Come è noto, dal IV secolo in poi, anche se non in modo così repentino come spesso reputiamo, l’esercito romano va incontro a diversi cambiamenti e innovazioni, e questo vale naturalmente anche per quanto concerne l’armamento.
Anche se la fanteria legionaria, pur usando ora più diffusamente la lancia, mantiene l’utilizzo di un giavellotto pesante (lo 𝘴𝘱𝘪𝘤𝘶𝘭𝘶𝘮), nel IV secolo fa la sua comparsa una nuova arma da lancio, che accompagna i soldati romani almeno fino al VII sec.: la 𝘱𝘭𝘶𝘮𝘣𝘢𝘵𝘢.
[Leggi anche Il pilum. Da giavellotto etrusco ad arma romana per antonomasia]
Si tratta di un piccolo dardo, munito di un peso di piombo (da qui il nome), con una punta in ferro di solito barbigliata e un impennaggio che stabilizza l’arma durante il volo.
Un nome alternativo della 𝘱𝘭𝘶𝘮𝘣𝘢𝘵𝘢, riportato per esempio in Vegezio (V sec.) e lo Strategikon dell’imperatore Maurizio (VI-VII sec.) è 𝘮𝘢𝘳𝘵𝘪𝘰𝘣𝘢𝘳𝘣𝘶𝘭𝘶𝘮, che letteralmente significherebbe “barbette di Marte”.
L’origine di quest’arma, per la quale abbiamo diversi reperti delle componenti metalliche, è purtroppo ignota.
Nelle cronache antiche è un’arma che sembra non comparire mai, ma che ha al contrario un ampio posto nella trattatistica militare tardo antica.
Come accennato, Vegezio e lo Strategikon menzionano quest’arma. Il primo indica che i fanti pesanti dovrebbero portarne cinque nella parte interna dello scudo, mentre il secondo le prescrive sia per la fanteria leggera che pesante, e da portarsi in una sacca a tracolla.

Vegezio menziona inoltre che, nel periodo tetrarchico, in particolare due legioni illiriche erano particolarmente abili nell’utilizzo di quest’arma, tanto da essere favorite Da Diocleziano e Massimiano ad altre unità – si tratta degli Ioviani e degli Herculiani.
Per un certo periodo, la 𝘱𝘭𝘶𝘮𝘣𝘢𝘵𝘢 fa anche la sua comparsa in alcune emissioni monetali, tenuta in mano per esempio da Massenzio. Segno della probabile importanza e peculiarità di quest’arma.
Un altro autore che si spende nel parlare della 𝘱𝘭𝘶𝘮𝘣𝘢𝘵𝘢 è l’anonimo compositore del 𝘋𝘦 𝘙𝘦𝘣𝘶𝘴 𝘉𝘦𝘭𝘭𝘪𝘤𝘪𝘴, che descrive ben due tipi di 𝘱𝘭𝘶𝘮𝘣𝘢𝘵𝘢: quella 𝘮𝘢𝘮𝘪𝘭𝘭𝘢𝘵𝘢, ovvero quella corrispondente al tipo più comune, e quella 𝘵𝘳𝘪𝘣𝘰𝘭𝘢𝘵𝘢, dotata di tre aculei metallici sporgenti dal peso in piombo. Di quest’ultimo tipo, tuttavia, non esistono reperti.
L’esatta sequenza di lancio della 𝘱𝘭𝘶𝘮𝘣𝘢𝘵𝘢 non è nota, e da prove sperimentali sappiamo solo che è possibile scagliarla sia sottomano che sopramano.
Sempre le prove sperimentali dimostrano che, scagliata, una 𝘱𝘭𝘶𝘮𝘣𝘢𝘵𝘢 può toccare diverse gittate, a seconda del peso e della lunghezza della parte in legno – le 𝘱𝘭𝘶𝘮𝘣𝘢𝘵𝘢𝘦 più pesanti, se l’asta è adeguatamente corta, possono arrivare fino ai 70-80 metri e avere ancora un discreto effetto penetrante.
Anche se le fonti cronachistiche non descrivono chiaramente l’uso della 𝘱𝘭𝘶𝘮𝘣𝘢𝘵𝘢, lo sintetizza molto bene Vegezio: “In questo modo colpiscono uomini e cavalli da lontano, non solo prima di venire al corpo a corpo, ma anche prima ancora di giungere a tiro dei giavellotti […]”.
La 𝘱𝘭𝘶𝘮𝘣𝘢𝘵𝘢 ha insomma la funzione di scardinare le formazioni nemiche da una distanza davvero molto ragguardevole e di farle arrivare a tiro dei giavellotti, e poi a contatto con la linea della fanteria, già scompaginata e possibilmente decimata.
Dopo il VII secolo, almeno da quanto possiamo ricostruire, questa peculiare arma romana scompare senza lasciare molte tracce, dopo aver accompagnato per tre secoli i soldati romani.
Lettura consigliata
G. Cascarino 2009, “L’esercito romano. Armamento e organizzazione. Vol III.”
G. Cascarino 2012, “L’esercito romano. Armamento e organizzazione. Vol IV.”

One thought on “La plumbata. Un’arma da lancio tardo antica.”