Nel 40 a.C., su istigazione di Quinto Labieno (figlio del celebre Tito Labieno), il principe partico Pacoro invade le province orientali di Roma.
Il triumviro Marco Antonio, che ha nominalmente il controllo dell’Oriente, distratto tanto dall’inizio della sua relazione con Cleopatra che dagli sviluppi della guerra di Perugia, non riesce a occuparsi subito della questione, che presto ha sviluppi disastrosi.
Antiochia e Apamea sono conquistate da Labieno, mentre la Siria e gran parte della Palestina vengono travolte dalle forze di Pacoro.
Preoccupato per come la situazione sta degenerando, Antonio, che ha finalmente trovato un accordo Ottaviano tramite gli accordi di Brindisi, nel 39 a.C. raduna tutte le legioni veterane disponibili tra Italia e Macedonia.
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Assemblato così un esercito di ben undici legioni, Antonio si ferma in Grecia e, in attesa di poter riprendere personalmente in mano la conduzione delle operazioni, lo invia in Oriente al comando del suo generale più esperto: Publio Ventidio Basso, uomo di umili origini che ha fatto carriera con le campagne di Cesare e schierandosi con Antonio contro i cesaricidi.
Appena arrivato, passando per l’Asia Minore, Ventidio Basso ottiene una prima grande vittoria contro Labieno e i Parti sul monte Tauro – la cavalleria partica, troppo baldanzosa per le recenti vittorie, carica all’alba a testa bassa l’alta posizione di Ventidio, che respinge e massacra i nemici in fuga.
Labieno stesso deve fuggire, e sarà poco tempo dopo catturato e ucciso.
Poco dopo, Ventidio Basso ottiene un’altra sfolgorante vittoria contro i Parti nella battaglia del Monte Amanus, via di accesso alla Siria: dopo la vittoria, Ventidio Basso ha gioco facile nel riconquistare le province perdute.
Pacoro, intanto diventato re dei Parti, non intende lasciare che Ventidio Basso distrugga impunemente i risultati da poco ottenuti. Messo insieme un imponente esercito di arcieri a cavallo e catafratti, nel 38 a.C. marcia alla volta della Siria.
Ventidio Basso ha bisogno di prendere tempo: l’esercito di Pacoro è numericamente superiore al suo, che deve essere radunato, sparpagliato nei quartieri invernali della provincia.
Oltre a essere un abile comandante sul campo, Ventidio si dimostra anche un uomo astuto: sfruttando un principe locale segretamente alleato con Pacoro, fa pervenire al re dei Parti informazioni errate e lo induce a varcare l’Eufrate non presso l’usuale attraversamento a Zeugma, ma molto più a sud, forzandolo così a una lunga deviazione.

Guadagnato il tempo necessario a rimettere insieme le sue legioni, Ventidio si attesta alle pendici del monte Gindaro, in Siria, e attende nel suo accampamento l’arrivo dei Parti.
Pacoro interpreta le mosse di Ventidio, che non gli ha impedito l’attraversamento dell’Eufrate e non marcia per affrontarlo in campo aperto, come codardia. Una volta scoperta la sua posizione, avanza senza indugi contro i Romani, sicuro di travolgerli al primo assalto, nonostante il terreno non sia a suo favore.
Presi dall’entusiasmo e imbaldanziti, i cavalieri parti attaccano le posizioni romane – le interpretazioni del racconto di Cassio Dione divergono: c’è chi afferma che siano stati mandati i catafratti all’assalto, mentre un’interpretazione forse più attenta vorrebbe che siano stati gli arcieri a cavallo a risalire il pendio.
Sia come sia, l’assalto della cavalleria partica si infrange sulle linee romane, che tengono la linea e facilmente respingono i cavalieri, in quali iniziano a darsi addosso gli uni con gli altri e a ritirarsi.
Le forze partiche, inseguite dalla fanteria legionaria, sono così scacciate alla base del pendio, dove dovrebbero attendere i cavalieri pesanti parti (se l’interpretazione dell’attacco degli arcieri a cavallo è corretta).
Anche se all’inizio i catafratti riescono a difendersi bene grazie alle armature, ben presto entrano in confusione per via dell’accalcarsi degli uomini in fuga.
Nel frattempo, i cavalieri vengono bersagliati anche dai frombolieri greci al servizio dei Romani, cosa che aumenta ancora di più il caos poiché le ghiande missile di piombo riescono a sfondare le armature o a fare danni sotto le corazze.
La nostra fonte principale, Cassio Dione, non fornisce moltissimi dettagli sullo scontro. Proprio per questo, purtroppo non sappiamo come avvenga uno degli eventi cruciali della battaglia: Pacoro, che combatte coraggiosamente insieme ai suoi, a un certo punto rimane ucciso.
Si accende una mischia tra Romani e alcuni dei Parti sul suo corpo, ma una volta venuti a conoscenza della morte del loro sovrano, la maggior parte dei guerrieri parti inizia a fuggire.
La testa di Pacoro viene inviata da Ventidio in tutta la Siria per assicurarsene la sottomissione, poiché in gran parte era stata incerta su chi schierarsi fino al momento della battaglia – Pacoro era stato considerato un buon sovrano.
La battaglia del monte Gindaro, insieme alle altre due precedenti vittorie di Ventidio Basso, viene considerata dai Romani la giusta rivincita per la disastrosa battaglia di Carre, persa contro i Parti nel 53 a.C. e mai vendicata.
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Plutarco sintetizza così:
“Il suo successo, che diventò uno dei più celebrati, diede ai Romani piena soddisfazione per il disastro subito con Crasso, e colpì i Parti ancora fino ai confini con la Media e la Mesopotamia, dopo averli sconfitti in tre successive battaglie. […]”
Quando Antonio finalmente si presenta in Oriente, Ventidio Basso viene rimandato a Roma (secondo alcuni storici antichi, poiché il triumviro è invidioso dei suoi successi).
Giunto nell’Urbe, a Ventidio Basso sono tributati tutti gli onori e gli è concesso anche un trionfo. Anzi, secondo Plutarco, “Ventidio è l’unico generale romano che ad oggi [I-II sec. d.C.] abbia celebrato un trionfo sui Parti.”
Fonti principali
Cassio Dione, Storia romana
Plutarco, Vite parallele
