Negli anni ’20 del XV secolo, a trent’anni dalla ormai imminente fine, l’impero romano era ridotto a una piccolo Stato regionale, vassallo e tributario dell’impero ottomano, la giovane potenza in inarrestabile ascesa.
Il territorio romano era estremamente limitato: la capitale Costantinopoli con i suoi sobborghi, una striscia di terra lungo il Mar di Marmara, Tessalonica (fino al 1423), poche isole egee e parte del Peloponneso, dove il territorio della Morea era circondato da potentati latini e dai Veneziani, nonché costantemente minacciato, e più volte saccheggiato, dai Turchi.
Tuttavia, ancora in questo periodo storico l’impero non rimase un protagonista passivo degli eventi. Negli ultimi decenni di esistenza dello Stato romano, fu proprio dalla Morea che si assistette alle ultime imprese militari imperiali, destinate a scacciare definitivamente dal territorio ellenico la malsopportata presenza occidentale, sotto la lunga ombra della costante minaccia di invasione ottomana.
1415-1423: la complicata situazione della Morea
Nel 1425, dopo 34 anni di regno, moriva l’imperatore Manuele II Paleologo, forse uno dei più grandi esponenti della sua famiglia. Le sorti di quello che restava dell’impero romano erano nelle mani di tre dei suoi figli.
Leggi l’appprofondimento Manuele II Paleologo e il viaggio in Occidente (1399): la testimonianza di Adam di Usk
Il maggiore, Giovanni VIII, assurse al trono imperiale, dopo essere stato co-imperatore con il padre già dal 1421. Pur avendo il totale dominio dell’impero, de facto il territorio che controllava personalmente era limitato a Costantinopoli e i territori circostanti.
Il territorio del Despotato di Morea, cioé la parte meridionale e centrale del Peloponneso, era governata da Teodoro, con il titolo di despota. Infine, Costantino (il futuro imperatore Costantino XI) era stato da poco richiamato dal suo possedimento di Mesembria sul Mar di Marmara da Giovanni VIII stesso, il quale era intenzionato ad affiancarlo a Teodoro nel governo del Despotato di Morea, poiché più dotato del fratello sia per le questioni politiche, che per quelle militari.
All’inizio del XV secolo, la gestione del potere imperiale e del dominio dei territori romani era radicalmente cambiata rispetto a quanto era di norma nei periodi precedenti.
Era infatti entrata in uso la spartizione, tra i membri della famiglia imperiale, di città e territori dello Stato, nella convinzione che l’assegnazione dei domini romani tra i familiari dell’imperatore potesse essere la soluzione giusta per tenere assieme gli ormai sempre più sparsi territori dell’impero. Ciò naturalmente implicava che ogni membro della famiglia imperiale che governasse una città o un territorio, poteva di fatto regnare come un piccolo sovrano semi-indipendente, diventando potenziale fonte di instabilità e scissioni.
Si trattava, comunque, di una pratica relativamente recente, adottata non prima del XIV secolo: prima di quel periodo, che il potere imperiale fosse unico, e il territorio dello Stato romano indivisibile, erano concetti ancora ben chiari e profondamente radicati. Basti pensare che, ancora alla fine del XIII secolo, alla proposta dell’imperatrice Iolanda di Monferrato di spartire il territorio imperiale tra i suoi figli e nipoti come prevedevano le usanze occidentali, l’imperatore Andronico II rimase scioccato, rigettando con sdegno una tale decisione: non avrebbe permesso che il singolo potere imperiale romano, disse, si trasformasse in una poliarchia.
Il periodo che precedette l’ascesa al trono di Giovanni aveva visto una prima fase, fino almeno al 1421, relativamente prospera e carica di speranze per il benessere dell’impero.
Dopo essersi potuto togliere il peso del vassallaggio verso gli Ottomani grazie all’invasione timuride nel 1402-1403, nel 1413 Manuele II aveva appoggiato, affiancato dal deposta serbo Stefano Lazarević, il pretendente al trono ottomano e futuro sultano Maometto I, che, una volta conclusa la guerra civile contro il fratello Musa, rinnovò il trattato di alleanza con i Romani già stipulato dal fratello e precedente pretendente al trono, Solimano.
Il clima di fiducia e relativa quiete aveva dato modo a Manuele II di lasciare Costantinopoli per potersi dedicare agli altri possedimenti imperiali, in particolare la Morea, il vero gioiello e cuore pulsante dell’impero durante il XV secolo, dalla quale vi era la sensazione che potesse concretamente partire una riscossa romana, in particolare contri i vicini potentati latini.
Sull’istmo di Corinto, Manuele aveva fatto ricostruire in tempi eccezionali e con costi ingenti l’Hexamilion, il grande muro fortificato a difesa del Peloponneso, da tempo abbandonato e più volte violato dagli Ottomani negli anni ’90 del XIV secolo.
La fiorente Morea era stata quindi lasciata nelle mani del primogenito Giovanni, che aveva condotto in prima persona, nel 1416, una vittoriosa campagna contro il Principato latino di Acaia, il cui crollo fu scongiurato solo dall’intervento veneziano.

Il periodo di prosperità e il clima di riscossa non erano però destinati a durare. Nel 1421 infatti il figlio di Maometto I, il giovane Murad II, era assurto al trono ottomano. Murad era ben diverso dal padre e più simile al nonno Bayezid, specialmente nella politica aggressiva verso l’esterno.
Manuele, cercando di arginarne l’ascesa, aveva quindi appoggiato il suo rivale al trono ottomano Mustafà, fratello di Maometto I, che però era uscito sconfitto dalla lotta. La vendetta di Murad contro i sostenitori di Mustafà non era tardata ad arrivare.
L’8 giugno del 1422, il sultano aveva cinto d’assedio Costantinopoli, senza però riuscire a conquistarla, sia grazie alla saldezza delle sue mura, sia a causa dell’entrata in campo del fratello minore, ench’egli di nome Mustafà, che gli contendeva il trono e lo aveva costretto ad abbandonare l’assedio. Nello stesso anno, aveva posto sotto assedio anche la seconda città più importante dell’impero, Tessalonica.
Nel maggio del 1423, dopo che era stata raggiunta alla fine dell’anno precedente una fragilissima tregua tra i signori latini di Grecia (in particolare il principe di Acaia Centurione Zaccaria e Carlo Tocco, conte di Cefalonia) e il despota Teodoro, i Turchi avevano fatto irruzione nuovamente nel Peloponneso, distruggendo l’Hexamilion appena ricostruito e mettendo a ferro e fuoco la Morea. Per cercare di salvare Tessalonica, ancora sotto assedio e non avendo mezzi a disposizione per difenderla, il despota e terzo figlio di Manuele, il gravemente malato Andronico (morirà nel 1429, affetto dall’elefantiasi che lo tormentava da anni), era arrivato alla disperata soluzione di cederla ai Veneziani, che avevano le truppe e le risorse necessarie a resistere all’assedio. I Veneziani, increduli, avevano accettato, attirandosi così le ire del sultano. La città sarebbe stata infine destinata a cadere, nel 1430.
Ad aggiungersi alla situazione disperata e soffocante, Manuele II nel solo 1423, forse uno degli anni peggiori del suo regno, era stato colto da ben due ictus che, pur lasciandolo completamente lucido, lo avevano spezzato nel corpo.
La situazione apparentemente traballante della Morea era stata subito sfruttata dai nemici dell’impero: la fragile tregua del 1422 era stata infatti prontamente infranta da Centurione Zaccaria già nel dicembre del 1423.
L’azione del principe d’Acaia non era rimasta, comunque, senza conseguenze. Nel giugno del 1424, Teodoro con le sue truppe era piombato su Centurione Zaccaria, facendolo prigioniero, e aveva saccheggiato i territori veneziani tra Modone e Corone (odierne Methoni e Korone).
Quando Giovanni salì al trono nel 1425, la situazione in Morea era ben lungi dall’essersi stabilizzata, anche per via dell’attività espansionistica del conte di Cefalonia.
L’espansione di Carlo Tocco nel Peloponneso
Pur preoccupato della tregua subito infranta, anche il conte Carlo Tocco pensò di poter trarre vantaggio dalla turbolenta situazione nella penisola ellenica, con il benestare di Venezia.
Carlo Tocco, conte di Cefalonia e insignito anche del titolo di despota da Manuele II, era inizialmente signore delle isole legate al suo titolo: Cefalonia, Zacinto e Leucade. Nel giro di pochi anni aveva esteso il suo dominio a parte dell’Epiro e della Grecia, come sinteticamente illustra un anonimo panegirista di Giovanni VIII, unica nostra fonte degli eventi relativi alla battaglia delle Echinadi:
“[Carlo Tocco] Cominciò reclamando la sua ancestrale signoria sulle isole di Itaca, Zacinto e Cefalonia, alle quali aggiunse, poco a poco, territori che vanno dall’Etolia alla Tesprozia e Molossia, che corrisponde a una parte, ma non tutta, dell’Epiro, insieme a parte dell’Acaia tra i fiumi Acheloo ed Eveno [geograficamente, in realtà, non facenti parte della regione dell’Acaia]”.
Inoltre, nel 1421 era entrato in possesso della città di Clarentza, sulla costa nordoccidentale dell’Acaia, una città fondata dai latini nel XIII secolo sull’antica Kyllene. Avendo a disposizione una forte base operativa nel Peloponneso, tra il 1421 e il 1424 Carlo Tocco espanse i suoi domini nella penisola egea, questa volta ai danni anche del Principe d’Acaia Centurione Zaccaria, tra l’altro ormai immobilizzato dalla gotta:
“Una volta in possesso di Kyllene […], egli incorporò nei suoi domini i territori compresi tra la foce del fiume Alfeo e del fiume Acheloo, vicino alla quale c’è Dymi, un’antica città achea, e comprese sotto il suo dominio tutta Elide Cava e tutto ciò che si estendeva da lì fino al Monte Foloi, in alcuni casi persuadendo il Principe Centurione […], e in alcuni casi prendendole con la forza”.
Teodoro non era probabilmente troppo preoccupato di contrastare l’espansione di Tocco, il quale era visto più che altro come un avversario del principe di Acaia e che, comunque, non aveva ancora dato segno di voler tentare la conquista dei suoi domini. Il despota era inoltre fin troppo impegnato con i Veneziani e con le truppe del Principato di Acaia, in particolare quanto restava della Compagnia Navarrese, un tempo al comando di Pedro Bordo de San Superano.
Tuttavia, alla fine anche Carlo Tocco passò il limite. Nell’inverno del 1426, probabilmente per avere a disposizione scorte di cibo il suo esercito, il conte di Cefalonia recquisì un grandissimo numero di animali (“cavalli, bestiame, pecore e maiali”, come precisa la nostra fonte) appartenenti agli Albanesi. L’anonimo panegirista non riferisce a che Albanesi alluda nello specifico (la fonte è anche lacunosa in questo passo), ma doveva trattarsi degli stessi Albanesi che nel 1407 erano stati fatti insediare da Teodoro in Morea, visto che l’azione di Carlo Tocco scatenò la reazione romana.
Entro il dicembre del 1427, le forze romane erano pronte a lanciare l’offensiva contro Carlo Tocco.
La situazione doveva apparire davvero grave e di massima importanza, poiché si recò in Morea addirittura lo stesso Giovanni VIII, per dirigere personalmente le operazioni contro il conte di Cefalonia. L’imperatore portò con sé il fratello minore Costantino.

L’assedio di Clarentza e la battaglia delle Echinadi
Giovanni VIII e Costantino raggiunsero Mistrà nel dicembre del 1427. La prima mossa romana fu quella di porre il blocco alla principale base di Carlo Tocco in terra ellenica, Clarentza, mettendola sotto assedio e cercando di tagliarla fuori dalle isole che costituivano il cuore della contea di Cefalonia. Così la nostra fonte, che purtroppo tace sulla consistenza delle forze in campo:
“Radunando forze contro di lui, [i Romani] si installarono lì e scavarono un fossato intorno al luogo, e posero l’assedio alla città elea, radunando le truppe di fanteria sulla terraferma e, sul mare, circondandola con le galee”.
Carlo Tocco, temendo per i suoi nuovi domini, preparò la controffensiva: radunò la flotta delle sue isole, quella dell’Epiro e prese sotto il suo comando “alcune navi [provenienti] da Marsiglia”, forse imbarcazioni di tipo mercantile. L’intera flotta fu posta al comando di uno dei figli del conte di Cefalonia, Turno.
Giovanni VIII inviò la sua flotta a dare battaglia alle navi da guerra di Tocco. Sotto il comando del Megas Dukas Demetrio Laskaris Leontari (o Leontarios), i vascelli imperiali fecero vela verso le isole Echinadi, un gruppo di isole comprese tra Itaca e la costa epirota.
Non abbiamo purtroppo dati diretti sulla composizione e sulla consistenza di flotte ed equipaggi degli schieramenti che si combatterono alle Echinadi, ma almeno per lo schieramento romano è possibile farsi un’idea di entrambe le cose.
Sappiamo infatti che, già dalla metà del XIV secolo, anche nelle flotte più corpose che potevano venire messe in campo, le navi di proprietà del governo imperiale non ammontavano mai a più di dieci, mentre gli altri vascelli degli schieramenti imperiali erano forniti da alleati e mercenari (in entrambi i casi, particolarmente di provenienza italiana), oppure equipaggiate e armate dalle tasche di cittadini facoltosi. Non mancavano inoltre, in alcune occasioni, navi sia militari che mercantili recquisite. Nel XV secolo venivano utilizzati diversi tipi di vascello, ma sicuramente il modello più utilizzato era la galea, una nave estremamente simile ai dromoni di età tardoantica, anche per il fatto di essere dotata macchine da lancio.
Gli equipaggi delle navi imperiali dell’ultimo periodo erano quasi sempre composti dai cosiddetti Gasmouloi, feroci combattenti di ascendenza in parte romana e in parte occidentale, che però non sempre si erano dimostrati affidabili.
Più difficile è calcolare la consistenza della flotta romana al comando di Leontarios nel 1427, ma si può stimare un numero compreso tra le 30-40 (questo è circa il numero di vascelli presenti a Costantinopoli durante l’ultimo assedio del 1453) e le 100 navi (consistenza della flotta messa in campo nel 1348-49).
Appena giunti in vista delle isole più vicine, i Romani “innalzarono uno stendardo, cantarono peana, suonarono trombe e batterono un grande timpano”. Non sono chiari né lo schieramento né la posizione delle navi di Tocco, anche se da un passo del panegirista sembra poter intuire che la flotta del conte di Cefalonia fosse ormeggiata e all’ancora, ovvero non schierata per la battaglia.
Quindi, potendo forse sfruttare l’impreparazione del nemico, i vascelli della flotta imperiale furono lanciati all’attacco con gran vigore, cercando anche lo scontro ravvicinato, tanto che diverse delle navi di Carlo Tocco si trovarono con le parti sporgenti dai fianchi delle navi, atte a riparare le file dei rematori, distrutte.
L’anonimo panegirista descrive sinteticamente, ma con efficacia, lo scontro che si consuma tra la flotta romana e quella del conte di Cefalonia:
“[I Romani] uccisero un gran numero dei loro avversari, prima con gli arcieri e le armi da getto e poi con giavellotti e dardi mentre si avvicinavano, come se stessero combattendo una battaglia terrestre. Catturarono alcune navi con i loro equipaggi e ne ridussero altre in uno stato tale da farle battere in ritirata.”
La battaglia volse rapidamente male per i latini, tanto che rimase coinvolta e rischiò la cattura anche la nave ammiraglia della flotta:
“La nave ammiraglia fu quasi presa, insieme al suo comandante, visto che la maggior parte delle truppe sul ponte era caduta. Di quelli che restavano, molti gettarono via i loro giavellotti e inneggiarono alla gloria dell’imperatore, proclamandosi suoi servi e invocando pietà. I rematori nella pancia della galea si dileguarono. La nave ammiraglia fu quasi catturata, e questo sarebbe di certo accaduto se non ci fosse stato un intervento del fato. Visto che pensavano non potesse scappare, le navi imperiali si rivolsero ad altre faccende [ovvero, a dare battaglia alle altre navi di Tocco]”.
La nave ammiraglia, pur ridotta in condizioni pessime anche per via della rottura di una parte dell’ancora, lentamente cambiò rotta e guadagnò vento a favore. Nonostante le navi imperiali fossero lanciate all’inseguimento, la nave ammiraglia della flotta latina riuscì a fuggire dalla battaglia verso nord, attraccando infine a Leucade.
Se per i Romani fu, a detta del panegirista, “una vittoria quasi senza lacrime”, per lo schieramento del conte di Cefalonia fu un disastro: metà delle forze di Carlo Tocco furono catturate, tra cui molti membri di nobili famiglie, compreso un nipote del conte, mentre la maggior parte di coloro che avevano tentato la fuga durante lo scontro erano finiti uccisi o feriti.

La resa di Carlo Tocco e la cessione di Clarentza
Dopo la sconfitta alle Echinadi, Carlo Tocco capì non gli sarebbe stato possibile proseguire l’espansione dei suoi domini, così cercò un accordo che, per quanto potesse essergli gravoso, ne salvasse la dignità.
Il conte di Cefalonia rinunciò a tutte le sue recenti conquiste nel Peloponneso e offrì in moglie a Costantino la nipote Maddalena: Clarentza e gli altri possedimenti dell’Elide sarebbero stati la sua dote.
La proposta fu ovviamente più che bene accetta da Giovanni VIII. Il primo maggio del 1428 Clarentza veniva ceduta all’impero, mentre il primo di luglio si celebrarono le nozze tra Costantino e Maddalena Tocco (che prese un più familiare nome greco, Teodora), vicino a Patrasso.
Costantino fu elevato dal fratello a secondo despota di Morea nello stesso 1428, seguito come terzo Despota dal minore dei fratelli Paleologi, Tommaso. Ciò, naturalmente, con grande scorno di Teodoro.
La divisione della Morea tra i tre fratelli era destinata a causare inevitabili rivalità e conflitti, ma l’ingresso di Costantino sulla scena ellenica diede una nuova spinta ai sentimenti di rivalsa romani nei confronti dei latini occidentali. Sarà proprio da Clarentza, infatti, che nei due anni successivi Costantino si muoverà per conquistare Patrasso e in seguito, quando il governo della Morea ricadde principalmente nelle sue mani, sarà sempre Costantino, tra 1443 e 1446, a guidare l’ultimo assalto romano ai potentati occidentali di Grecia e a entrare in scontro diretto con l’impero ottomano.
Bibliografia
Fonti
Gilliland Wright D., “The Battle of the Echinades”, dal blog http://surprisedbytime.blogspot.com
Studi moderni
D’Amato R., “Byzantine Naval Forces 1261-1461. The Roman Empire’s Last Marines”, Oxford 2015
Setton K.M., “Papacy and the Levant. 1204-1571”, Philadelphia 1976
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