Il mito della figura di Alessandro il Grande ha influenzato e ispirato moltissimi condottieri romani (basti pensare a Cesare).
Ma non vi è dubbio che il personaggio che più di ogni altro ha subito il fascino del re macedone sia stato l’imperatore Caracalla.
Caracalla, uno dei membri più famosi della dinastia dei Severi, è affascinato a tal punto da Alessandro da credersi (o almeno proclamarsi) una sua reincarnazione.
Ritratti che lo raffigurano come Alessandro iniziano a proliferare in ogni dove a Roma, e Caracalla si abbiglia alla maniera tradizionale macedone, con largo cappello a larga tesa alla greca e stivaletti alti.
Ma per emulare appieno il suo idolo, Caracalla sogna soprattutto una campagna in Oriente contro la Persia dei suoi tempi: l’impero partico.
Nel 215, arruola numerosi soldati dalla Macedonia e dalla Laconia, equipaggiandoli anche (almeno in parte dell’apparato difensivo) come antichi soldati greci e macedoni.
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Sempre nel 215, l’imperatore passa in Asia Minore e ripercorre parte del cammino di Alessandro, visitando la tomba di Achille a Troia e visitando anche il sarcofago del re macedone stesso, ad Alessandria.
Nell’inverno tra 215 e 216, ad Antiochia, Caracalla si impegna a trovare un pretesto ideale per attaccare Artabano IV, re dei Parti.
Erodiano e Cassio Dione, nostre principali fonti sulla vicenda, parlando entrambi di una proposta di matrimonio, anche se in modo diverso.
Cassio Dione ci dice infatti che Artabano semplicemente rifiuta la proposta di matrimonio di Caracalla con la figlia del re dei Parti, mentre Erodiano racconta una versione diversa.
Dopo alcune resistenze, Artabano avrebbe infatti accettato la proposta. Caracalla si sarebbe quindi mosso, considerando le terre sulle quali marcia già sue, verso Arbela, dove il re e una folla festante lo attendono a braccia aperte.
Si tratta però di una trappola di Caracalla. A un segnale convenuto, i soldati romani fanno strage dei Parti inermi. Artabano si salva per miracolo, solo grazie all’intervento delle sue guardie personali.

Durante i mesi successivi, Caracalla non affronta un singolo scontro, non trovando resistenza, saccheggiando e razziando i territori di Adiabene e Babilonia.
Ma i Parti si stanno solo riorganizzando. Artabano ha raccolto un esercito ed è pronto a vendicarsi dell’affronto subito ad Arbela.
Sarebbe finalmente l’occasione per Caracalla per emulare il suo idolo anche sul campo di battaglia…ma invece, appena giunge a Caracalla la notizia che l’esercito partico è pronto a muovere, l’imperatore decide di ritirare le sue truppe, ormai ebbre e stanche di saccheggiare, verso la Mesopotamia.
Cassio Dione, autore certo non amichevole a Caracalla, sintetizza così il suo comportamento:
“Egli appariva, infatti, assai audace nel minacciare e nel compiere imprese spericolate ed improvvise, ma si rivelava poi un grande codardo di fronte al pericolo, e quindi debole in presenza di difficoltà”.
Mentre sverna a Edessa, Caracalla fa pervenire al Senato di Roma la notizia (evidentemente molto gonfiata) della vittoria ottenuta in Oriente, proclamando che è stato del tutto soggiogato.
Il Senato, sia ignaro dei fatti che per timore, proclama l’imperatore come 𝘗𝘢𝘳𝘵𝘩𝘪𝘤𝘶𝘴 e gli tributa un trionfo.
Forse sempre sognando Alessandro, Caracalla vorrebbe proseguire la guerra contro i Parti, ma il piano non andrà mai a compimento.
Nel 217, presso Carre, Caracalla è assassinato da Macrino, suo generale che è stato spesso dileggiato dall’imperatore e, come scopre per vie traverse Macrino stesso, condannato a morte.
Macrino si autoproclama imperatore, ma la guerra con i Parti non è conclusa. Artabano vuole ancora la sua vendetta.
Nel 217, presso Nisibi, si consuma una tremenda e sanguinosa battaglia tra omani e Parti, che procura perdite pesantissime all’esercito romano.
Macrino è costretto a negoziare la pace, versando un enorme tributo ad Artabano ma almeno mantenendo i territori romani in Mesopotamia.
La campagna di Caracalla, ben lungi dall’aver emulato le imprese di Alessandro, non solo è stata solamente un’enorme operazione di razzia, ma ha anche procurato, seppur post mortem del sovrano, danni non trascurabili alle risorse e al prestigio dell’impero romano.
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M. Cappelli 2021, Per un pugno di barbari