La conquista della Magna Grecia. (1) Il conflitto con Taranto

Nel III sec. a.C., la Repubblica romana entrava in una nuova fase della sua espansione.

Durante i tre secoli precedenti, Roma aveva preso il controllo dell’area laziale, respinto il pericolo rappresentato dalle popolazioni galliche a Nord, stipulato accordi con Etruschi e Latini, aveva avuto ragione dei Sanniti in più campagne militari.
La sfera di dominio dell’Urbe si era allargata all’intera Italia centrale e parte dell’Italia meridionale.

Toccava ora alla Magna Grecia, ossia al più estremo settore meridionale della Penisola, entrare negli obiettivi espansionistici di Roma.

La spinta verso Sud

La fondazione di colonie di diritto latino, la deduzione di colonie romane e la costruzione della via Appia rendono palesi quali fossero le intenzioni politiche e militari di Roma verso il Sud.

L’interesse per il dominio territoriale non era una semplice prerogativa di alcune famiglie aristocratiche, tra cui la gens Claudia, ma investiva trasversalmente tutto il mondo politico romano, tanto il Senato quanto la plebe.

A sollecitare l’avanzata verso sud erano interessi di tipo economico e culturale.
A questi propositi espansionistici romani si oppone la direttamente interessata civiltà magnogreca, con il suo alto livello di organizzazione militare, politica e culturale.

Principali luoghi e popoli menzionati nell’articolo. Si noti come la via Appia, in questo periodo, giungeva solo fino a Capua.

Roma attuò la strategia a lei molto congeniale del “dividi e impera”: rompere i legami di solidarietà tra popoli diversi o tra città, in modo tale da indebolire le capacità di resistenza dei nemici.
A tale fine erano state dedotte delle colonie in terra straniera (Luceria nel 315-314 a.C., Venusia nel 291 a.C.) ed era stata fatta avanzare verso meridione la via Appia.

È possibile affermare con sicurezza che dal punto di vista commerciale, contatti fra Roma e Magna Grecia vi erano stati già da parecchio tempo, anche se non strutturati e non tali da influenzare le scelte politiche del Senato.
Tuttavia, col tempo divennero sempre più importanti e consistenti, tanto da muovere una cospicua fetta dell’economia romana. Non è probabilmente un caso se, sul finire del IV secolo a.C., iniziano a circolare monete romano-campane.

Le vicende fortunate di Roma tra la fine del IV e l’inizio del III sec. a.C. (estensione dei confini e dell’egemonia, sviluppo economico forte, aumento demografico) e le richieste di nuove terre da coltivare da parte della plebe determinano una nuova spinta espansionistica, appunto verso il meridione della penisola italica.

Roma e Taranto: sfida per l’egemonia

L’Italia meridionale era stata per alcuni secoli sotto la netta influenza delle colonie greche della Magna Grecia, ma a partire dalla seconda metà del IV secolo a.C., era iniziato un lento declino sotto i continui attacchi delle popolazioni italiche dei Bruzi e Lucani.

Mentre era impegnata con i Sanniti, la Repubblica non aveva mai avuto una posizione decisa nei confronti dei popoli più meridionali, come appunto i Lucani limitandosi ad appoggiarli o meno a seconda della convenienza del momento.
L’obiettivo finale sarebbe stato far entrare i Lucani nell’orbita di controllo di Roma, ma il tutto sarebbe successo senza particolare fretta.

Le città magnogreche più meridionali, tra cui la più importante era Taranto (colonia dorica la cui madrepatria era Sparta), erano state più volte costrette ad assoldare mercenari, provenienti tanto dalle “città madri” quanto da altre città e colonie magnogreche, per difendersi dagli attacchi dalle popolazioni italiche che la fine del V secolo a.C., in particolare sotto la federazione dei Lucani, si erano espanse fino alle coste del Mar Ionio.

Nel corso di queste guerre, Taranto aveva stipulato un primo trattato con Roma, secondo il quale alle navi romane non era concesso di superare a Oriente il promontorio Lacinio (oggi capo Colonna, presso Crotone).
Questo trattato doveva evidentemente tutelare gli interessi di Taranto, intenzionata a conquistare i territori dell’Apulia settentrionale, e al contempo frenare l’espansionismo di Roma, alleatasi con Napoli nel 327 a.C. e che aveva fondato la colonia romana di Luceria nel 314 a.C.

Taranto, oltre a modificare nel corso dei secoli i suoi stili di combattimento, facendo del fulcro dei suoi eserciti la celebre cavalleria tarantina, assoldò a più riprese truppe e condottieri, ottenendo risultati alterni contro la lega capeggiata dai Lucani.

L’ennesimo generale assoldato da Taranto, Agatocle di Siracusa, aveva portato di nuovo l’ordine nella regione con la vittoriosa guerra contro i Bruzi (298-295 a.C.).

Ricostruzione 3D di (e lezione su) Taranto in età antica. Dal canale di flipped prof

Ma la fiducia dei Greci delle piccole città dell’Italia meridionale nei confronti di Taranto e Siracusa stava iniziando a vacillare.
Le poleis magnogreche iniziavano a guardare a Roma, vedendo in essa uno straordinario bagaglio di doti, costituito da abilità militare, capacità diplomatiche, tenacia e lungimiranza.

L’occasione per Roma di porsi come scudo delle città magnogreche arrivò presto.

Morto Agatocle nel 289 a.C., i Lucani devastarono il territorio della città greca di Thurii, alleata di Roma.
Gli abitanti della città, sfiduciati per i risultati dei mercenari chiamati in Italia da Taranto, si appellarono a Roma, inviando due ambascerie per chiedere aiuto: una nel 285 a.C., la seconda nel 282 a.C.
Solo a seguito del secondo incontro, Roma inviò il console Gaio Fabricio Luscino il quale, posta una guarnigione a Thurii, avanzò contro i Lucani, sconfiggendoli.

A seguito di questo successo, anche le città di Reggio, Locri e Crotone chiesero di mettersi sotto la protezione di Roma.
L’Urbe inviò così una guarnigione di 4.000 uomini a presidio di Reggio.

Taranto non prese affatto bene l’atteggiamento di Thurii e lo sviluppo degli eventi, considerandoli una forte minaccia alla sua supremazia.

L’aiuto accordato da Roma a Thurii, infatti, venne visto dai Tarantini come un atto compiuto in violazione dell’accordo che la stessa Taranto e Roma avevano firmato tanti anni prima.

Anche se le operazioni militari romane erano state compiute sulla terraferma e non per mare, Thurii gravitava pur sempre sul golfo di Taranto, a nord della linea di demarcazione stabilita presso il capo Lacinio.

Taranto temeva ormai concretamente che il suo ruolo di preminenza nei confronti delle altre città italiche venisse meno.

La provocazione di Taranto

Nel 282 a.C., Roma inviò una flotta di dieci navi a stazionare davanti al porto di Taranto.
Non si sa di preciso la motivazione: se in aiuto del console Fabricio Luscino, ancora impegnato nel Meridione, o se per raggiungere le nuove colonie fondate sulla costa adriatica.

I Tarantini stavano celebrando le festività in onore di Dioniso, in un teatro affacciato sul mare. In preda all’ebbrezza, scorte le navi romane, credono di essere attaccati e decisero di passare all’azione.
Quattro navi romane vennero affondate e una catturata, mentre le altre cinque riuscirono a disimpegnarsi e fuggire.
Tra i Romani catturati dai Tarantini, alcuni vennero imprigionati, altri mandati a morte.

La violenza dell’attacco, più che per rappresaglia per aver violato il divieto di navigare a est del promontorio Lacinio, lascia trasparire il malumore per l’ingerenza romana nei territori della Magna Grecia (tanto più che, con la fondazione delle colonie sull’Adriatico da parte dell’Urbe, il trattato poteva considerarsi superato).

D’altra parte ogni dubbio sui motivi dell’attacco cadde quando i Tarantini, convinti dell’atteggiamento ostile di Roma, marciarono contro Thurii. La città venne presa d’assalto e saccheggiata, la guarnigione romana cacciata, assieme agli esponenti dell’aristocrazia locale.

Roma non ricorse subito alle armi.

Il Senato si spaccò tra chi voleva liquidare al più presto la questione tarantina e chi era contrario all’espansionismo estremo nel Meridione.
Prevalse infine la linea più pacifista. Si tentò così la strada della diplomazia.

Furono inviati ambasciatori a chiedere la liberazione di coloro che erano stati fatti prigionieri, il rimpatrio dei cittadini aristocratici espulsi da Thurii e la restituzione dei beni a loro depredati, nonché la consegna dei responsabili dell’attacco alle navi romane.

A risvegliare lo spirito vendicativo dei Quiriti ci pensarono gli stessi Tarantini.

A quanto pare, questi ultimi ascoltarono distrattamente il discorso del capo degli ambasciatori, attenti invece a scovare errori nella lingua greca parlata dai Romani.
Non contenti, ricoprirono i Romani di insulti e scherni.
Si oltrepassò il limite quando un uomo chiamato Filonide, in preda all’ubriachezza, si sollevò la veste e urinò sulla toga degli ambasciatori, con l’intento di oltraggiarli.

Un simile atto ledeva il diritto all’inviolabilità degli ambasciatori. Postumio, uno degli emissari romani, reagì tentando di suscitare lo sdegno dei Tarantini verso il concittadino, ma invano.
Anzi, i Tarantini sembrarono aver apprezzato l’atto di Filonide.

Secondo Appiano di Alessandria, Postumio inveì promettendo loro che Roma avrebbe pulito con il sangue la toga sporcata da Filonide.
Per la testimonianza di Dionigi di Alicarnasso, disse: “Ridete finché potete, Tarantini, ridete! In futuro dovrete a lungo versare lacrime!”.

Gli ambasciatori lasciarono Taranto per rientrare in Roma nel 281 a.C.
Postumio mostrò ai concittadini la toga sporcata da Filonide.
I nuovi consoli, Lucio Emilio Barbula e Quinto Marcio Filippo, entrati in carica in quei giorni, convocarono il Senato.

Se parte dei senatori riteneva rischioso intraprendere una spedizione militare contro Taranto, quando le ribellioni dei popoli italici non sono ancora state del tutto sedate, la maggior parte, sostenuta anche dalla popolazione, si schierò decisamente per dichiarare guerra alla colonia magnogreca.

Lucio Emilio Barbula sospese temporaneamente la campagna militare intrapresa contro i Sanniti e ricevette l’incarico di riproporre a Taranto le stesse condizioni proposte da Postumio. Nel frattempo, l’esercito del console avrebbe compiuto devastazioni nel territorio tarantino, forse anche per mettere sotto pressione la città magnogreca.

I Tarantini, spaventati dall’arrivo dell’esercito consolare, si divisero tra coloro disposti ad accettare le condizioni di pace offerte dai Romani e coloro che volevano la guerra.

Si decise per la via militare e di chiedere, per l’ennesima volta, aiuto dall’esterno.
La richiesta di aiuto venne inoltrata a Pirro, re dell’Epiro (corrispondente grosso modo a parte dell’odierna Albania).
Come riporta Plutarco: “[i Tarantini] pensavano di prendere Pirro come condottiero e di invitarlo a partecipare alla guerra, dal momento che era quello tra i re che più ne aveva il tempo ed era il più abile generale”.

Pirro, sovrano ambizioso e vero e proprio avventuriero, accolse la richiesta di aiuto.

Pirro, re dell’Epiro

Il sovrano epirota era spinto dall’ambizione di ampliare il proprio regno e la propria supremazia. Avrebbe incorporato nella propria sfera d’influenza la Magna Grecia e la Sicilia (contesa tra Cartaginesi e Siracusa).

Pirro decise di esporsi e di lanciare la campagna in Italia anche a seguito delle promesse di Taranto.
La colonia magnogreca gli promise infatti di appoggiarlo con un enorme esercito di Lucani, Messapi, Sanniti e Tarantini, per un totale incredibile di 20.000 cavalieri e 350.000 fanti.

Pirro si fece precedere dal suo luogotenente Cinea con 3.000 soldati, anche per mettere a tacere chi, fra i Tarantini, non era favorevole alla guerra contro Roma.

Ritratto di epoca romana di Pirro, conservato al museo nazionale di Napoli.

Il re dell’Epiro, dopo una serie di traversie nell’attraversare l’Adriatico, sbarcò in Italia all’inizio della primavera del 280 a.C. con un poderoso esercito di 20.000 fanti pesanti, 3.000 cavalieri, 2.000 arcieri, 500 frombolieri e una ventina di elefanti da guerra, che fecero la loro prima comparsa sul suolo italico.

Pirro, abituato a considerare la guerra una cosa seria, pretese che le forze tarantine si addestrassero con solerzia.
Non concesse alcuna distrazione ai Tarantini: fece chiudere i teatri, vietò tutti i divertimenti, abolì le feste e chiamò alle armi tutti i cittadini in età per combattere.

Davanti ai preparativi di guerra della città di Taranto e del suo prestigioso alleato, Roma trovò a sua volta alleati tra le città greche già amiche dell’Urbe – Locri, Reggio, Thurii.
Il console Publio Valerio Levino avanzò verso la Lucania.

Pirro, vista la minaccia, decise di prendere l’iniziativa, nella convinzione dell’arrivo ormai prossimo dei rinforzi promessi dai Tarantini (e che mai sarebbero giunti, perché di fatto inesistenti).

La prima possa di Pirro non fu militare, ma diplomatica.
Sperando che la sua fama e prestigio intimorissero il console romano, il re epirota inviò una lettera a Levino.

Secondo Dionigi di Alicarnasso (in Antichità romane, XIX), così recitava la lettera:

“Immagino che tu abbia saputo da altri della mia venuta con l’esercito in soccorso dei Tarantini e degli altri Italioti che mi hanno chiamato.
Penso poi che tu non ignori da quali personaggi io discendo e quali imprese io ho compiuto e quale esercito io conduco, e il suo valore in guerra.
Ritengo dunque che, considerato tutto ciò, non aspetterai di apprendere coi fatti la nostra valenza bellica, ma che, rinunciando alle armi, ti volgerai alle trattative. Ti consiglio di rimettere a me il giudizio delle controversie esistenti tra il popolo romano e i Tarantini o i Lucani o i Sanniti, perché io arbitrerò le vostre differenze con assoluta giustizia e farò in modo che i miei amici siano disposti a pagare per tutte le offese che scoprirò vi abbiano arrecato”.

Se da un lato Pirro, contrariamente alla sua fama di cultore della guerra, intendeva economizzare e risparmiare sia uomini che risorse, i Romani non erano altrettanto portati al compromesso.

L’Urbe non intendeva ledere il proprio prestigio e intaccare le posizioni raggiunte nei confronti dei popoli italici, che ora dominava solo dopo lunghe e feroci lotte, né avrebbe accettato soluzioni che l’avrebbero portata a rinunciare all’Italia meridionale.

La risposta romana, sempre come riportata da Dionigi di Alicarnasso, è un vero manifesto della politica romana del periodo:
“Disprezzare coloro dei quali non si è sperimentato né la potenza né il valore, come se fossero insignificanti e di nessuno conto, mi sembra prova di indole dissennata e incapace di distinguere ciò che è utile.
Noi non siamo soliti punire i nemici con le parole, ma con le opere, e non ti costituiamo giudice delle nostre accuse ai Tarantini o ai Sanniti o agli altri nemici, e non ti prendiamo come garante di nessuna ammenda, ma con le nostre armi decideremo la contesa e prenderemo le nostre vendette come noi vogliamo. Ora che sei informato di ciò preparati a essere nostro antagonista e non già giudice”.

La risposta era chiara.

Era la guerra.

Leggi anche:

La conquista della Magna Grecia. (2) La battaglia di Eraclea (280 a.C.)

La conquista della Magna Grecia. (3) La battaglia di Ascoli Satriano (279 a.C.)

La conquista della Magna Grecia. (4) La battaglia di Maleventum e la fine della guerra (275 a.C.)

Bibliografia

Fonti

Cicerone, Tuscolanae Disputationes

Cassio Dione, Storia romana

Diodoro Siculo, Biblioteca storica

Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane

Orosio, Contro i pagani

Plutarco, Vite Parallele

Tito Livio, Ab Urbe Condita

Studi moderni

G. Brizzi 2002, Il guerriero, l’oplita, il legionario. Gli eserciti nel mondo classico

P. Connolly 1998, Greece and Rome at war

A. Frediani 2012, Le grandi battaglie tra Greci e Romani. Falange contro legione

L. Zerbini 2015, Le grandi battaglie dell’esercito romano


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