La conquista della Magna Grecia. (4) La battaglia di Maleventum e la fine della guerra (275 a.C.)

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Dopo i magri successi nella penisola italica e il faticoso e inutile pareggio di Ascoli Satriano, senza riuscire a scalzare Roma dalle sue posizioni né dalle sue mire verso la Magna Grecia, Pirro decide di rispondere alla richiesta di aiuto delle città greche di Sicilia.
Aveva ricevuto anche una richiesta di aiuto dalla Macedonia, il cui re Tolomeo Cerauno era morto in battaglia contro i Galli. Seppure i Macedoni gli offrivano addirittura un trono, Pirro optò per la Sicilia, poiché pensava potesse dargli maggiori opportunità.

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Come le città magnogreche prima di loro, le città siceliote volevano garantirsi la libertà contro una potenza esterna, Cartagine, le cui mire espansionistiche in Sicilia mai si erano sopite.

Giunto in Sicilia, Pirro usò lo stesso modus operandi e la stessa energia utilizzati con i Tarantini, imponendo la sua rigidità e determinazione.
Anche sull’isola, tuttavia, il sovrano epirota non poteva dirsi del tutto al sicuro dall’Urbe.

Roma, ben pagata da Cartagine, non ratificò in Senato il trattato di pace stipulato da Pirro con il console Gaio Fabricio.
Tale trattato dava già a Roma la strada libera per riaffermare la sua autorità sui popoli italici dei Sanniti, Bruzi e Lucani, nonché su diverse città greche quali Crotone e Locri, pur se con la simbolica presenza di guarnigioni lasciate da Pirro.
Senza la ratifica, che prevedeva anche la pace, il re dell’Epiro avrebbe dovuto proteggere i suoi interessi su due fronti lontani tra loro.

Non mancarono neppure i problemi interni.

La falange pronta all’azione, ricostruita dal gruppo Symmachia Ellenon.
Ph. Martina Cammerata Photography

Il sovrano infatti diventò una sorta di sorvegliato speciale da parte delle stesse città siceliote, che iniziarono a mal sopportarne il dominio: pur avendo il re ottenuto dei successi iniziali, le città siceliote non ne vollero sapere di trattare con Cartagine.
Inoltre, mal sopportando un dominio esterno come tutte le città greche, ben presto si rifiutarono di fornire aiuti militari e finanziari al re epirota.
Quest’ultimo si trovò quindi costretto ad esigerli forzosamente, giocandosi così definitivamente la fiducia dei Greci di Sicilia.

Nel giro di pochi anni, con risultati nel complesso scarsi anche sull’isola e con un esercito sempre più indisciplinato e malpagato, e alla notizia che tutto il Meridione era stato conquistato dai Romani a eccezione di Taranto, Pirro si vide costretto a rimettere i piedi sul suolo italico nella primavera del 275 a.C., lasciando che Sicelioti e Cartaginesi se la vedessero tra loro.

Pirro non era più lo stesso, sempre più consapevole di un concreto fallimento dei suoi desideri di costituire in Italia un suo regno.
Aveva pensato di trovarsi ad affrontare popoli barbari, facilmente domabili. Invece aveva avuto a scontrarsi con un popolo, i Romani, che si era mostrato tutt’altro che docile e che in un misto di doti diplomatiche, politiche, militari, strategiche era riuscito a rivaleggiare sullo stesso piano del sovrano orientale.

Nella mente del re dell’Epiro, però, la partita con l’Urbe era ancora aperta.
Pirro decise così di arrivare all’ennesimo scontro con i Quiriti.

Tornato con difficoltà in Italia (la sua flotta venne distrutta da quella cartaginese nello stretto di Messina), arruolò in tutta fretta un esercito tra i Tarantini.
Dopo aver rafforzato il suo esercito – 23.000 uomini, di cui circa 3.000 cavalieri, e gli elefanti rimasti –, si mise in marcia verso nord, per attaccare battaglia.

I consoli per l’anno 275 a.C. erano Lucio Cornelio Lentulo e Manio Curio Dentato, quest’ultimo console per la terza volta, vincitore della terza guerra sannitica e fautore della fondazione della colonia di Senigallia, dopo aver battuto i Galli Senoni.

I due ricevettero il comando delle truppe impegnate rispettivamente in Lucania e nel Sannio.

Alla notizia dell’avanzata di Pirro verso il Sannio i due consoli decisero di presidiare le vie per Roma: Lentulo quella centrale, Dentato quella più orientale, presso la città di Maleventum.

Il re dell’Epiro divise le sue forze, inviando un grosso distaccamento a intercettare Lentulo per impedirgli di raggiungere il collega Dentato.
Quest’ultimo avrebbe dovuto affrontare il resto dell’esercito epirota (circa 20.000 fanti e 3.000 cavalieri) con le sue sole legioni, per un totale di 17.000 fanti e 1.200 cavalieri. A suo vantaggio, il console poteva contare su una posizione favorevole, trovandosi su un’altura.

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La battaglia di Maleventum

Secondo Plutarco, Dentato prese tempo prima di ingaggiare battaglia, sia nella speranza di potersi congiungere presto con Lentulo, sia perché gli auspici sull’esito dello scontro erano infausti.

L’atteggiamento apparentemente intimorito dei Romani spinse all’azione Pirro, che non aveva alcuna intenzione di aspettare, pensando di poter chiudere definitivamente la partita con l’Urbe.

Contrariamente al suo grande esempio, Alessandro Magno, che odiava attaccare di notte, Pirro decise di sfruttare il buio per portarsi in prossimità dell’accampamento romano.

Consapevole delle difficoltà di una marcia notturna, Pirro optò per portare con sé solo i migliori soldati del suo esercito e parte degli elefanti.
Il resto delle truppe sarebbe avanzato in pianura, affinché fosse avvistato dai romani all’alba.

Fu una scelta decisamente poco avveduta.

Come sintetizza Dionigi di Alicarnasso: “era inevitabile che i fanti pesanti, gravati da elmi, corazze e scudi e facendo la marcia per colline e sentieri non battuti da uomini, ma da capre, attraverso boscaglie e dirupi, non fossero in grado di mantenere l’ordine e fossero spossati per la sete e la fatica prima ancora che spuntassero i nemici”.

L’avanguardia epirota camminò talmente a lungo da fare spegnere le torce: gli uomini si dispersero.
Al sorgere del sole erano ancora sulle colline, ben visibili ai Romani e lontani dal resto dei compagni giù nella pianura.

Dentato colse subito l’occasione e fece uscire i suoi legionari dal campo fortificato, lanciandoli in battaglia (o meglio, in una caccia all’uomo e all’elefante) e avendo velocemente ragione dell’avanguardia, che batté in ritirata per cercare di unirsi al grosso dell’esercito.

Le sorti della battaglia erano tuttavia ben lontane dall’essere già decise.
Scendendo dalle alture, i Romani avanzarono nella pianura probabilmente in modo non molto compatto, trovando il grosso degli Epiroti e la loro falange.

Moderna ricostruzione dello scontro tra la falange ellenistica e i legionari romani, a opera dei gruppi Symmachia Ellenon e Decima Legio.
Ph. Martina Cammerata Photography

Le fonti sono alquanto scarse sullo svolgimento della battaglia, e non permettono una ricostruzione precisa dei fatti.

Anche in questo caso però siamo piuttosto sicuri che il fattore determinante sia nuovamente stato l’utilizzo degli elefanti e il loro successivo comportamento.

Plutarco ci dice che fra fanti epiroti e fanti romani fossero questi ultimi a prevalere, mentre dove erano posizionati gli elefanti erano questi che avanzavano costringendo i Romani a indietreggiare.
Ciò avveniva verosimilmente sulle ali, dove c’era più spazio per caricare, anche se una fonte più tarda, Orosio, posiziona i pachidermi in retroguardia.

Che fosse per pressione degli elefanti o per un ripiegamento tattico preventivato da Dentato, l’esercito di Pirro si avvicinò pericolosamente al campo romano, affrontando sia i legionari fuori che quelli al suo interno, subendo un intenso lancio di pila dagli spalti.

I bersagli maggiormente ricercati erano i conducenti degli elefanti e gli uomini nelle torrette. Da quanto scrive Orosio furono usati “ordigni incendiari avvolti di stoppa, spalmati di pece e muniti di resistenti uncini…, li incendiavano e li scagliavano sul dorso delle bestie e all’interno delle torricelle”, recuperando in sostanza gli stessi mezzi utilizzati qualche anno prima ad Ascoli Satriano.

I pachidermi, feriti, ustionati o senza guida, finirono per perdere il controllo e si gettarono tra le fila epirote, seminando il panico tra i soldati.
Due elefanti rimasero uccisi, mentre altri otto furono consegnati dalle loro stesse guide ai legionari.

Pirro fu costretto a sganciarsi dallo scontro, anche per evitare di subire il movimento a tenaglia dei Romani. Lentulo, che doveva aver avuto la meglio o aggirato il contingente inviato contro di lui, era ormai prossimo al campo di battaglia.

Questa volta non era stata una mezza vittoria né un pareggio, ma una vittoria molto netta a favore dell’Urbe.
Tanto netta che Roma, come segno fausto, secondo la tradizione avrebbe deciso di cambiare il nome Maleventum in “Beneventum”.

La fine di Pirro e la conquista della Magna Grecia

Nella mente Pirro, costretto a leccarsi le ferite, preso dallo sconforto per il fallimento totale della sua avventura nella penisola italica, si era ormai fatto strada il pensiero di lasciare definitivamente l’Italia.

Il re si ritirò a Taranto e da qui si imbarcò verso la Macedonia, lasciando una guarnigione al comando del figlio: un gesto per salvare le apparenze, una falsa promessa di ritorno ai Tarantini.

Il sovrano non tornerà mai più in Italia, lanciandosi in altre, infruttuose imprese.

Riuscì a conquistare gran parte del regno di Macedonia, ma si trattò di una conquista effimera.

Il suo spirito irrequieto anelava a nuove avventure. Si ritrovò così nel Peloponneso, prima ad assaltare Sparta nel 272 a.C., su richiesta di un suo generale che aveva rivendicato il trono della città, e poi la città di Argo.

Quest’ultima avventura gli fu fatale.
Espugnata la città, una vecchia affacciatosi dalla propria casa avrebbe visto il re combattere contro il proprio figlio. Staccata una tegola, la lancia addosso a Pirro, colpendolo alla base del collo, proprio sotto l’elmo, spezzandogli le vertebre.

Ritratto di epoca romana di Pirro, conservato al museo nazionale di Napoli.

Finisce così l’epopea di questo valoroso ma per certi versi inconcludente condottiero, considerato in Oriente quasi alla stessa stregua del grande Alessandro.

L’Urbe uscì dalla guerra con Pirro totalmente rafforzata. La sua influenza e autorità sulle terre del Meridione e sui popoli che vi abitano erano ormai indiscusse.

Anche la grande e tenace Taranto cadde, tre anni dopo la partenza di Pirro, con l’assedio portato a termine dal console Papirio Cursore il Giovane. Fu la stessa guarnigione lasciata da Pirro a consegnare la città ai Romani.

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Caduta Taranto, l’intera Magna Grecia passò sotto il controllo di Roma. Le città magnogreche furono considerato socii privilegiati.

Il prestigio di Roma ne uscì più che rafforzato, affacciandosi sul Mediterraneo come la vera nuova, grande potenza.

Nel giro di pochi anni, l’Urbe sarebbe presto entrata in conflitto con l’altra, grande potenza del Mediterraneo occidentale: Cartagine.

Bibliografia

Fonti

Cicerone, Tuscolanae Disputationes

Cassio Dione, Storia romana

Diodoro Siculo, Biblioteca storica

Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane

Orosio, Contro i pagani

Plutarco, Vite Parallele

Tito Livio, Ab Urbe Condita

Studi moderni

G. Brizzi 2002, Il guerriero, l’oplita, il legionario. Gli eserciti nel mondo classico

P. Connolly 1998, Greece and Rome at war

A. Frediani 2012, Le grandi battaglie tra Greci e Romani. Falange contro legione

L. Zerbini 2015, Le grandi battaglie dell’esercito romano


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