Quando ci chiediamo come combattevano i Romani nelle varie epoche storiche, usualmente ci figuriamo i grandi movimenti di truppe e reparti, le tattiche dei comandanti, l’insieme delle forze romane sul campo. Insomma, una visione dall’alto, a volo d’uccello se vogliamo.
Tuttavia, se vogliamo davvero comprendere quale fosse il vero “volto della battaglia”, per usare un’espressione cara a John Keegan, dobbiamo andare più vicino.
Infatti, come tutti i soldati di ogni tempo, prima ancora di combattere in formazione i soldati romani dovevano imparare a combattere singolarmente, apprendendo i modi corretti e più efficaci per utilizzare le armi che impugnavano.
Con questo articolo tenteremo di fare un excursus proprio su questo tema, tracciando delle linee generali periodo per periodo, dando un’occhiata alle fonti scritte, al dato archeologico e alle armi stesse, nonché facendo affidamento sulla mia (molto modesta) esperienza di schermidore storico e di rievocatore storico, e sull’esperienza maturata da studiosi del settore che già da anni hanno approcciato in modo pratico il tema.
[Leggi anche La scherma dei Romani (VIII sec. a.C. – XV sec.). (II) Gli strumenti e l’addestramento individuale]

Una necessaria premessa: a parte qualche notabile eccezione, qui si parlerà principalmente di combattimento a piedi, per alcune ragioni.
La prima, molto pratica, è la mia totale inesperienza nella scherma a cavallo, che non mi permette di poter parlare in modo adeguato dell’argomento. Secondariamente, come emerge del resto ancora anche da manuali di età contemporanea di sciabola da cavalleria, il primo allenamento all’uso delle armi propedeutico anche ai cavalieri è il maneggio dell’arma a piedi, salvo che non si tratti di armi molto specifiche per l’uso a cavallo.
Inoltre, considerata la vastità del tema, qui saranno affrontate solo, come specificato nel titolo, le tecniche così come sembrano emergere o sono ipotizzabili, e le armi usate (e concentrandoci, sempre per l’impossibilità di trattare il tema nella sua interezza, su quelle che rispecchiano il quadro della normalità e non le eccezioni).
Sarà invece tema di un articolo a parte tutto ciò che concerne l’addestramento individuale dei soldati romani alla scherma e al combattimento individuale, così come emerge dalle fonti.
Sempre per necessità di sintesi, saranno trattate qui le combinazioni di armi più tipiche utilizzate sui campi di battaglia, mentre forse in futuro redarrò un ulteriore articolo con armi utilizzate in situazioni di emergenza (es. spada e mantello) o in contesti non bellici (es. spada e fodero come arma difensiva).
Per conoscere i tipi di spade e scudi utilizzati dai Romani nel corso dei secoli, potete approfondire attraverso questi miei due articoli:
Le spade dei Romani. Un breve excursus (VIII sec. a.C. – XI sec. d.C.)
Gli scudi dei Romani (VIII sec. a.C. – XV sec.)
Esiste una “scherma romana”?
Si può parlare di “scherma romana”?
Prima di entrare nel vivo dell’argomento, come necessaria premessa è obbligatorio rispondere a questa domanda, poiché ha delle risposte meno ovvie di quanto non si pensi.
La risposta è “sì” nella misura in cui prendiamo la definizione generale di cosa sia la scherma, ovvero, al suo nocciolo, l’arte di colpire senza essere colpiti usando armi bianche, in asta, contundenti e difensive di vario tipo.

La questione si fa senz’altro più complessa se vogliamo parlare invece di un “sistema schermistico”: se i concetti alla base della scherma infatti rimangono sempre universali (es. tempo, velocità, misura, distanza), l’enorme durata della Storia militare romana e i cambiamenti delle armi utilizzate fanno sì che naturalmente anche il modo di usare tali armi da parte dei Romani sia sempre diverso e in evoluzione.
Va inoltre considerato che, al contrario di quanto abbiamo per esempio per le età basso medievale, moderna e contemporanea, non abbiamo alcun manuale, trattato o resoconto similare che ci possa permettere di ricostruire nel dettaglio la scherma di un determinato periodo della Storia romana.
Quanto possiamo desumere del modo di combattere romano nei vari secoli è frutto dell’interpretazione (per il possibile cauta) delle fonti a disposizione che siano utili ad addentrarsi in questo tema, siano essere i reperti archeologici di armi, le fonti iconografiche che mostrino combattenti in azione, le testimonianze scritte antiche che descrivono il maneggio delle armi in modo piuttosto specifico (evenienza quanto mai rara).
Questo è un ambito pertinente quindi nemmeno alla sola scherma storica, ma piuttosto a quello della sperimentazione, che si tratti di archeologia sperimentale o ricostruttiva.
Tuttavia, la scherma storica è di per sé fondamentale per la sperimentazione: sono proprio gli strumenti della scherma storica e l’eventuale raffronto con i trattati di scherma a noi noti che possono permettere, almeno a grandi linee, di capire come combattevano i Romani.
L’età arcaica: l’epoca del duellante (VIII-VII sec. a.C.)
L’età più arcaica di Roma, quella corrispondente ai secoli VIII-VII a.C. e al mitico regno di Romolo, è forse la più complicata da analizzare da un punto di vista della ricostruzione schermistica.
Quasi tutti i dettagli “tecnici” del maneggio delle armi vanno infatti desunti quasi esclusivamente dal dato archeologico e collegati ai pochi elementi utili che si possono trarre dalle fonti scritte – che in ogni caso sono sempre posteriori di diversi secoli.
In questo periodo storico, nel quale il combattimento si esprime in rapide puntate contro il nemico, l’armamento dell’élite guerriera comprendeva usualmente la lancia, la spada (generalmente una spada ad antenne o una più corta spada a lingua da presa) e uno scudo tondo a manopola centrale, spesso interamente metallico. La panoplia difensiva, escluso lo scudo, era ridotta al minimo indispensabile: una piastra pettorale subrettangolare e un elmo bronzeo.
Possiamo fare alcune considerazioni generali, sulla base di questa evidenza. Vista la leggerezza dell’armatura, uno scontro individuale di questo periodo storico sarà stato molto agile e dinamico.

Lo scudo tondo a manopola centrale consente di estendere efficacemente il bracco in avanti, andando a creare se e quando necessario un ampio cono di difesa.
Le spade di questo periodo, inoltre, hanno un profilo usualmente dritto, a volte con la lama leggermente foliata: questo significa che queste spade, particolarmente quelle ad antenne, sono armi particolarmente versatili tanto nel taglio quanto nella punta.
L’uso di quest’ultima, che denota di solito un uso molto specializzato dell’arma, è in effetti forse confermato indirettamente proprio dal pomolo ad antenne: oltre a essere una trovata estetica per risolvere il problema dei canali di fusione, un pomolo così esteso permette efficacemente di estrarre l’arma nel caso in cui la lama si sia conficcata troppo in profondità.
Sempre per quanto concerne le spade, sappiamo inoltre che non esiste una regola per quanto concerne la sospensione del fodero, essendo questa tanto a destra quanto a sinistra, e nel caso della sospensione a destra il motivo può essere anche psicologico.
Infatti, in quel caso l’arma è ben visibile da subito, non coperta dallo scudo: in questo modo il nemico sa di trovarsi di fronte a un professionista della guerra.
Quanto alla lancia, il cui utilizzo è senz’altro “semplice” ma non ovvio, questa è anche l’arma di offesa principale del resto delle bande guerriere di questo periodo, compresi quei combattenti che non appartengono all’élite. E del resto la loro arma da fianco principale sarà stata un coltello di qualche tipo o un’ascia (che richiede un addestramento senz’altro meno specializzato di una spada), mentre lo scudo di questi guerrieri è il thyreos, stretto e oblungo.
Uno scudo grazie al quale è possibile proteggere la quasi interezza della figura, semplicemente tenendolo attaccato al corpo o estendendolo alla bisogna, essendo dotato anch’esso di una manopola centrale: un enorme vantaggio di chi non ha armatura e non è nemmeno così avvezzo al combattimento.
L’uso del thyreos, e poi dello scutum, in modo non esclusivamente difensivo è probabilmente già pertinente a questo periodo, ma bisognerà forse aspettare qualche secolo per vederlo portato al massimo dell’efficienza.
Clipeus e hasta: l’età dell’oplita (VI-IV sec. a.C.)
Con il passaggio al periodo orientalizzante, l’élite combattente di Roma (ma in generale dell’Italia antica) passa a essere composta non più da guerrieri che combattono secondo uno stilema di tipo eroico, ma da opliti, secondo il modello greco.
Se l’armamento delle classi inferiori continua a basarsi sull’uso del thyreos e della lancia, le prime classi si dotano ora, oltre che di un equipaggiamento difensivo più pesante, del grande scudo tondo di tipo greco (aspis, in latino clipeus) e della lunga lancia oplitica (dory in greco, hasta in latino), dotata di una acuminata punta in ferro e un appuntito puntale in bronzo, noto in greco come sauroter. Quest’ultimo, in caso di rottura dell’asta o di chiusura di distanza improvvisa da parte del nemico, può diventare un efficace strumento di offesa quale arma improvvisata.

Lo scudo oplitico, grande e, da quanto si può ricostruire, piuttosto pesante rispetto agli scudi precedenti, è imbracciato e non impugnato centralmente: una caratteristica che, unitamente alle sue dimensioni, lo rende senz’altro adatto a un combattimento individuale più statico. Anche la sua caratteristica “spalla”, nella quale è possibile poggiarsi e spingere con il corpo, rende evidente come questo scudo dia il meglio di sé in formazione, dove l’arma difensiva diventa un effettivo tutt’uno con il corpo del guerriero.
L’uso attivo di questo scudo, proprio per via della sua forma e della sua imbracciatura, doveva essere per forza di cose molto limitato: l’estensione eccessiva in avanti del braccio non consente un troppo efficace cono di protezione, e inoltre l’uso aggressivo di questo scudo deve essere limitato a una rapida bordata nel caso in cui un nemico chiuda la distanza, arrivando quasi in gioco stretto.
Inoltre, al fianco, i guerrieri romani ora hanno armi bianche di tipo greco, in particolare lo xiphos, dritto e a lama foliata a doppio taglio, e la kopis, con lama curva a un solo filo tagliente. Se questa seconda arma ha il suo massimo effetto in un uso precipuamente di taglio, lo xiphos al contrario, pur essendo ottimizzato anch’esso per i colpi di taglio, grazie alla sua forma è un’eccellente arma da stocco – caratteristica che i Romani, come vedremo, sapranno molto apprezzare.

Le ipotesi e le sperimentazioni sull’utilizzo dell’armamento oplitico, in particolare per quanto concerne la combinazione lancia e scudo, sono state innumerevoli nel corso dei decenni. In particolare, studiosi e soprattutto appassionati accendono ancora adesso discussioni se gli opliti usassero la loro lunga lancia principalmente sopramano (i.e. con una posizione come a scagliare l’arma) o sottomano.
Pur personalmente allineandomi per un uso preferibilmente sottomano (o meglio, come proposto da Christopher Matthew, con la parte terminale dell’arma tenuta sotto l’avambraccio), la realtà delle fonti ci dice che ad ogni modo l’arma era senz’altro utilizzata, e utilizzabile, in entrambe le modalità.
La trattatistica rinascimentale che illustra il maneggio di una combinazione simile, ovvero partigiana e rotella (es. Achille Marozzo), spiega molto chiaramente tecniche specifiche e rapide per il cambio di impugnatura dell’arma in asta senza perdere il contatto con l’arma, e ci sono ben pochi dubbi che anche gli opliti dell’Italia antica dovessero essere in grado di effettuare un simile cambio molto velocemente, a seconda dell’esigenza.
Se il modello dell’oplita classico vorrebbe, quasi per forza di cose, una formazione coesa per l’utilizzo al massimo dell’efficienza dell’armamento di questo periodo, nella quale la componente individuale si va quasi a spegnere completamente, ciò non è però del tutto vero per il mondo italico: se infatti il modello dell’oplita fu traslato sul suolo italico, altrettanto non si può dire forse per la falange oplitica.
Che una componente individuale, o almeno maggiormente dinamica, nella quale fosse possibile sempre mostrare la propria virtus ed esprimere il furor guerriero, non fosse stata del tutto accantonata, è desumibile almeno da due fattori indiretti.
In primo luogo, gli elmi del mondo oplitico italico tendono a essere, almeno in linea generale, piuttosto aperti, al contrario del più famoso modello di elmo oplitico greco, l’elmo corinzio – cosa che indica probabilmente la necessità di avere un raggio visivo e uditivo ben più largo. Inoltre, in gran parte dell’Italia antica l’equipaggiamento oplitico si accompagna all’utilizzo di una seconda arma in asta, usualmente un giavellotto pesante di qualche tipo (l’antenato del pilum romano; ne ho parlato in questo articolo breve).
Il predominio dell’oplita ha termine con la calata gallica in Italia, che riporta in auge un combattimento dinamico e afferma l’uso dello scudo oblungo a manopola.
Sta per nascere la scherma del legionario classico che tanto siamo abituati a conoscere. Ma anche questa subisce, nel corso dei secoli, alcune notabili trasformazioni.
La lunga epopea di spada e scutum quadrangolare oblungo (IV sec. a.C.-III sec. d.C.)
Con la reintroduzione dello scudo oblungo a manopola centrale, iniziamo a entrare in un periodo in cui le fonti sono più chiare riguardo al modo di combattere dei legionari romani.
Pur inserito in una formazione di suoi pari, il legionario romano di questo lungo periodo è, alla base, un combattente individuale. Ne ho parlato ampiamente in un articolo passato, che potete leggere cliccando qui.
Ciò è ben esplicitato anche dal suo nuovo equipaggiamento offensivo principale, che pur cambiando parzialmente forma nel corso dei secoli resta bene o male lo stesso: una spada a doppio taglio di media-corta lunghezza e un robusto scudo oblungo, ricurvo e coprente, spesso dotato di bordi metallici, che pur accorciandosi nei secoli del Principato mantiene la caratteristica di proteggere bene o male tutto il corpo del soldato, quando questo si mette in guardia di combattimento.
Questo tipo di armamento indica un comportamento del soldato fortemente aggressivo, spesso all’attacco, con l’intento principale di chiudere la distanza con il nemico per poi investirlo di rapidi colpi di spada, possibilmente di punta.
Per questa fase della “scherma romana” abbiamo anche, fortunatamente, alcune descrizioni piuttosto precise di diversi autori antichi, che concordano tutti nella descrizione del modo di combattere dei legionari romani.

Una delle descrizioni più dettagliate è data da Dionigi di Alicarnasso. Pur parlando di legionari romani del periodo repubblicano contro guerrieri galli, il quadro che emerge è senz’altro ben coerente con quanto avremmo visto anche da parte dei soldati del Principato:
“[…] si facevano sotto alle braccia dei nemici con lo scudo sollevato verso l’alto, e curvi e accucciati ne rendevano i colpi vani; dal canto loro con le spade protese in avanti li colpivano all’inguine, al fianco sotto le costole, e colpendoli al petto li sbudellavano.
E se vedevano che mantenevano quelle parti del corpo protette, tagliavano loro i tendini delle ginocchia o delle caviglie, così da farli crollare a terra […]”.
[Dionigi di Alicarnasso, XIV, 10]
Da questo passo inizia a emergere la predilezione dei legionari romani per i colpi di punta. Un aspetto che è ben evidenziato per esempio anche da Polibio:
“[…] i Romani si fecero sotto […] avendo delle spade dalla cuspide eccellente, le usarono non di taglio ma di punta, e in tal modo colpendo ripetutamente i petti e i volti del nemico, ne uccisero in gran numero”.
[Polibio II, 33]
Anche se questo uso precipuo della punta sembra presente sin dal IV sec. a.C., tuttavia l’evoluzione delle spade romane forse mostra una situazione più sfumata.
Le spade dei legionari repubblicani in realtà – xiphos, La Tène B e gladio ispanico – sono infatti estremamente versatili sia per l’uso di punta che di taglio, e quest’ultimo deve essere una componente non da poco nella scherma romana del periodo.
E anzi, ciò è confermato in modo diretto nuovamente da Polibio:
“Ora, un soldato romano con le sue armi ha bisogno di uno spazio libero di tre piedi [ca. 90 cm].
Secondo i metodi di combattimento romani, ogni uomo si muove separatamente: non solo difende il suo corpo con il lungo scudo, spostandolo in continuazione per evitare di essere colpito, ma, usando la sua spada di punta e di taglio, è ovvio quindi che una formazione più aperta sia necessaria, e che ogni uomo sia a una distanza di almeno tre piedi da quello al suo fianco e alle sue spalle […]”
[Polibio, XVIII, 30]
Tuttavia, col passare del tempo è evidente la necessità di andare a esasperare la funzione del gladio meramente come arma da stocco da usare a distanza ravvicinata. Probabilmente proprio per questo si passa a modelli prima solo più corti ma con una lama piuttosto larga (gladio tipo Mainz), a tipi di gladio ancora più corti e con una lama stretta (gladio tipo Pompei).
La guardia che deve essere tipica del combattimento con gladio e scutum è probabilmente quella rappresentata in un famoso rilievo da Mainz: la gamba sinistra avanzata, lo scudo appoggiato alla gamba e alla spalla, a parziale protezione del volto, e la spada a contatto del fianco dello scudo, con la punta bene in vista. Senz’altro era possibile anche tenere la lama dietro lo scudo, ma solo per celarla al nemico prima di colpire – qualunque altro uso, per esempio di appoggio come a volte si vede nell’ambito della rievocazione storica, la avrebbe semplicemente fatta infilzare nel legno dello scudo (come del resto alcuni rievocatori stessi, e io stesso, hanno involontariamente sperimentato).

Un altro aspetto molto importante della scherma romana di questo lungo periodo è l’uso aggressivo dello scudo. Come si vede in numerose raffigurazioni di combattenti dotati di uno scudo oblungo a manopola centrale (siano essi Romani, Galli o anche gladiatori), l’uso preferenziale dello scudo come arma offensiva è quello di usarlo come estensione del braccio sinistro, tirando di fatto dei pugni e andando a colpire con il bordo inferiore dello scudo stesso.
Questo è per esempio ciò che fa Tito Manlio Torquato, in almeno una delle versioni a noi note, nei confronti del campione gallico alla battaglia dell’Aniene del 360 a.C.: in questo caso specifico, la bordata di Manlio è atta a destabilizzare l’avversario e a creare un bersaglio (petto e volto del Gallo, che vengono colpite con veloci stoccate), ma è molto chiaro che un tale utilizzo dello scudo possa essere molto pericoloso se, per esempio, indirizzato al volto dell’avversario.
Una nota non da poco: Manlio, essendo un aristocratico, è un cavaliere, ma si fa passare uno scutum da fanteria per intraprendere il duello.
Un altro possibile uso aggressivo del grande scutum è quello di andare invece a estendere il braccio sinistro per andare a colpire con l’umbone, possibilmente al volto. Nonostante ciò sia chiaramente possibile anche con lo scutum del periodo repubblicano, è possibile che ciò sia invece stato favorito nel periodo del Principato: gli scuta rettangolari sono infatti più corti, ergo più leggeri e meglio manovrabili, e presentano un umbone metallico sporgente (e non uno a copertura della spina lignea, gradualmente rimossa nel corso del periodo imperiale), la cui superficie poco estesa può senz’altro causare seri danni.
Un simile uso dell’umbone è descritto da Tacito nella battaglia del Monte Graupio dell’83 d.C.
A usare questa mossa sono gli ausiliari batavi e tungri, che dobbiamo immaginare dotati di grandi scudi ovali con umbone metallico centrale – ergo, nella sostanza e nelle modalità d’uso, non dissimili dagli scudi dei legionari:
“A questo punto Agricola incitò quattro coorti di Batavi e due di Tungri a impegnarli [i Britanni] in uno scontro corpo a corpo. L’operazione era per loro facile grazie alla lunga permanenza in servizio, mentre era malagevole per i nemici: infatti le spade dei Britanni, prive di punte, non si prestano al corpo a corpo in uno spazio ristretto. […] i Batavi cominciarono a menar colpi, a ferire con l’umbone dello scudo, a straziare i volti […]”
[Agricola, 36]
Dal passo di Tacito emerge bene come i legionari (e, a ben vedere, anche gli ausiliari) cerchino volutamente una misura stretta per poter tirare rapide stoccate col gladio – che, come visto, probabilmente si accorcia e si assottiglia proprio per favorire questo metodo di combattimento.

Questo tipo di scherma favorisce inoltre anche un eventuale gioco stretto, il corpo a corpo e la lotta. E questo sembra accadere soprattutto quando si fronteggiano due eserciti di Romani, come emerge dalla battaglia dello scontro tra veterani a Forum Gallorum nel 43 a.C., come descritto da Appiano:
“Si scontrarono in ordine chiuso, e siccome nessuno riusciva a ributtare indietro l’avversario si attaccarono a distanza ravvicinata con i gladi, legandosi come lottatori.
Quasi nessun colpo mancava il bersaglio: si infliggevano ferite e si davano la morte, ma non si sentiva un grido, soltanto rantoli; quando un uomo cadeva veniva immediatamente trascinato via, e un altro prendeva il suo posto.”
[Guerre Civili, III, 68]
Nel corso del III secolo, si assiste ad alcuni ulteriori cambiamenti dell’armamento legionario, in particolare per quanto concerne le spade: al gladio tipo Pompei si affianca, per sostituirlo completamente entro il IV secolo, la ben più lunga spatha, arma prima usata solo dalla cavalleria – un cambio relativamente al quale non si hanno ancora oggi risposte certe.
Segno che i tempi stanno cambiano, e che il soldato romano sta lentamente per adottare un altro stile di combattimento.
Spatha e scudo ovale/tondo. La tarda antichità e il primo medioevo (IV-VIII sec.)
Con il passaggio alla tarda antichità, assistiamo a dei cambiamenti sostanziali rispetto alla scherma dei periodi precedenti.
Per quanto riguarda il maneggio della lancia, arma che viene pesantemente reintrodotta già a partire dal III sec., se non addirittura dalla fine del II sec., pur tenendo in considerazione che si tratta senz’altro di un’arma probabilmente più corta e non dotata di un acuminato puntale terminale, valgono le considerazioni fatte in precedenza per la lancia oplitica – e, beninteso, sono applicabili anche al periodo precedente appena esaminato, prendendo in considerazione che la usavano gli ausiliari di fanteria e, come accennato, in talune occasioni anche i legionari.
Ci concentreremo quindi qui su quanto le fonti e i reperti ci permettono di ricostruire relativamente al combattimento di spada e scudo del lungo periodo tra il IV e l’VIII secolo – nel quale, nei suoi tratti generali, le armi conservano una certa somiglianza.
Dobbiamo in effetti ricordare che, almeno per il periodo che va dal IV al VII secolo, spesso i soldati di fanteria romana non utilizzano la lancia bensì proprio la spada – e questo non perché le lance si spezzavano, come poteva capitare, ma perché spesso avevano come arma primaria un giavellotto pesante (lo spiculum) oppure erano in grado di scagliare la propria lancia, come prescritto in certe occasioni nello Strategikon dell’imperatore Maurizio.
Lo scudo romano della tarda antichità e del primo alto medioevo è usualmente ovale o tondo e di grandi dimensioni (fino a 100 cm di diametro, oppure circa 110×90 cm), a impugnatura centrale, mentre l’arma bianca d’ordinanza, come già accennato, è la spatha (spathion in greco): una lunga arma a una mano e a doppio taglio, a fili pressoché paralleli e, a causa dell’assenza di un pomolo a fare da contrappeso, con un bilanciamento avanzato.
Inoltre, in linea generale, nella sua forma più “classica” (es. tipo 1,2 e 4 della classificazione Oakeshott), la spatha tardoantica ha un’elsa pressoché “ad H” (con l’asta centrale della lettera a indicare l’impugnatura) e un’impugnatura lunga quanto basta a infilarci la mano, senza la possibilità di poter usare efficacemente il polso come “nodo” per dare i colpi – o meglio, può essere fatto ma o urtando il proprio polso con l’elsa, particolarmente la parte inferiore, o facendo perdere alla lama il corretto allineamento con il braccio.
Questo naturalmente significa una cosa soltanto: che ora la scherma romana, per quanto sia senz’altro possibile tirare delle punte e possiamo presumere venisse fatto, è ora caratterizzata soprattutto da colpi di taglio, potenti fendenti calati usando come nodo principale non il polso, che dovrà quindi restare fermo, ma il gomito o addirittura la spalla. La similitudine più vicina è con la sciabola da cavalleria ottocentesca, per la quale per esempio il capitano Settimo del Frate prescrive esattamente questo metodo d’uso.
Questo metodo di combattimento basato principalmente sul colpo di taglio, e presumibilmente soprattutto portato dall’alto verso il basso (come sembrano confermare anche le innumerevoli “guardie alte” rappresentate nelle fonti iconografiche), è anche confermato dall’introduzione di altre armi bianche per le fanterie del periodo, insieme alle spade, ovvero le scuri (securis, o pelekùs in greco), attestate già nel IV secolo e per tutto il periodo, e oltre, di questo capitolo.
Per quanto non in modo dettagliato quanto Polibio, Tito Livio o Dionigi di Alicarnasso, abbiamo anche per il IV secolo una fonte di tutto rispetto che in più occasioni descrive in modo abbastanza dettagliato come combattono i fanti romani di questo periodo: Ammiano Marcellino.
Le sue descrizioni dei combattimenti e delle ferite subite dai combattenti, anche se a volte esagerate (famosa è l’inverosimile descrizione, ripetuta più volte, di teste spaccate in due le cui metà pendono sulle spalle del morto), confermano perfettamente i dettagli di cui sopra, oltre a fornire altre preziose informazioni, che analizzeremo a breve.
Vale la pena inoltre citare alcuni dei suoi passi, in particolare concernenti le battaglie di Argentoratum (357), di Ad Salices (377) e di Adrianopoli (378).

Argentoratum:
“Alcuni espertissimi soldati barbari, appoggiandosi sulle ginocchia*, cercavano di respingere il nemico, ma con estrema risolutezza le destre si scontravano fra loro e gli umboni degli scudi cozzavano […]”
[Ammiano Marcellino XVI, 12, 37]
*obnixi genibus, nel testo originale; di non chiarissima interpretazione, almeno per me, ma può significare o che alcuni soldati Alamanni si sono inginocchiati a formare una formazione difensiva statica, oppure che stanno usando le ginocchia per spingere sui loro scudi.
Ad Salices
“I barbari, pronti, come sono sempre, e veloci […], piantando con violenza le spade nei petti di coloro che resistevano […]”
[Ammiano Marcellino XXXI, 7, 12]
“[…] così pure da entrambe le parti i fanti tagliavano i garretti a quanti cadevano ed erano impacciati per la paura.”
[Ammiano Marcellino XXXI, 7, 13]
“[…] le teste erano state spaccate da un fendente dalla sommità attraverso la parte centrale della fronte […]”
[Ammiano Marcellino XXXI, 7, 14]
Adrianopoli:
“I fanti rimasero scoperti in gruppi così stipati gli uni sugli altri, che difficilmente potevano sguainare le spade o tirare indietro le braccia [NB: presumibilmente, per usare al meglio le lance]”.
[Ammiano Marcellino XXXI, 13, 2]
“[…] i nostri, dimostrando disprezzo della morte pur nell’estremo pericolo, riprese le spade, fecero a pezzi quanti incontravano e con reciproci colpi di scure di spezzavano gli elmi e le loriche […]”
[Ammiano Marcellino XXXI, 13, 3]
“Si poteva vedere un barbaro […] il quale, essendogli stato tagliato un garretto o amputata la destra da un colpo di spada o ferito a un fianco […]”
[Ammiano Marcellino XXXI, 13, 4]
“[…] i fanti, sfiniti dalla fatica e dai pericoli, poiché […] s’era spezzata la maggior parte delle lance a causa dei continui scontri, si gettavano, accontentandosi delle sole spade, contro le compatte schiere dei nemici […].”
[Ammiano Marcellino XXXI, 13, 5]
Da questi passi possiamo trarre diverse informazioni interessanti per il modo di combattere a piedi del IV secolo, ma sono informazioni quasi senz’altro anche applicabili ai secoli fino all’VIII, vista, come accennata sopra, la relativa similitudine di equipaggiamento.
Per presumibilmente la prima volta nella Storia schermistica romana, le spade iniziano a essere usate “ferro contro ferro” (“le destre si scontravano tra loro”), cosa che con il gladio non era mai stata certamente praticata. Inoltre si trova conferma dell’uso di potenti fendenti e, occasionalmente, anche di punte.

I bersagli preferiti che emergono sono senz’altro la testa, il fianco e i garretti – qualcosa che riecheggia dell’antico modo di combattere dei Romani, come descritto per esempio da Dionigi di Alicarnasso. Ciò ha senso anche guardando agli scudi di questi secoli, le cui grandi dimensioni sono assimilabili a quelle degli scudi precedenti.
Inoltre, un’altra informazione fornita da Ammiano va a corroborare un dato che emerge dai reperti: l’uso aggressivo degli scudi, e particolarmente dell’umbone (sulla scia di quanto descritto da Tacito nell’Agricola). Se certamente lo scudo a manopola centrale, ovale o tondo, permette un utilizzo offensivo del bordo inferiore come per gli scudi repubblicani e del Principato, a livello archeologico si nota lo sviluppo di umboni molto sporgenti, in forma conica, il cui impatto può senz’altro causare seri danni all’avversario.
Questa è una caratteristica che sembra trovare la sua massima espressione tra IV e V secolo, per poi iniziare a declinare con umboni nuovamente meno sporgenti, seppur sempre di forma conica, tra VI e VII secolo.
Sappiamo inoltre da un passo dello Strategikon (XII, A, 7] che lo scudo, almeno per resistere alle cariche, deve essere appoggiato alla spalla o “sorretto”. Anche se si sta parlando di una formazione serrata, questo non può che far tornare alla mente la posizione dello scudo adottata dal legionario di molti secoli prima nel rilievo di Mainz.
Sempre parlando di fonti scritte, tolto Ammiano Marcellino una delle nostre fonti più preziose per il combattimento individuale di epoca tardo antica è senza dubbio Procopio di Cesarea…con un solo “problema”, almeno relativamente a questo articolo.
Procopio descrive sì numerosi duelli tra “campioni” romani e i loro avversari, ma la totalità di questi avvengono a cavallo. Del resto è a cavallo anche il duello (brevissimo: come quasi tutti i veri duelli, si risolve con un solo colpo) tra Eraclio e il comandante dell’esercito sasanide a Ninive nel 627.
Questo per via della sempre maggiore importanza tattica di questo tipo di truppa, sublimata nei bucellari. Come vedremo nel prossimo capitolo, ciò sarà ancora vero anche per il periodo successivo che andremo ad analizzare.
Da quanto si può ricostruire, gli sviluppi di questo periodo avranno ripercussioni nel modo di combattere dei soldati romani per il resto del periodo alto medievale, almeno da quanto ci è dato sapere – ovvero, purtroppo, non molto.
NB: so bene di non aver menzionato Vegezio, ma i suoi accenni alla scherma e all’addestramento individuale dei legionari romani troveranno il giusto e dovuto spazio nell’articolo dedicato a questi temi specifici.
Lo scudo “triangolare”, lancia e spada/ascia/mazza. Il fante romano altomedievale (IX-XII sec.)
Abbiamo già avuto modo di vedere, in questo articolo di qualche tempo fa, l’equipaggiamento militare delle fanterie del periodo tra il IX e il XII sec., ma vediamo qui alcuni sviluppi interessanti per parlare di ciò che concerne la scherma.

Ora, prima di proseguire, la necessaria premessa è che per questo periodo, così come per il successivo, abbiamo in realtà sia ben poche descrizioni dettagliate di combattimenti – non a livello di Ammiano, e tanto meno non al livello di Tito Livio.
Per quanto concerne i fanti, abbiamo sfortunatamente poco o nulla in questo senso, e possiamo trarre alcune conclusioni di massima solo guardando all’equipaggiamento militare come descritto nei manuali militari e come rappresentato nelle fonti iconografiche.
Partiamo dalle armi.
L’arma principale del fante, così come in realtà del cavaliere, è sempre la lancia. Per la fanteria, i trattati sembrano prescrivere lunghe lance da urto che, vista la taglia, sarebbero quasi certamente da usarsi a due mani (ca. 4 metri). Tuttavia, l’iconografia non conferma questa figura, rappresentando fanti equipaggiati con comuni lance a una mano.
Quanto alle armi da fianco, queste confermano una scherma principalmente fatta di colpi di taglio, come per il precedente periodo. Questo perché non solo le armi restano la spada (spathion) e la scure (tzikourion), ma a queste si aggiunge la mazza (sideroràbdion o bardoukion).
Proprio come per i periodi precedenti, il principale scudo della fanteria resta di grandi dimensioni, ben adatto a difendere tutta la figura. Continua anche la coesistenza di più forme: tondo (con dimensioni più piccole dei corrispettivi tardo antichi), ovale e, ora, in forma triangolare e a goccia, che nelle fonti sono spesso descritti “alti come un uomo” – realisticamente, dobbiamo forse considerare lunghi tra i 120 e i 130 cm, che proteggano circa dalla spalla alla caviglia.
Gradualmente sembrano inoltre sparire, o almeno farsi più rare, la manopola centrale e l’umbone. Tuttavia, ciò non esclude affatto la presa centrale, poiché nel mondo romano si diffonde soprattutto una presa cosiddetta “a chiasmo”, che permette di impugnare lo scudo senza bisogno di un foro o di un umbone. Questo tipo di presa consente forse anche di poter usare lo scudo imbracciato.

Ciò significa probabilmente due cose: il modo di combattere della fanteria romana è tornato a essere decisamente più statico, come nel periodo degli opliti, ma è stata data la possibilità di poter usare uno scudo più versatile che, in caso di necessità, possa fornire un ben più ampio cono di protezione, nonché la possibilità di un uso propriamente offensivo (per quanto reso meno efficace dall’assenza, da quanto ne sappiamo, di un umbone).
Come accennato, in questo periodo sono nuovamente i combattenti a cavallo a poter godere soprattutto di descrizioni relative a combattimenti individuali – ne sono un esempio i due combattimenti di Anemas alla battaglia di Dorostolon del 971, che ho descritto in un vecchio articolo.
Anzi: come emerge sempre di più dalla fine della tarda antichità, anche l’abilità nel combattimento dei singoli comandanti, sempre più coinvolti in prima persona negli scontri campali, è amata e idolatrata dalle truppe. Ne sono esempi veramente degni di nota Niceforo II Foca, Giovanni Tzimisce e Alessio Comneno. Quest’ultimo in particolare è protagonista di almeno due duelli descritti nell’Alessiade, ma entrambi fanno riferimento appunto a combattimenti a cavallo.
Abbiamo tuttavia almeno un paio di attestazioni di combattimenti a piedi, che sembrano confermare i ragionamenti fatti fino a questo momento.
Il primo, estremamente particolare, si riferisce alla già menzionata battaglia di Dorostolon del 970, ed è raccontata da Giovanni Scilitze (Giovanni Tzimisce, 15).
Il comandante di cavalleria catafratta Teodoro di Misteia si ritrova appiedato e disarmato (la lancia è spezzata e lo scudo perso), ma riesce comunque a uccidere un Rus’ di Kiev ribaltandolo con una tecnica di lotta, afferrandolo per la cintura, e facendogli spezzare il collo su una roccia.
Dopodiché procede a estrarre il suo paramérion (una sciabola dritta da cavalleria) e usa il cadavere del Rus’ come vero e proprio scudo umano (letteralmente, uno scudo “alto come un uomo”; senz’altro esagerando, Scilitze dice che grazie alla forza di Teodoro, per quest’ultimo il cadavere del nemico è uno “scudo leggero”), ritirandosi lentamente, proteggendosi con il cadavere del nemico dai colpi nemici e rispondendo con la sua arma finché non è al sicuro nelle sue linee.

Un secondo episodio, senz’altro meno “eccentrico” del precedente e molto indicativo del modo di combattere a piedi del periodo di questo capitolo, è invece raccontato da Niceta Coniate.
Nel corso dell’assedio della roccaforte armena di Baka, nel 1138, un Armeno di nome Costantino, che ha uno scudo probabilmente tondo, dalla descrizione, quotidianamente va a schernire e sfidare i Romani a duello. Alla fine si decide ad accettare la sfida un soldato macedone di nome Eustratios.
“[…] gli fu dato uno scudo alto come un uomo e una spada appena fabbricata […]. [Costantino] colpendo lo scudo obliquamente e facendo piovere colpi sul Macedone in una folle rabbia, si aspettava in qualunque momento di infliggere una grave ferita all’uomo. […] i Romani esprimevano gridando il loro incoraggiamento, e pregavano Eustratios che rispondesse ai colpi, ma nonostante alzasse spesso il braccio come per scaricare un colpo contro il suo avversario, con sorpresa di tutti poi si tratteneva […].
Infine, dopo aver vacillato così a lungo, il Macedone calò con grande forza la sua spada e spaccò in due il grande ed ettoreo [nel senso di tondo, come descritto in Omero lo scudo di Ettore] scudo di Costantino.”
[Niceta Coniate, 23-24]
Quando a Eustratios viene chiesto come mai non abbia proceduto prima a colpire Costantino, che è fuggito e non sfiderà più i Romani in duello, la risposta è una fonte preziosa per la ricostruzione della scherma del periodo:
“[…] il Macedone rispose che il suo obiettivo era di spaccare in due sia lo scudo che l’Armeno che lo portava con un colpo della sua spada. Ma non gli era possibile portare a termine il piano perché Costantino non teneva lo scudo attaccato al corpo, ma lo aveva esteso a una grande distanza, e alla fine [Eustratios] aveva realizzato che non poteva stare lì semplicemente a non fare nulla. Quindi, aveva atteso il momento più opportuno per calare la sua arma […]”
[Niceta Coniate, 24]
Questo passo ci dice non solo che il soldato romano, con il suo scudo “alto come un uomo”, è statico e attendista (e se lo può probabilmente permettere, vista l’arma difensiva a disposizione), ma che il suo avversario, evidentemente molto più mobile, ha uno scudo tondo a presa centrale – visto il contesto, probabilmente uno scudo a chiasmo – e lo usa per creare un efficace cono di protezione.
E parlando di scudi a presa centrale…
Spada e brocchiere: un prestito dall’impero romano?

Chi è avvezzo di scherma storica medievale, sa che il trattato di scherma più antico a noi pervenuto è il Walpurgis Fechtbuch, universalmente più noto come I.33 (dalla sua catalogazione attuale, Royal Armouries I.33), redatto nella Germania degli inizi del XIV secolo.
Il testo, che presenta delle miniature a corredo del testo, è un trattato di spada e brocchiero (ovvero, un piccolo scudo a manopola, di ca. 30 cm di diametro).
In anni recenti, lo studioso Timothy Dawson ha efficacemente sostenuto la tesi che le tecniche di spada e brocchiero potrebbero essere un’importazione dal mondo imperiale, probabilmente avvenuta a più riprese sin dall’XI secolo – e forse in particolare dal periodo delle crociate, quando lo scambio e il movimento di persone tra occidente e oriente si fa più massiccio.
A sostegno di questa ipotesi, Dawson porta diversi punti, tra cui la forte somiglianza tra le guardie schermistiche dell’I.33 e alcune “guardie” rappresentate su cofanetti d’avorio romani prodotti tra X e XII secolo, nonché alcune stranezze dell’I.33 stesso, tra cui la prima guardia, che meglio si spiegano se relazionate non a come gli occidentali del periodo portavano la spada appesa al fianco, ma a come lo facevano nell’impero (la prima guardia, seppure è eseguita con la spada sguainata, deriva evidentemente da una tecnica per sguainare la spada ed essere immediatamente in posizione di attacco, cosa non rara nella scherma).
Bisogna inoltre notare come in più di una fonte iconografica del XI-XII secolo (es. Skylitzes Matritensis), in diverse occasioni soldati romani o comandanti sono equipaggiati con piccoli scudi tondi a presa centrale, che assomigliano proprio a dei brocchieri.
L’ultimo periodo (XIII-XIV secolo). Le tracce della scherma romana nei trattati stranieri
Il periodo finale della Storia dell’impero corrisponde anche all’unico momento in cui la scherma romana, anche se raramente e in modo indiretto, sembra emergere dai trattati di scherma all’infuori dell’impero.
Tolta la questione della possibile origine dell’uso di spada e brocchiero, abbiamo altri due notabili esempi, datati al XIV e al XV secolo.
Il primo è un trattato di scherma mamelucco, il Nihayat al-su’l, che tra le varie tecniche individua anche una “parata” o “blocco siriano”, che viene specificatamente detto essere di origine romana – è però, va detto, di una tecnica pensata appositamente per l’uso a cavallo.
Si tratta di una tecnica di lancia, illustrata brillantemente nel video qui sotto della sala di scherma storica “Leontes“.
In secondo luogo, abbiamo la testimonianza indiretta del maestro di scherma tedesco Martin Syber, autore di un trattatello di scherma in versi dedicato alla spada a due mani, che rientra probabilmente nel solco della tradizione del maestro Johannes Lichtenhauer, noto come New Zettel, la cui copia più antica a noi nota è del 1491 ma che è possibile sia stato composto qualche decennio prima.
L’informazione per noi più preziosa è però che le sei guardie descritte nel suo lavoro sono state apprese, e sono utilizzate, da maestri di scherma della più svariata provenienza. Delle dodici località che cita (tra cui anche l’Italia), c’è anche la Grecia (Griekia).
Questa preziosa informazione non deve chiaramente stupire, visto l’afflusso di “Latini” nei territori (ed ex-territori) dell’impero tra la Quarta Crociata e la caduta di Costantinopoli è di una portata tale che per forza di cose anche le tradizioni schermistiche occidentali devono aver fatto breccia nell’impero – che apprezzava già moltissimo i Latini come mercenari, in particolar modo proprio i cavalieri.
Quello dell’ultimo periodo è un tema molto difficile da affrontare, per cui si tenteranno solo delle riflessioni generali.
Partendo dalle considerazioni appena fatte, dobbiamo tenere conto che senz’altro almeno la nobiltà dell’impero romano avrà avuto accesso alle armi e alle conoscenze schermistiche occidentali, particolarmente quelle rappresentate per esempio dai trattati di scherma del già menzionato Johannes Lichtenhauer e Fiore dei Liberi.
Una conferma indiretta di ciò è data da una rappresentazione di Giovanni VIII Paleologo, raffigurato mentre indossa un’armatura a piastre di tipo occidentale (quella anche nota come Biancarmatura) e ha al fianco una spada da stocco – dalla lunghezza, si tratta di un’arma a una mano, ma non c’è dubbio che vi fosse anche la conoscenza, come indirettamente testimonia Syber, dell’uso della spada a due mani.

Sempre da Giovanni VIII Paleologo, o meglio dai celebri ritratti che ne fa Pisanello, sappiamo anche che vi sono altre tradizioni di armi, e di converso schermistiche, all’interno del mondo romano.
E ne è una meravigliosa testimonianza, per esempio, la sciabola con fodero, presumibilmente sempre appartenente a Giovanni VIII, rappresentata proprio da Pisanello in uno dei suoi schizzi. Qualcosa che deve essere probabilmente molto distante dalle armi e dalla concezione schermistica occidentale dello stesso periodo.
Una caratteristica che deve aver però reso estremamente particolare, vario ed “esotico” il mondo della scherma dell’ultimo periodo dell’impero romano.
Un vero, unico e oggi tremendamente difficile da ricostruire, amalgama tra oriente e occidente.

Bibliografia essenziale (clicca sui link per accedere ai libri o acquistare la tua copia)
Fonti
Ammiano Marcellino, Storie
Anna Comnena, Alessiade
Appiano, Guerre civili
Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane
Giovanni Scilitze, Cronaca
Niceta Coniate, Cronaca
Polibio, Storie
Procopio di Cesarea, Le guerre
Tacito, Agricola
Teofane Confessore, Cronaca
Vegezio, Epitoma Rei Militaris
Studi moderni
M.C. Bartusis 1997, The Late Byzantine Army. Arms and Society
G. Brizzi 2002, Il guerriero, l’oplita, il legionario. Gli eserciti nel mondo classico.
G. Canestrelli 2021, A Roma da Cartagine. La spada e lo scudo del legionario repubblicano
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G. Cascarino 2008, “L’esercito romano. Armamento e organizzazione. Vol II.”
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