Bene o male, è una nozione comune che i Romani dell’età classica (in particolare il periodo della Repubblica e del Principato) non avessero una cavalleria propriamente detta, né una grande dimestichezza con questa specialità, affidandola quasi sempre ad alleati e forze ausiliarie.
Tuttavia, questa visione è in realtà piuttosto semplificata.
I Romani infatti hanno avuto per lungo tempo anche una tradizione militare equestre di discreta rilevanza, che vede proprio i Quiriti come guerrieri montati.
Il primo nucleo della cavalleria romana propriamente detta è quello mitico dei 𝘊𝘦𝘭𝘦𝘳𝘦𝘴 di Romolo: 300 uomini a cavallo col compito di guardia reale, 100 da ognuna delle tribù originarie.
Si tratta di guerrieri di élite, reclutati in seno ai gruppi gentilizi. Ciò non deve stupire, poiché possedere un cavallo è un simbolo di status sociale molto importante, che richiede ingenti risorse.
Il numero di 300 cavalieri resterà, per secoli, quello dei cavalieri romani cittadini aggregati a ogni singola legione.
Anche se l’origine effettiva di questa prima cavalleria è avvolta nella nebbia del racconto tradizionale, è indicativo come nell’Italia dell’VIII sec. a.C. (in particolare in senso alla cultura villanoviana) si assista effettivamente, a livello archeologico e iconografico, al diffondersi di pezzi dei finimenti nelle tombe e di raffigurazioni di guerrieri montati.
Secondo la tradizione antica, Tarquinio Prisco prova a istituire di nuovo i 𝘊𝘦𝘭𝘦𝘳𝘦𝘴 tra VI e VII sec. a.C. (erano stati aboliti da Numa Pompilio), ma per via dell’opposizione interna si limiterà a raddoppiare l’effettivo dei cavalieri già esistenti.
Con la riforma serviana (almeno tradizionalmente), la cavalleria cittadina romana è aumentata di 18 centurie, portandola a 2400 uomini, ed è reclutata in toto dalla prima classe, ovvero dai cittadini più agiati e con la ricchezza necessaria a procurarsi un equipaggiamento completo.
Il cavallo era fornito dallo Stato, che lo finanzia con una tassa detta 𝘢𝘦𝘴 𝘦𝘲𝘶𝘦𝘴𝘵𝘳𝘦, e i cavalieri erano noti come 𝘦𝘲𝘶𝘪𝘵𝘦𝘴 𝘙𝘰𝘮𝘢𝘯𝘪 𝘦𝘲𝘶𝘰 𝘱𝘶𝘣𝘭𝘪𝘤𝘰.
Per il periodo che va dal VI al IV sec. a.C., è ancora oggi diffusa la nozione che gli 𝘦𝘲𝘶𝘪𝘵𝘦𝘴 della prima classe combattano in realtà più come “opliti montati”, che come vera e propria forza di cavalleria.

Ora, se è vero che a volte i cavalieri romani, per ragioni tattiche che possano dare loro vantaggio, a volte smontano per combattere a piedi (questo succede ancora molto più tardi, ad esempio durante la battaglia di Canne del 216 a.C.), ciò non significa che tout-court la cavalleria romana fosse in realtà fanteria montata.
Anzi: le narrazioni delle battaglie del periodo dal VI al IV sec. a.C. non solo vedono un uso attivo della cavalleria propriamente detta, ma le descrizioni delle manovre fatte dagli 𝘦𝘲𝘶𝘪𝘵𝘦𝘴 romani, particolarmente in Livio, sono del tutto incoerenti con quelle di una fanteria montata, o di un combattimento tra fanti.
Ad esempio, gli 𝘦𝘲𝘶𝘪𝘵𝘦𝘴 lanciano i primi assalti, fungendo da schermo al resto dell’esercito; si ritirano in mezzo al resto dei fanti, per poi passare a possibili manovre accerchianti; infine, si lanciano all’inseguimento del nemico in fuga.
Queste sono manovre proprie di una vera cavalleria.
Anche la nozione che una cavalleria romana si sviluppi solo a partire dalle guerre sannitiche (IV-III sec. a.C.) è certamente errata. Infatti è sì riportato nel famoso 𝘐𝘯𝘦𝘥𝘪𝘵𝘶𝘮 𝘝𝘢𝘵𝘪𝘤𝘢𝘯𝘶𝘮, ma quest’ultimo contiene una serie di affermazioni che sono state in buona parte scardinate dal dato archeologico.
Nel periodo medio repubblicano, la cavalleria propriamente romana resta composta dall’aristocrazia cittadina e dalla plebe abbiente.
A differenza di altre cavallerie coeve, come quelle del Sud Italia e tarantina, la cavalleria romana esprime al meglio le sue capacità con il combattimento corpo a corpo e lo scontro frontale.
Come nel caso del legionario di fanteria, anche nella cavalleria esiste una forte componente individuale, pur inserita in un organismo collettivo, che punta allo sfoggio di coraggio e 𝘷𝘪𝘳𝘵𝘶𝘴 marziale.
Anche per questo motivo, il cambio di tattiche dettato da Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore durante la Seconda Guerra Punica è un duro colpo da digerire per i cavalieri romani. Dallo scontro frontale, si passa a tattiche di guerriglia, ricognizione e scaramucce.
Tale riforma trova maggior peso nel II sec. a.C., periodo nel quale le narrazioni di battaglie antiche confermano che l’urto frontale da parte delle cavallerie romane sembra non essere più la tattica prevalente in combattimento.
La crisi definitiva della cavalleria romana, nonché delle cavallerie italiche, avviene nel I sec. a.C., con la necessità di affrontare, e di conseguenza reclutare, cavallerie sempre più specializzate ed efficaci – in modo particolare quelle numidiche, iberiche e galliche.
Le proporzioni di cavalieri romani e italici in seno agli eserciti romani si fanno sempre più basse.
Il risultato di tale cambiamento finale è visibile appieno tra la fine del I sec. a.C. e il I sec. d.C.
Nel I sec. d.C., prima di sparire dalle fonti, gli 𝘦𝘲𝘶𝘪𝘵𝘦𝘴 𝘭𝘦𝘨𝘪𝘰𝘯𝘪𝘴 sono ormai solo fanti promossi per merito, e secondo Flavio Giuseppe sono solo 120 per legione.
Per assistere a un ritorno di una cavalleria romana propriamente detta, non più solo originaria di Roma e dell’Italia, bisognerà attendere la metà del III e soprattutto il IV sec. d.C.
Letture consigliate (clicca sul link per acquistare il libro)
M. Petitjean 2018, La cavalleria nel mondo antico