Naumachica. I manuali militari di guerra navale.

Nel corso dei secoli, i Romani hanno prodotto a più riprese diversi trattati e manuali militari, attraverso i quali tramandare le loro conoscenze e dare un solido impianto alla loro arte della guerra.

Tuttavia, nell’epoca classica e tardo antica ben poco spazio sembra essere riservato a manuali inerenti la guerra navale.
Ciò non deve stupire: tolti gli scontri in guerre civili e la conquista vandala dell’Africa, i Romani hanno sempre avuto, nei secoli dell’impero, un controllo pressoché assoluto del Mar Mediterraneo.

Le fonti tardo antiche che parlano di navi militari e guerra navale (Vegezio e lo 𝘚𝘵𝘳𝘢𝘵𝘦𝘨𝘪𝘬𝘰𝘯), non a caso, menzionano primariamente come risalire e combattere lungo i fiumi – operazione possibile anche grazie alla stazza di liburne e dromoni.

[Leggi anche Il dromone (IV-X sec.). Da veloce imbarcazione a imponente nave da guerra.]

Tuttavia, questo scenario subisce un enorme cambiamento con l’entrata in scena degli Arabi nel VII secolo, che in poco tempo si rendono dei formidabili contendenti dell’impero sul mare. Col passare del tempo, si vanno naturalmente ad aggiungere anche altri protagonisti che rendono sempre più complesso alle flotte imperiali mantenere il controllo delle acque del Mediterraneo.

[Leggi anche La battaglia di Phoenicus (655): gli Arabi invadono il Mediterraneo.]

Probabilmente anche per questo nel IX secolo si sente finalmente l’esigenza di mettere per iscritto le necessarie nozioni della guerra navale, in quelli che oggi sono noti come 𝘕𝘢𝘶𝘮𝘢𝘤𝘩𝘪𝘤𝘢.

Ne sono tuttavia sopravvissuti solo pochi, e i principali e meglio noti sono senz’altro due.
Uno, frammentario, attribuito dagli studiosi a Siriano, un trattatista del quale sappiamo pochissimo ma del quale abbiamo anche altre parti del suo “compendio”, oggi note come 𝘋𝘦 𝘙𝘦 𝘚𝘵𝘳𝘢𝘵𝘦𝘨𝘪𝘤𝘢 (anche se questo è da alcuni ancora considerato un trattato anonimo di VI secolo) e 𝘙𝘦𝘵𝘩𝘰𝘳𝘪𝘤𝘢 𝘔𝘪𝘭𝘪𝘵𝘢𝘳𝘪𝘴.
L’opera di Siriano sarà poi ripresa, nel suo trattato, da uno dei grandi generali imperiali dell’XI secolo, Niceforo Urano.

[Leggi anche Niceforo Urano, distruttore dei Bulgari]

Il secondo è il XIX libro dell’opera dell’imperatore Leone VI il Saggio, autore di un celebre 𝘛𝘢𝘬𝘵𝘪𝘬𝘢.

Oltre alle necessarie raccomandazioni per il comandante della flotta (𝘴𝘵𝘳𝘢𝘵𝘦𝘨𝘰̀𝘴), che riecheggiano quelle già presenti in diversi altri manuali militari – seppur con alcune specifiche relativamente al mondo navale -, nei 𝘕𝘢𝘶𝘮𝘢𝘤𝘩𝘪𝘤𝘢 si trovano anche i precetti, probabilmente applicati anche nel concreto, di come i Romani di questo periodo fanno guerra per mare.

Ovviamente è impossibile sintetizzare tutto in un solo articolo breve, ma si possono condensare alcuni degli aspetti salienti.

Ad esempio, il fatto che Siriano consideri la flotta una “falange marittima”: “[…] come negli schieramenti terrestri la nostra forza ha il sopravvento più attraverso l’ordinata disposizione dell’esercito che con altre cose, così è anche in quelli navali: una forza non ben schierata è più predisposta al disfacimento.”

E proprio come per gli schieramenti delle forze terrestri, da Leone VI sappiamo che anche le flotte si esercitano in battaglie simulate, così come gli uomini armati a bordo: “Per quanto riguarda i dromoni [NB: in questo periodo si tratta di navi da guerra ben diverse e più imponenti del loro antenato tardo antico] li farai avanzare in ordine di battaglia gli uni contro gli altri, ora stringendo la formazione, ora allargandola, ora spingendo via con le pertiche le navi degli avversari al fine di non farsi agganciare dalle imbarcazioni che si avvicinano.”

Una prescrizione comune ai due trattati è la necessità che la nave del comandante in capo della flotta, dalla quale provengono gli ordini – dati probabilmente con bandiere, trombe e segnali luminosi con gli specchi -, deve essere molto ben riconoscibile dalle altre, spesso con uno stendardo apposito.

Tra gli equipaggiamenti da tenere a disposizione su ogni nave, non menzionato da Siriano ma prescritto da Leone VI, c’è anche un sifone per quello che noi oggi chiamiamo “fuoco greco”, ma che nelle fonti imperiali ha invece una serie di altri nomi (escluso, naturalmente, “fuoco greco”) – Leone VI lo chiama in un modo che potrebbe essere traducibile come “fuoco prodotto” o “fuoco artificiale”.

Così Leone VI: “Abbia [la nave] il sifone obbligatoriamente a prora rivestito di bronzo nella parte anteriore, com’è d’uso, dal quale sarà lanciato contro i nemici il fuoco artificiale. E sopra questo sifone una piattaforma di assi, circondata da una palizzata, in cui si disporranno uomini armati per fronteggiare coloro che ci attacchino dalla prua delle navi nemiche o per bersagliare la nave avversaria con quante armi si possa immaginare.”

Nei due trattati si trovano ovviamente anche le informazioni per come schierare le navi a battaglia, a seconda della circostanza: a semicerchio concavo o convesso, in linea retta, oppure a squadre. Anche in questo caso, è impossibile qui sintetizzare appieno l’esposizione dei due trattati, che indicano anche come esattamente entrare in battaglia, con che tipi di navi, nonché come organizzare imboscate e come ingannare i nemici e tendere loro una trappola.

Probabilmente anche grazie ai precetti descritti nei due trattati (che forse in futuro vedremo meglio), e nonostante dall’XI secolo vi sarà un lento declino della marina imperiale, almeno ancora nel 968 l’imperatore Niceforo II Foca può dichiarare a Liutprando da Cremona:

“Io solo ho il dominio del mare”.

Lettura consigliata

A. Carile, S. Cosentino 2010, Storia della marineria bizantina


Leave a Reply