Anche se per noi è difficile comprendere, per i popoli del mondo antico la guerra aveva un importante aspetto sacrale – e ciò è particolarmente vero, per ciò che ci è tramandato dai Romani, anche per quanto concerne i popoli dell’Italia antica.
La guerra non era qualcosa che si potesse dichiarare o decidere di fare alla leggera: era una rottura tra le relazioni pacifiche tra popoli, e poteva scatenare l’ira degli dèi, se non dichiarata per motivi giusti (𝘣𝘦𝘭𝘭𝘶𝘮 𝘪𝘶𝘴𝘵𝘶𝘮).
Per questo i Romani – e non solo loro -, almeno nella loro epoca più arcaica avevano un complesso rituale per la dichiarazione di guerra, che dimostra uno scrupoloso rispetto delle leggi umane e divine a cui i Quiriti si attenevano, nelle relazioni con i popoli stranieri.
Secondo la tradizione riportata da Tito Livio, il rituale formale e sacro della dichiarazione di guerra nasce in età regia per volontà del re Anco Marzio, come contraltare di re Numa Pompilio, che aveva dal canto suo istituito i rituali di pace – Plutarco e Dionigi di Alicarnasso, invece, ascrivono proprio a Numa anche la formalizzazione della dichiarazione di guerra.

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Tito Livio sostiene che il rito sia stato adottato dai Romani dal popolo degli Equicoli, un’altra forma per chiamare gli Equi, ma si tratta probabilmente di una concezione nata da una falsa etimologia, basata sulla formula 𝘢𝘦𝘲𝘶𝘶𝘮 𝘤𝘰𝘭𝘦𝘳𝘦 (“coltivare/onorare l’equità”).
Sappiamo poi da Tito Livio stesso, quando descrive la sfida tra Orazi e Curiazi, che il rito della dichiarazione di guerra doveva essere condiviso con altri popoli, almeno nel Lazio antico.
Infatti, il popolo di Alba ha anch’esso lo stesso collegio sacerdotale dei Romani preposto alla dichiarazione di guerra: i 𝘧𝘦𝘵𝘪𝘢𝘭𝘦𝘴.
Questi sacerdoti erano venti e sceglievano tra loro un 𝘱𝘢𝘵𝘦𝘳 𝘱𝘢𝘵𝘳𝘢𝘵𝘶𝘴, che si faceva portavoce dell’intero collegio ed era colui che era incaricato, tra le altre cose, di fare la dichiarazione di guerra a un popolo straniero, chiedendo soddisfazione per l’eventuale torto subito.
O, più letteralmente, chiedendo la restituzione di beni (𝘳𝘦𝘳𝘶𝘮 𝘳𝘦𝘱𝘦𝘵𝘪𝘵𝘪𝘰): questo tipo di dichiarazione di guerra infatti trae senz’altro origine nella fase più arcaica della Storia di Roma, quando le guerre potevano scatenarsi, realisticamente, per le razzie contro i vicini e il furto del bestiame.
Tito Livio descrive tutto il rituale.
Quando il feziale raggiungeva il confine con il territorio del popolo avversario, col capo cinto da una benda, o meglio una sorta di tela, di lana, si esprimeva così:
“Ascolta, o Giove, ascoltate, o confini – e fa il nome del popolo a cui appartengono -, ascolti la giustizia divina: io sono il pubblico rappresentante del popolo romano. Vengo delegato giustamente e santamente, e alle mie parole sia prestata fede.”
Dopo aver esposto le richieste dei Romani e aver chiamato Giove a testimone, proseguiva:
“Se ingiustamente ed empiamente chiedo che mi siano consegnati quegli uomini e quelle cose, non lasciare che mai più io sia partecipe della patria.”
Ripeteva queste esatte cose varcando poi il confine e quando incontrava il primo uomo che gli capitava entrando in territorio nemico, quando entrava nella prima città e nel foro, “mutando solo poche parole della formula e del giuramento”.
Se una volta passati trentatré giorni, il nemico non cedeva alle richieste romane, allora si passava alla dichiarazione di guerra vera e propria.
Il 𝘱𝘢𝘵𝘦𝘳 𝘱𝘢𝘵𝘳𝘢𝘵𝘶𝘴, prima di tornare a Roma a riferire, pronunciava queste parole:
“Ascolta, o Giove, e tu, o Giano Quirino, e voi tutti, o dèi del cielo, della terra e degli inferi, ascoltate: io vi invoco a testimoni che quel popolo – e qui ne fa il nome – è ingiusto e non concede la dovuta riparazione. Ma su queste cose consulteremo gli anziani in patria, sul modo come possiamo far valere il nostro buon diritto.”
Il re interrogava quindi il senato, nella persona del primo senatore al quale gli capitasse di rivolgersi, e questo, per dichiarare guerra, dichiarava:
“Propongo che si richiedano [le cose non restituite] con pia e santa guerra [𝘱𝘶𝘳𝘰 𝘱𝘪𝘰𝘲𝘶𝘦 𝘥𝘶𝘦𝘭𝘭𝘰]: a questo mi associo e questo approvo.”
Se dopo di lui era d’accordo anche la maggior parte dei senatori, allora era guerra.
Mancava solo un ultimo atto, compiuto dal 𝘱𝘢𝘵𝘦𝘳 𝘱𝘢𝘵𝘳𝘢𝘵𝘶𝘴.
Questi si recava al confine del territorio nemico con una lancia, o con un’asta in corniolo rosso con la punta indurita col fuoco, alla presenza di almeno tre uomini abili alle armi, e declamava questa formula:

Ph. Martina Cammerata, reenactor Legio I Italica
“Poiché i popoli dei [nome del popolo] e gli uomini [nome del popolo] agirono ingiustamente contro il popolo romano dei Quiriti, poiché il popolo romano dei Quiriti ha ordinato che vi fosse guerra con i [nome del popolo], e il senato del popolo romano dei Quiriti ha proposto, approvato, deliberato che si facesse guerra con [nome del popolo], per questo a nome del popolo romano dichiaro e muovo guerra ai popoli dei [nome del popolo] e agli uomini [nome del popolo].”
Infine, come ultimo atto, il 𝘱𝘢𝘵𝘦𝘳 𝘱𝘢𝘵𝘳𝘢𝘵𝘶𝘴 scagliava la lancia in territorio nemico, dando formalmente inizio alla guerra.
Da quanto ne sappiamo, il collegio dei 𝘧𝘦𝘵𝘪𝘢𝘭𝘦𝘴 sopravvive per tutta l’età repubblicana, ma visto che le guerre di Roma erano ormai combattute sempre più lontano, il 𝘱𝘢𝘵𝘦𝘳 𝘱𝘢𝘵𝘳𝘢𝘵𝘶𝘴 usava come simbolico territorio nemico un campo presso il tempio di Bellona, che fu allora conosciuto come 𝘤𝘢𝘮𝘱𝘶𝘴 𝘩𝘰𝘴𝘵𝘪𝘭𝘪𝘴.
In età augustea, i 𝘧𝘦𝘵𝘪𝘢𝘭𝘦𝘴, e con loro questa complessa e rituale dichiarazione di guerra, risultano di fatto scomparsi, per poi definitivamente smettere di esistere sotto l’imperatore Claudio.
Fonti
Dionigi di Alicarnasso, Antichità Romane
Plutarco, Vite parallele
Tito Livio, Ab Urbe Condita

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