Nel corso della Storia romana, tanto il latino, lingua ancestrale dei Romani, quanto il greco, lingua dell’Oriente ellenistico, sono le due lingue più parlate (anche se non le uniche) del mondo romano.
Una coesistenza che porta anche alcuni autori antichi romani a parlare delle “nostre due lingue”.
Il latino resta la lingua dell’amministrazione anche in Oriente fino al VI-VII secolo, seppur sempre affiancata dal greco, e moltissimi vocaboli e modi di dire derivati dal latino (specie in ambito legislativo e militare) entrano nel greco corrente parlato nelle province orientali, che si può definire sempre più un greco piuttosto “latinizzato”.
Il latino è infatti una lingua conosciuta anche nelle regioni orientali, tanto che diversi letterati e colti originari di queste zone scrivono o insegnano latino (si pensi ad autori come Ammiano Marcellino e Corippo).
Tra VI e VII secolo, con la perdita delle province occidentali e di gran parte dei sudditi di lingua latina, il greco acquisisce un’importanza sempre più rilevante, tanto da avere profonde ripercussioni sull’uso del latino anche nelle più alte sfere.
Il processo si può iniziare a rintracciare nelle fonti a partire dal periodo giustinianeo. Giovanni Lido, autore dell’Asia Minore che scrive in greco ma che ha una cattedra di insegnamento del latino a Costantinopoli sotto Giustiniano, lamenta che l’amministrazione dell’impero è sempre più condotta in greco e non nella “lingua ancestrale” dei Romani.
Una nozione che Giustiniano stesso, uomo latinofono di nascita, conosce bene, e che giustifica in modo pragmatico e realistico quando inizia a emanare le Novelle non più in due lingue, ma solo in greco: è diventato la lingua usata dalla maggior parte dei suoi sudditi.
Ben noto è anche come l’imperatore Eraclio (610-641) abbia ufficializzato l’uso del greco anche come lingua di corte, ponendo fine a quello che in alcune generazioni era diventato un uso piuttosto artificioso del latino.
Questo processo non significa che il latino fosse disconosciuto come lingua dei Romani, tutt’altro. In tutti i maggiori autori del VI e VII secolo, il latino è infatti sempre chiamato lingua “patria” o lingua “ancestrale” dei Romani.
In più, nelle province occidentali riconquistate da Giustiniano, sarà sempre affiancato al greco.

Tuttavia, col passare del tempo il latino viene sempre meno usato. E anche in questo caso, i Romani ne erano piuttosto consapevoli.
Lo stesso imperatore Costantino VII Porfirogenito scrive che i regnanti dopo Eraclio “ellenizzarono [usarono il greco] sempre di più, fino a mettere da parte la loro ancestrale lingua romana [i.e. il latino]”
Come è naturale che sia, la maggior parte degli abitanti dell’impero non è davvero interessata a questa distinzione, ormai sottile, tra la loro lingua corrente e la lingua patria, ancestrale.
Ed è così che, entro la metà del XIII secolo, la “lingua dei Romani” (𝘳𝘩𝘰𝘮𝘢𝘪𝘬𝘢̀ ) diventa effettivamente…il greco.
O per meglio dire, l’evoluzione di quel greco latinizzato, una lingua “volgare” distante dal greco raffinato e letterario delle fonti scritte, di cui si accennava all’inizio.
E ciò è perfettamente comprensibile. Gli abitanti dell’impero sono romani, per cui il “romano”, ovvero ormai solo il greco, è la loro lingua.
Questo è anche confermato da quelle fonti straniere (sia dei Latini che degli Ottomani) durante il Medioevo, che chiamano “𝘳𝘩𝘰𝘮𝘢𝘪𝘬𝘢̀ ” la lingua degli abitanti dell’impero, distinguendola dalla lingua scritta e raffinata dei letterati colti.
Quello che noi chiamiamo greco, è ormai conosciuto a tutti i livelli (e già almeno dal X secolo) come “la lingua dei Romani”.
Il che naturalmente può creare, negli ultimi secoli di vita dell’impero romano, alcune situazioni particolari, che agli occhi di noi moderni, non abituati a pensare in questi termini, risultano paradossali o almeno bizzarre.
Ne è un esempio la traduzione della novella “Storia di Apollonio, re di Tiro”, testo dalla Storia travagliata di origine antica (II-III sec.) ma estremamente popolare e fortunato solo nel Medioevo.
La versione che giunge nell’impero durante il periodo medievale è una versione tradotta, curiosamente per noi, “dal latino al romano”.
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A. Kaldellis 2019, Romanland
Una domanda che c’entra relativamente con questo articolo: mio zio (un grande appassionato di storia) mi raccontò che Giulio Cesare, diversamente dai suoi coetanei di buona famiglia, non studiò l’etrusco ma il gallico e che questo gli fu poi molto utile nella futura campagna.
Ho più volte provato a cercare conferma per questa affermazione ma non ne ho mai trovato traccia: a lei risulta niente? Magari in qualche autore antico come Plutarco…
Grazie 1000 e mi scusi per la domanda un po’ fuori tema!
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Grazie per la domanda! Sull’argomento specifico non so molto, e sul tema non ricordo questa cosa a essere onesto…ma proverò a cercare. Se c’è qualcosa, una delle fonti primarie sarebbe senz’altro il De Bello Gallico.
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Grazie per la risposta! 😉
In effetti se non si trattasse di mio zio (aveva una memoria eccezionale) inizierei a pensare a una bufala. Ma io credo che prima o poi mi imbatterò in qualche notizia utile. Per adesso accolgo il suo suggerimento e vado a cercare il De Bello Gallico…
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Very interesting, thank you!
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