Il solenarion. Il riduttore d’allungo degli arcieri imperiali (VI-X sec.)

Nello 𝘚𝘵𝘳𝘢𝘵𝘦𝘨𝘪𝘬𝘰𝘯 dell’imperatore Maurizio, redatto a cavallo tra VI e VII secolo, fa per la prima volta la sua comparsa nella trattatistica militare romana un particolare strumento, il cui uso è prescritto per gli arcieri di fanteria: il 𝘴𝘰𝘭𝘦𝘯𝘢𝘳𝘪𝘰𝘯.

Nel trattato non è descritto, ed è anzi evidente che se ne diano per scontate forma e funzione:
“[…] 𝘴𝘰𝘭𝘦𝘯𝘢𝘳𝘪𝘢 di legno con frecce corte, contenute in piccole faretre. Queste possono essere tirate a grande distanza con gli archi e causare danni al nemico.”

Il 𝘴𝘰𝘭𝘦𝘯𝘢𝘳𝘪𝘰𝘯, come emerge dall’utilizzo e da quello che si può evincere dalle fonti successive che lo menzionano è un “riduttore d’allungo”: si tratta di una sorta di tubo di legno, probabilmente aperto su un fianco, che permette di incoccare e scagliare frecce molto piccole, altrimenti impossibili da lanciare.

All’estremità del 𝘴𝘰𝘭𝘦𝘯𝘢𝘳𝘪𝘰𝘯 è poi fissato un cordino, legato alle dita della mano che tende la corda dell’arco, per consentirne il recupero e per far sì che non cada a terra.

Il ricostruttore e ricercatore Timothy Dawson con una replica di 𝘴𝘰𝘭𝘦𝘯𝘢𝘳𝘪𝘰𝘯.

Anche se è senz’altro adatto anche per lanciare frecce normali a distanze probabilmente maggiori del normale, dai trattati è evidente che l’uso del 𝘴𝘰𝘭𝘦𝘯𝘢𝘳𝘪𝘰𝘯 (che non sappiamo da chi i Romani abbiano adottato, o se sia una loro invenzione) è concepito appositamente per l’utilizzo con le piccole frecce descritte già nello 𝘚𝘵𝘳𝘢𝘵𝘦𝘨𝘪𝘬𝘰𝘯.

Strumenti probabilmente identici a quelli che usavano gli arcieri romani sono ancora oggi utilizzati nell’arcieria coreana e turca.
La gittata raggiunta dai dardi è impressionante: tra i 600 e i 1000 metri.

Tuttavia, le piccole frecce scagliate grazie al 𝘴𝘰𝘭𝘦𝘯𝘢𝘳𝘪𝘰𝘯 non sono probabilmente pensate per avere effetti mortali, quanto per creare confusione e disordine nelle formazioni nemiche in avvicinamento.
Questi piccoli dardi sono noti con nomi specifici nei successivi trattati di Leone VI il Saggio (fine IX secolo) e nell’anonimo trattato di X secolo oggi noto come 𝘚𝘺𝘭𝘭𝘰𝘨𝘦 𝘛𝘢𝘤𝘵𝘪𝘤𝘰𝘳𝘶𝘮.

Nel primo le piccole frecce sono note come 𝘮𝘦́𝘯𝘢𝘴 (“forti”), mentre, in modo molto indicativo, nel secondo sono chiamate 𝘮𝘺𝘪𝘢𝘴: “mosche”.

Nel 𝘚𝘺𝘭𝘭𝘰𝘨𝘦 𝘛𝘢𝘤𝘵𝘪𝘤𝘰𝘳𝘶𝘮, le “mosche” sono considerate molto utili poiché, unitamente alla grande gittata, sono invisibili al nemico finché non giungono a bersaglio e il nemico, non essendo quasi certamente dotato di 𝘴𝘰𝘭𝘦𝘯𝘢𝘳𝘪𝘢 a sua volta, non le può riutilizzare.

Fonti e studi consigliati
Maurizio imperatore, Strategikon

G. Cascarino 2012, “L’esercito romano. Armamento e organizzazione. Vol IV.”


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