Nel 503 a.C., dopo aver finalmente concluso da qualche tempo degli accordi di pace con Lars Porsenna e dopo alcune vittoriose contro i vicini Sabini, la città di Roma deve affrontare la rivolta di due sue colonie: Cora e Pometia.
[Leggi anche La battaglia della Selva Arsia (509 a.C.). La prima battaglia della Repubblica.]
Pometia (la cui posizione oggi non è nota, e non è da confondere con l’attuale Pomezia, fondata nel XX secolo), città volsca o latina a seconda delle fonti, ha già avuto a che fare con l’Urbe nei decenni precedenti.
Secondo la tradizione, Pometia è stata infatti conquistata durante il regno di Tarquinio il Superbo, il quale con il bottino ricavato dal saccheggio ha potuto continuare i lavori (iniziati da Tarquinio Prisco) della costruzione del tempio di Giove Ottimo Massimo – segno della ricchezza della città.
Tito Livio non spiega le ragioni della rivolta del 503 a.C., ma non è improbabile che siano da ascrivere anche agli scontri degli anni recenti, che hanno portato all’instaurazione della repubblica, nonché agli interessi politici degli Aurunci.
Infatti è proprio a questa popolazione che la città di Pometia si rivolge per chiedere supporto e protezione nella sua ribellione a Roma.
L’Urbe è tuttavia rapida e spietata nell’agire. Sotto la guida dei consoli per quell’anno, Agrippa Menenio Lanato e Publio Postumio Tuberto, l’esercito romano irrompe nel territorio degli Aurunci e sconfigge l’esercito (“grande”, ci dice Tito Livio) che è stato radunato proprio in previsione di un’invasione romana.

Il peso della guerra ora ricade quasi interamente su Pometia.
Si tratta, sempre secondo Livio, di un conflitto particolarmente spietato: “gli uccisi furono molto più numerosi che i prigionieri, ed anche i prigionieri furono massacrati alla rinfusa; il furore bellico non risparmiò neppure gli ostaggi, che erano stati consegnati in numero di trecento.” [II, 16]
Livio riferisce che a Roma viene celebrato un trionfo, ma di questo non vi è traccia nei Fasti Triumphales.
Nel 502 a.C., sotto i consoli Opitere Virginio e Spurio Cassio, i Romani decidono di proseguire la guerra e attaccare direttamente Pometia. La città, dopo un primo assalto evidentemente finito male, viene assediata e i Romani iniziano a predisporre vinee (una sorta di tettoia mobile lignea) e altre strumentazioni per potersi avvicinare alle mura senza subire troppo danni.
Gli abitanti di Pometia non sono disposti ad arrendersi tanto facilmente e “mossi ormai più dall’odio implacabile che da una qualche speranza reale o circostanza favorevole”, lanciano una violenta sortita contro i Romani: le vinee vengono incendiate, molti soldati romani restano uccisi o feriti e persino uno dei due consoli, anche se non sappiamo quale, viene sbalzato da cavallo e quasi ucciso.
I Romani tornano in patria, ma ora sono decisi più che mai a farla finita con Pometia. Passato il tempo necessario a riprendersi dalla sconfitta e a rimpolpare i ranghi, e anzi dopo aver radunato un esercito più grande, i Romani tornano all’attacco e costringono il nemico alla resa.
Tuttavia il fatto che Pometia si sia arresa non le risparmia un destino atroce: i capi vengono decapitati, gli abitanti venduti come schiavi, la città rasa al suolo e il suo terreno venduto all’asta.
L’ultima notizia di Pometia si ha teoricamente nel 495 a.C. ma, considerate le similitudini con la narrazione dei fatti del 502 a.C. (e che si conclude con una nuova e definitiva distruzione dell’insediamento), è assai probabile che Tito Livio, forse a causa delle fonti da lui consultate, abbia scorporato in due conflitti quello che in realtà è stato un unico episodio bellico.
Fonti
Tito Livio, Ab Urbe condita
