Nei secoli dall’VIII all’XI, il confine orientale dell’impero diventa una zona molto particolare per lo sviluppo dell’arte militare romana.
Proprio in questo contesto nasce una figura di guerriero che nel corso dei successivi secoli sarà romanticizzata e mitizzata, fino a dare la nascita a poemi e canzoni a essa dedicati: l’𝘢𝘬𝘳𝘪𝘵𝘢.
Questi testi poetici, figli di una tradizione orale più antica, sono usualmente messi per iscritto dopo l’epoca d’oro degli 𝘢𝘬𝘳𝘪𝘵𝘢𝘪, in epoca comnena – e non a caso, poiché proprio i Comneni tentano di ristabilire il modello degli 𝘢𝘬𝘳𝘪𝘵𝘢𝘪 per la difesa dei loro confini orientali, e vogliono quindi esaltare le gesta antiche di questi guerrieri.
[Leggi anche Akritai. I guardiani delle frontiere.]
Il poema certamente più celebre, messo per iscritto durante il XII secolo, è il 𝘋𝘪𝘨𝘦𝘯𝘪𝘴 𝘈𝘬𝘳𝘪𝘵𝘢𝘴, che racconta le gesta di Digenis, il cui nome stesso rivela la “doppia natura” e la posizione a metà tra due mondi degli 𝘢𝘬𝘳𝘪𝘵𝘢𝘪.
Tuttavia, per quanto sia il più famoso, il 𝘋𝘪𝘨𝘦𝘯𝘪𝘴 𝘈𝘬𝘳𝘪𝘵𝘢𝘴 non è il poema acritico più antico a noi noto.
Questo primato spetta infatti a un testo scritto nell’XI secolo (anche in questo caso, figlio di una tradizione orale più antica) e rinvenuto grazie a due trascrizioni del 1461 e del XVI sec.: il Canto di Armouris (𝘈𝘴𝘮𝘢 𝘵𝘰𝘶 𝘈𝘳𝘮𝘰𝘶𝘳𝘪).
Il poema narra le gesta del giovane Armouris Armouropoulos, il cui padre, un guerriero valoroso, è stato catturato dagli Arabi nel corso di una campagna militare.
La prima sfida del giovane è cercare di montare in sella allo stallone nero del padre, fallendo più volte, finché non supera le prove di forza alle quali lo sottopone la madre, che si comporta duramente con lui per renderlo un guerriero.
Quando finalmente Armouris diviene forte, in grado di combattere e di conseguenza in grado di montare in sella al cavallo del padre, si dirige verso oriente, oltre la frontiera, percorrendo più di sessanta miglia.

Dopo essere riuscito ad attraversare l’Eufrate con l’aiuto di un angelo, il ragazzo affronta un esercito di Saraceni (che lo avevano deriso per i tentativi non riusciti di passare il fiume) e combatte contro di loro per un intero giorno e un’intera notte.
Un Saraceno sopravvissuto tuttavia riesce a rubargli il prezioso cavallo e la sua mazza e a darsi alla macchia. Armouris, seppur a piedi, inizia l’inseguimento per più di ottanta miglia, fino a raggiungere il ladro in Siria e a tagliargli una mano – ma non riuscendo a recuperare il suo cavallo.
Oltre alla mazza, la spada (una preziosa arma in un fodero d’argento) è l’altra arma descritta tra quelle utilizzate da Armouris nel corso della sua avventura – entrambe appartenute al padre -, molto coerentemente con le armi tipiche dei cavalieri romani del periodo altomedievale.
Inoltre ritornano i temi che sono tipici della spietata guerra di frontiera, la 𝘱𝘢𝘳𝘢𝘥𝘳𝘰𝘮𝘦̀𝘴: una vittoria ottenuta con un’imboscata, il nemico inseguito solo dopo che ha fatto bottino e colpito duramente sulla via del ritorno.
[Leggi anche Paradromès. La guerra di frontiera contro gli Arabi (VIII-X sec.)]
Il cavallo di Armouris intanto raggiunge la corte dell’emiro.
Quando il padre di Armouris riconosce il suo cavallo, reputa che suo figlio sia morto.
Tuttavia poco dopo giunge anche il Saraceno al quale Armouris aveva tagliato un braccio, assicurando che il ragazzo è invece ancora vivo.

Armouris continua a combattere gli uomini dell’emiro. Suo padre gli scrive una lettera, invitandolo a placare la sua ira e a cessare il conflitto, assicurandogli che l’emiro gli concederà clemenza.
Ma Armouris, al contrario, minaccia di continuare a devastare la Siria fintanto che suo padre non sarà rilasciato.
L’emiro alla fine cede.
Non solo lascia il padre di Armouris libero, ma decide anche di dare sua figlia in sposa al ragazzo, così da assicurare finalmente la pace.
Bibliografia essenziale
R. Beaton 2004, Folk Poetry of Modern Greece
G. Cavallo 1992 (a cura di), L’uomo bizantino
S. Petsopoulos 2001, Greece. Books and Writers
