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La forma di lavoro per eccellenza femminile però era quello di filatura e tessitura.
Questo era anche l’unico lavoro manuale ammesso per le matrone, e il lanificium oltre ad avere una valenza positiva nella caratterizzazione del modello femminile ideale, era anche un mezzo di sostentamento adeguato per condurre una vita onesta, frugale, e austera. All’interno delle textrinae, ossia produzioni tessili organizzati in veri e propri laboratori, vi lavoravano anche operaie specializzate, la cui professione è testimoniata dal dato epigrafico, anche se questo non rende affatto giustizia alla realtà dei fatti: vi sono infatti lanificae che lavoravano per grandi proprietà private, lanipendae (pesatrici di lana), quasillariae (filatrici), textrices (tessitrici), sarcinatrices o vestificae (sarte). Il lavoro specializzato poteva inoltre fornire a queste donne una discreta agiatezza.
Tra queste possiamo elencare qualche nome: Lezbia di Roma e Irene, schiave addette alla pesatura della lana, che vissero rispettivamente ventuno e ventotto anni; oppure Iulia Soteris, lanipeda e liberta imperiale, ricordata da altri liberti della familia Augusta, che visse fino all’età di ottant’anni. Ancora sempre di estrazione sociale libertina, la lanifica circulatrix Trosia Hilaria, da Aquileia, che era in grado di gestire una piccola produzione di indumenti di lana, che confezionava direttamente a casa dei clienti.
Gli attrezzi per la tessitura
Il materiale più comunemente usato per la realizzazione degli attrezzi per la lavorazione della lana era il legno, che difficilmente si conserva e quindi giunge fino ai nostri giorni solo in casi particolari. Abbiamo tuttavia numerose testimonianze di oggetti utilizzati per tali scopi e costruiti in materiali più pregiati, ma spesso fragili e deperibili, come osso, avorio, ambra, vetro e metalli.
Nonostante la presenza del dato archeologico, mancano studi sistematici e specifici sull’argomento, che consentano di delineare un quadro cronologico e tipologico di tali strumenti. Allo stato attuale infatti la maggioranza delle pubblicazioni fanno riferimento a contesti, collezioni, o reperti specifici.
I principali metodi di filatura nel mondo romano sono ben noti grazie all’analisi dei dati offerti dalle fonti scritte e iconografiche, nonché dall’evidenza archeologica e dell’archeologia sperimentale.

La filatura col fuso (fusus) sospeso era il metodo più in uso. Questo era impugnato fra pollice e indice e veniva fatto girare scendendo verso terra. In tal modo il fuso tirava a sé la fibra e la torceva allo stesso tempo. Il fuso era un attrezzo astiforme, ingrossato al centro e rastremato a una o a entrambe le estremità. Anche se vi sono attestazioni dall’Egitto romano di aste completamente diritte. La sua lunghezza era attorno ai 30 cm, anche se nella maggioranza degli esemplari a noi oggi noti questa oscilli fra i 12 e i 25 cm. Il suo diametro è raramente superiore a 1 cm. Il materiale impiegato per la realizzazione del fuso era generalmente legno, bronzo, o osso.
Le estremità superiori dei fusi erano a volte dotate di un uncino in metallo. La lunghezza di questi uncini oscilla fra i 4 e i 6 cm, e sono costituiti da una lamina bronzea ripiegata in forma conica e cava all’interno, nella quale si inseriva l’asta del fuso.
Durante il movimento rotativo, il fuso si manteneva sempre in posizione verticale grazie alla presenza del verticillus o fusarola, posta nella parte inferiore del fuso. Le fusarole potevano essere in argilla, metallo, osso, ambra, a volte decorate in superficie, e potevano assumere diverse forme: discoidali, a bulbo, a calotta sferica, cilindriche, coniche, biconiche, troncoconiche, e bitroncoconiche. Il foro centrale presenta solitamente un diametro di 0,5 cm molto usurato a causa dell’attrito col fuso. La larghezza massima delle fusarole non è quasi mai superiore ai 5 cm.

La rocca o conocchia (colus) era lo strumento sul quale era posta la fibra grezza da trasformare in filato. Il modello romano più comune, e mostrato in numerose steli funerarie. è costituito da una semplice asta in legno o in osso, dotata a volte di elementi decorativi nella parte superiore. Nelle versioni più elaborate, la sommità della rocca presentava delle piccole aste inserire trasversalmente. Come ben si evince dalle fonti iconografiche, nella filatura con fuso sospeso la rocca era impugnata con la mano sinistra. Ma sono documentate anche altre tipologie come le rocche da dito, da braccio, e da mano. La denominazione deriva ovviamente dalle diverse modalità di impugnatura, anche se presentano tutte un ampio arco temporale di utilizzo.
Da contesti funerari si hanno anche testimonianze di rocche da dito realizzate in vetro, atti a sottolineare lo status e la virtus della donna sepolta. Di tali oggetti non è attestato un vero uso nel quotidiano, ma all’interno della tomba questi attrezzi assumevano un compito simbolico e allusivo, contribuendo a esaltare le doti morali della defunta, indicandola come mulier lanifica, che racchiudeva in sé le doti e le abilità domestiche, che la comunità richiedeva a una matrona virtuosa, degna del proprio ruolo sociale.
Dal Museo Archeologico Nazionale di Aquileia proviene anche un piccolo fuso con fusaiola in osso, le cui dimensioni suggeriscono un uso come giocattolo o una valenza di carattere simbolico, laddove si postuli una provenienza sepolcrale. Sempre da Aquileia, inoltre, si hanno testimonianze di rocche da mano in ambra. Si tratterebbe di oggetti di pregio, indicativi di virtù e rango elevato, non funzionali dato che l’ambra se sfregata produce elettricità statica. Dunque, è probabile che siano attrezzi simbolici, atti a sottolineare la condizione matronale (forse doni matrimoniali, in riferimento alle parole di Plinio, che descrivono la presenza di un fuso e rocca nel corteo nuziale) e poi, nella morte, legati alla figura di Cloto, la Parca che “filava la vita dei mortali”.

In questi oggetti riecheggia il moto romano domi mansit lanam fecit. Non va inoltre dimenticato che le giovinette romane per accedere a nozze superiori o privilegi dovevano filare e tessere il proprio abito da cerimonia. Il lavoro della filatura era cantato anche da poeti (Tib. 1,3,86; Catullo, 64, 311). La canocchia in mano a seducenti fanciulle poteva anche mutarsi in una strumento di seduzione e civetteria (virgo Idalia), come sarà ad esempio il ventaglio nei secoli successivi.
A tutt’oggi non è chiaro se tali rocche in ambra, meglio note col nome di bastoncelli, fossero usati solo in contesti votivi o funerari, o se, come suggerisce qualcuno, fossero una sorta di “scettri”, atti a testimoniare il ruolo della donna all’interno della famiglia, o ancora se, come afferma il Ritter, servissero per curare e profumare le mani.
Alcuni degli esemplari aquileiesi inoltre, quelli ad esempio appartenenti al gruppo A (segmenti cilindrici di diametro digradante, con perle al centro quando presente di forma discoide) presentano delle somiglianze con i tipi protostorici dei corredi femminili delle ricche sepolture n. 13 e 47 da Verucchio (RN), risalenti alla metà o al terzo quarto del secolo VII a.C.; un altro fa parte del corredo della romba Comunale 2 della fine del VIII – inizi VII secolo a.C., nel quale si trova un numero notevole di oggetti relativi alla filatura e alla tessitura, come rocchetti e pesi da telaio.
Infine, a una filatrice non poteva mancare il cesto (noto in latino col termine quasillum, da cui la parola quasillaria per filatrice), un oggetto spesso presente nelle raffigurazioni del processo o degli strumenti di filatura, ma del tutto assente tra le attestazioni archeologiche.
Per eseguire un tessuto a telaio, occorrevano ben cinque filatrici a un unico telaio. Sappiamo che nel mondo romano vi era sia il telaio verticale che quello orizzontale, ma solo il telaio a pesi ha un’attestazione sicura per via del rinvenimento di numerosi pesi, realizzati in argilla, malta, cotto, o pietra (quelli di epoca romana sono solitamente in argilla cruda o cotta). Le altre componenti dei telai erano in legno, e perciò non ne rimane quasi nulla.
I telai orizzontali sono noti dal III millennio a.C. o anche prima in Egitto, ma si possono individuare tuttavia con difficoltà. Nel caso della tipologia di telaio semplicemente fissato a terra è ancora oggi oggetto di discussione se fosse effettivamente in uso in Europa; mentre il telaio che spiccava dal suolo, noto indirettamente dai rinvenimenti soffici, doveva essere utilizzato in oriente già dal I secolo d.C. per la fabbricazioni di tessuti a damasco.
I pesi da telaio (suspenda pondera) mostrano generalmente una forte usura, e alcuni esperimenti hanno dimostrato che nel corso del processo di tessitura possono perdere fino al 10% del proprio peso, che oscilla da pochi decagrammi a oltre un chilo. I pesi da telaio romani presentano una forma troncopiramidale, con talune varianti fra cui predominano quelli a basi rettangolare e a base rettangolare stretta. A volte, vi sono anche degli elementi decorativi, che variano a seconda dell’area geografica del ritrovamento, anche se la percentuale dei casi decorati rispetto a quelli lisci è piuttosto contenuta. Nella maggioranza dei casi, le decorazioni sono ubicate sulla testa o sulla fronte del peso. Frequenti sono i motivi circolari o rettangolari con croci impresse, motivi triangolari ripetuti a formare rosette, motivi a linee intersecanti. A volte, le decorazioni erano eseguite a matrice con motivi definiti a “spina di pesce” o “a ramo secco”, e abbinati a elementi geometrici, o più di rado figurativi. In alcuni casi potrebbe anche trattarsi di “motivi-firma” di determinate figline che poi commercializzavano i propri prodotti. Ma di questo non vi è certezza.
Oltre ai pesi da telaio rimangono diversi attrezzi come spade da telaio, pettini da telaio, bastoncini per la registrazione (meglio noti come “chiodi battitori”), ecc. oggetti che oltre che in legno erano spesso realizzati anche in osso. Pettini da telaio a forma di T con corti denti ne son stati, ad esempio, rinvenuti in grande quantità in Egitto. Sono inoltre giunte fino a noi anche numerosi esemplari di tavolette sia quadrangolari che triangolari per la tessitura, anch’esse realizzate in osso o legno. Lungo il bordo dei fori delle tavolette si notano spesso dei profondi intacchi causati dai fili dell’ordito. Le tavolette in ambito romano erano utilizzate per la tessitura a telaio per il bordo iniziale o per quelli laterali di un tessuto.

Nel mondo romano sembrerebbe inoltre attestato il metodo dello sprang, una tecnica oggi nota con questa denominazione scandinava, basata sul fatto che in una cornice i fili dell’ordito si contorcono l’uno verso l’altro, così da formare un tessuto piuttosto elastico. Questa tecnica serviva per la realizzazione di reticelle per i capelli. Un rinvenimento di tessuto con la tecnica dello sprang proviene dalla collina di macerie del campo di Vindonissa, datato al I secolo d.C., altri da Vindolanda, e altri ancora dall’Egitto tardo romano.
Questo tipo di tessuto confezionato a sprang fa a meno dei fili di trama, tuttavia l’ultima fila deve essere cucita per evitare che si sciolga. A tal proposito, gli aghi da cucire erano in ferro e in bronzo. Aghi in osso, non mostrando i stessi segni di usura, sembrerebbero essere usati per altri scopi, come magari quello dell’acconciare i capelli. Inoltre, quello che noi indichiamo come “ricamo” era scarsamente in uso nell’antichità, o comunque era quasi del tutto assente nel mondo romano. Nei tessuti tardo antichi, di cui abbiamo abbondanti testimonianze dall’Egitto romano, i motivi decorativi sono tessuti con l’utilizzo di un punto scritto.
L’unico indicatore archeologico che documenta la tosatura della lana è l’attrezzo impiegato, ossia il forfex, le cesoie a molla in ferro rimaste pressoché identiche nel tempo, anche se riutilizzate per molteplici funzioni. Solitamente queste cesoie hanno lame triangolari, collegate da una molla a forma di U, e dalla lunghezza complessiva che va dai 15 ai 22 cm. La presenza invece di altri esemplari con lame rettangolari non esclude l’impiego di questo strumento per la cimatura dei tessuti. Per gli altri esemplari di dimensioni minori sono invece da escludere entrambe le destinazioni.

Appendice: il mito di Aracne
La narrazione di questo celebre mito dipende tutta quasi esclusivamente dal racconto che ne fa il poeta Ovidio nella prima parte del VI libro delle Metamorfosi. Questa sezione della sua opera è dedicata ad altre favole in cui compare la hybris punitiva, nello stesso libro possiamo infatti leggere degli episodi di Apollo e Marsia o di Niobe.
La vicenda narrata nel mito è quella della fanciulla Aracne, ragazza di umili origini e orfana di madre, con un’enorme talento nella tessitura. Tanta è la sua bravura, che ella ritiene di essere in quest’arte addirittura superiore alla dea Minerva, ed arriva a sfidarla. Date alcune condizioni che accomunano le due figure femminili (come il fatto di aver entrambe solo un padre), il poeta sembra quasi voler creare un parallelismo fra la divinità e la giovane mortale. Quando la sfida inizia, Ovidio ci narra con dovizia di particolari il procedimento di tessitura eseguito su telai verticali (forse la descrizione più dettagliata in tal senso di tutta la letteratura latina). Minerva è ritratta mentre tesse, stando ben attenta alla proporzione degli spazi, la contesa tra Atena e Poseidone, alla presenza dei dodici dei. Agli angoli della tela sono invece e sono illustrate le punizioni inflitte dagli dei ad alcuni mortali arroganti. La struttura e il soggetto della tessitura eseguita da Aracne è totalmente diverso. Ella raffigura gli amori degli dei, un soggetto empio e provocatorio, dove le vicende si susseguono in maniera paratattica a partire da quelle di Giove per poi passare
a narrare i fatti che vedono come protagonisti Nettuno, Apollo, Bacco e infine Saturno. Il senso dell’ordine, della simmetria e della gerarchia fra le parti, nel lavoro della fanciulla, viene meno, favorendo una maggiore fluidità nell’esecuzione.
Nel confronto fra le due opere nulla ha da dire la dea sulla tela di Aracne, e nemmeno Livor (l’invidia) avrebbe avuto qualcosa da obiettare. Dunque la tessitrice lidia non risulta sconfitta. Ma Minerva, in preda alla collera, punisce la fanciulla, mutandola in ragno e condannandola a tessere per sempre tele geometriche, aniconiche, e del tutto effimere.
L’epilogo della narrazione ci mostra quali sono le qualità femminili incarnate ora dal ragno, ossia la pazienza e la laboriosità, esercitate in uno spazio domestico.
A differenza di altri miti narrati nella stessa sezione del libro, come quello dei Niobidi, la favola di Aracne non sembra aver avuto molto successo iconografico nell’arte figurativa romana. Forse perché il racconto non rifletteva gli ideali politici promossi dalla propaganda augustea per mezzo delle immagini.
Sembra però che Minerva e Aracne compaiano in un rilievo della trabeazione del cosiddetto Foro Transitorio, voluto da Domiziano, che nel lato orientale ospitava proprio un tempio in onore alla dea. Del fregio si conserva un tratto che rappresenta
figure femminili occupate in lavori di tessitura e filatura, tra cui appunto la scena identificata con la punizione di Aracne da parte di Minerva. All’interno del ciclo scultoreo, il racconto funge da exemplum negativo: prototipo di un comportamento trasgressivo, poiché essa carica un’attività per eccellenza femminile, i cui prodotti dovrebbero essere il risultato delle virtù matronali di modestia e di umiltà, di ambizioni non lecite. Inoltre, il contenuto della sua tela offende la pudicitia della dea.
Sappiamo da Svetonio, che il sovrano era molto devoto alla divinità: la onorava fino alla venerazione. Minerva avrebbe dovuto assicurargli l’apoteosi tra gli dei, come aveva fatto con Ercole.

punizione di Aracne da parte di Minerva. Roma, Foro Transitorio
Bibliografia
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