La battaglia di Aquilonia (293 a.C.). L’ultima grande battaglia delle guerre sannitiche

Le guerre sannitiche sono state tra i conflitti più duri che la Repubblica romana, ancora lontana dall’essere una potenza mediterranea, abbia mai affrontato.

Quasi cinquant’anni di scontro, tra il IV e la fine del III sec. a.C. con le popolazioni sannitiche, tra i più ostinati e feroci rivali che il giovane Stato romano abbia mai affrontato.

Tuttavia, è peculiare come in realtà si parli ormai ben poco di questi conflitti – se non per episodi famosissimi, come l’umiliazione delle Forche Caudine del 321 a.C. o la “battaglia delle Nazioni”, ovvero la battaglia di Sentino del 295 a.C., combattuta durante la terza guerra sannitica.

In particolare, proprio la terza guerra sannitica, che fu la più feroce e spietata delle tre, è forse la più ricca di grandi episodi che meriterebbero di essere conosciuti.

Tra questi, un posto particolare spetta all’ultima grande battaglia campale tra Sanniti e Romani: la battaglia di Aquilonia.

Celebre affresco da Nola del IV sec. a.C., raffigurante guerrieri sanniti

Chiedere aiuto agli dèi: la legio linteata

Nel 293 a.C., i Sanniti escono da due anni di sconfitte devastanti.
Dopo la disfatta della coalizione di Sanniti, Galli, Etruschi e Umbri alla battaglia di Sentino, e pur restando avversari temibili, i Sanniti sono stati duramente battuti a Milionia e a Luceria nel 294 a.C.

Le ripetute disfatte sono forse dovute alla poca dimestichezza dei Sanniti, già evidente nel corso delle altre guerre, nel confrontarsi in grandi battaglie campali. Infatti la difesa del loro territorio, per la maggior parte montuoso, è perlopiù affidata a vari oppida fortificati che i Romani devono continuamente assediare e conquistare.
E non è un caso se i Sanniti, quando hanno vinto o hanno messo i Romani in forte difficoltà, usualmente è perché li hanno condotti in trappola, usualmente chiudendoli in una valle (come alla sconfitta per poco scampata nel 343 a.C., grazie al primo Decio Mure, o nel ben più famoso episodio delle Forche Caudine).

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Il morale è ormai a terra. A peggiorare la situazione, la notizia che per il 293 a.C. a Roma è stato eletto console Lucio Papirio Cursore, figlio dell’omonimo console che ha già battuto e umiliato i Sanniti durante la seconda guerra sannitica, ottenendo per questo un trionfo nel 320 a.C.

Forse anche per questo, nel 293 a.C. i Sanniti decidono di moltiplicare gli sforzi…e di rivolgersi agli dèi.

In primis, infatti, viene indetta una leva straordinaria, come mai si era vista prima: qualunque giovane deve presentarsi alla chiamata dei comandanti. Chiunque avesse lasciato il Sannio senza autorizzazione, sarebbe stato maledetto e consacrato a Giove.

Ben 40.000 uomini, “che rappresentavano il meglio di tutte le forze sannite”, dice Livio, rispondono all’appello. Come per buona parte degli episodi della terza guerra sannitica, non conosciamo il nome del meddix tuticus (o meddìs tovtìks, in osco) sannita – Gellio Egnazio, il comandante e fautore della lega che si era riunita a Sentino, sembra essere stato un personaggio più unico che raro.

La convocazione delle leve viene posta nella città di Aquilonia – ad oggi non ancora identificata, ma probabilmente al confine tra gli attuali Lazio e Molise.

Qui, si svolge un rito solenne e terribile.

All’interno di un recinto sacro quadrato, di duecento piedi di lato (ca. 70 m), ricoperto da un grande telo di lino a mo’ di tetto, l’anziano sacerdote Ovio Paccio officia un sacrificio, con animali come di consueto. Dopodiché, un banditore inizia a convocare nel recinto, uno per volta, gli uomini “più in vista per ascendente e valore”.

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Quello che segue è efficacemente descritto da Livio. Vale la pena riportare per intero la sua suggestiva narrazione:

“L’intero apparato della cerimonia era allestito in modo da suscitare negli animi timore religioso: contribuivano a questo effetto soprattutto gli altari al centro del recinto integralmente coperto, le vittime sgozzate intorno agli altari e i centurioni in cerchio con le spade in pugno. I convocati venivano fatti avvicinare agli altari, più come vittima che come effettivo partecipante al sacrificio, e dovevano giurare di non rivelare quanto avevano visto o sentito in quel punto.
Mediante una formula intimidatoria venivano costretti a giurare che sarebbero state maledette le loro persone, la famiglia e la stirpe, qualora non fossero scesi in campo là dove i comandanti li guidavano, o avessero abbandonato il campo di battaglia, o ancora vedendo qualcuno darsi alla fuga non lo avessero ucciso su due piedi.”
[Ab Urbe Condita X, 38]

Alcuni dei primi convocati non hanno il coraggio di sottomettersi a un giuramento così terribile. Ma un rifiuto non è concesso.
Chi si tira indietro, viene passato per le armi e il suo corpo accatastato insieme a quelli degli animali sacrificati intorno agli altari.

Ben presto, nessuno osa più rifiutarsi. In 16.000 si sottopongono a questo rito, e insieme vanno a formare la legio linteata (nome dato in virtù della copertura di lino del recinto).

A questi vengono date tuniche candide e armi più sfarzose degli altri, ricoperte in oro e in argento – “ed elmi crestati in modo da distinguerli in mezzo a tutti gli altri”.
Elmi con alte creste e cimieri, anche metallici, datati al IV sec. a.C., sono ben noti da reperti archeologici provenienti dall’antico Sannio. Non è difficile immaginare i guerrieri della legio linteata indossarli.

Elmo sannita da Lavello, IV sec. a.C. Fonte sanniti.info

Il resto dell’esercito ammonta a 20.000 uomini che “per quanto a forza fisica, valore militare e armamento, erano inferiori alla legio linteata“. Anche questi sono armati, per quanto ne sappiamo, di “armi più ricche e sfarzose che mai” (ma forse un’esagerazione di Livio).

Per il resto, l’equipaggiamento dei Sanniti è piuttosto simile a quello romano: corazza pettorale bronzea (spesso trilobata), giavellotto, spada e scudo a presa centrale del tipo thyreos e scutum.
Anche se ormai è noto essere errato, i Romani dei secoli dell’impero credono che il loro armamento caratteristico derivi proprio dai Sanniti, e in particolare lo scutum – in realtà già presente, e riportato in auge soprattutto tanto per lo scontro con i Galli quanto con i Sanniti, nel corso del IV secolo.

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I Sanniti – della cui organizzazione militare sappiamo pochissimo -, con i loro circa 40.000 uomini e la loro forza di élite, sono ora pronti ad affrontare in battaglia Papirio Cursore.

Preparativi per la battaglia e falsi auspici. Papirio ad Aquilonia

Il console Papirio, insieme al collega Spurio Carvilio, inizia a devastare il Sannio. Sotto la spada di Papirio cade la città di Duronia, mentre Carvilio conquista Amiterno.

I due eserciti proseguono le operazioni separatamente. Carvilio si dirige ad assediare Comino, mentre Papirio marcia contro Aquilonia, a venti miglia di distanza (ca. 30 km), dove del resto sa che è radunato il grosso dell’esercito nemico.

Non conosciamo la consistenza delle forze di Papirio, ma se si tratta di un classico esercito consolare del periodo, tra legionari e socii, dobbiamo suppore una forza di circa 20.000 uomini.

I due eserciti si fronteggiano per alcuni giorni, cercando di provocarsi a battaglia, facendo sortite e con qualche attacco mordi e fuggi, subito tornando nel proprio campo al minimo segno di una resistenza più seria.

Anche se in inferiorità numerica, Papirio è molto sicuro della vittoria. Tuttavia non è un incauto. Non attacca battaglia, e manda un messaggero a Carvilio perché attacchi Cominio con la massima forza: nessun rinforzo deve giungere ai Sanniti di Aquilonia.

Dopo aver inviato il messaggero (che farà andata e ritorno in un sol giorno, riferendo che Carvilio approverà il piano), Papirio arringa i suoi soldati, esortandoli a non temere chi si troveranno dinnanzi. Infatti, parlando degli armamenti sfavillanti della legio linteata, Papirio afferma che “risultavano più belle a vedersi di quanto non fossero efficaci all’atto pratico: infatti non erano certo i cimieri a procurare le ferite e il giavellotto romano [il pilum] era in grado di trapassare anche gli scudi colorati e carichi d’oro, e quell’esercito sfavillante per il candore delle tuniche si sarebbe sporcato di sangue, quando fossero entrate in azione le spade.” [Ab Urbe Condita X, 39].

Inoltre, venuto a sapere da disertori del terribile rito compiutosi ad Aquilonia, Papirio, condanna l’atto come sacrilego ed empio: il sangue umano era stato mischiato a quello animale in sacrificio, e chi aveva giurato lo aveva fatto per la maggior parte contro la sua volontà.

I soldati sono congedati, pieni di ardore e di voglia di combattere.

In piena notte, dopo il ritorno del messaggero, Papirio consulta il pullarius – un augure molto particolare. Questo porta con sé dei polli, e trae auspici a seconda di come mangiano: se si nutrono in abbondanza, il responso è positivo.

Anche se i polli non stanno mangiando, l’aruspice decide di riferire a Papirio che gli uccelli hanno mangiato abbondantemente, e che i segni sono favorevoli.
Tito Livio non si spende a spiegare troppo questa decisione, se non con l’ardore generalizzato che ha colto l’intero accampamento, ma la descrizione della prima fase dello scontro, come si vedrà, forse tradisce un racconto esemplare, forse non veritiero.

All’insaputa dell’inganno e soddisfatto per il responso, Papirio chiama l’esercito a raccolta e ordina all’esercito di schierarsi.
Operazione che viene accelerata quando un disertore sannita riferisce che da Aquilonia sono partiti 8000 soldati, divisi in 20 coorti da 400 uomini, alla volta di Cominio. Dopo aver inviato un messaggero al collega, Papirio fa schierare in fretta i suoi uomini.

Non prima di aver ordinato a un suo subalterno, Spurio Nauzio, di togliere i basti ai muli e di portarli, insieme a parte dei socii, su un’altura poco distante.

Ormai tutto è pronto per lo scontro.

Ricostruzione di guerrieri sanniti, di Peter Connolly

La battaglia di Aquilonia

Mentre l’esercito romano finisce di schierarsi, tra gli aruspici al seguito sorge una polemica circa il verdetto dato dal pullarius nella notte.

Giunto ciò alle orecchie di Spurio Papirio, figlio del console, il giovane corre a riferirlo al padre. Ma Papirio non si scompone: la maledizione divina ricadrà solo su chi ha dato il falso auspicio, mentre il segno che gli è stato annunciato è ottimo.

Ordina così che gli aruspici siano portati sul campo e messi in prima linea. Qualcuno dalle linee sannite scaglia un giavellotto, colpendo proprio il pullarius. “Gli dèi sono presenti sul campo di battaglia”, annuncia trionfante il console.

Esaltato da questo segno, Papirio ordina all’esercito di attaccare.
Tito Livio non ci fornisce purtroppo i dettagli, ma dipinge un quadro molto vivido dello scontro. I Romani si gettano furiosamente in avanti, assetati di sangue e di vittoria, mentre i Sanniti, costretti a combattere solo per via del giuramento, resistono quasi contro voglia. In più il morale è già basso, al pensiero delle sconfitte già subite.

“Resistevano senza troppa convinzione, come uomini cui soltanto la codardia impedisca di darsi alla fuga”, sintetizza efficacemente Livio.

Mentre i Romani stanno avanzando vittoriosamente, da un lato si vede un grande polverone. Sia i Romani che i Sanniti credono che si tratti dell’esercito di Carvilio finalmente giunto a rinforzo, dopo aver conquistato Cominio, e lo stesso Papirio diffonde a gran voce la notizia tra i propri ranghi e quelli nemici, incitando i suoi a ottenere la vittoria prima di doverla dividere con l’altro esercito.

Ma sa benissimo che è solo un inganno, del resto predisposto da lui stesso. Si tratta infatti di Spurio Nauzio e dei socii in sella ai muli – che si trascinano dietro rami molto frondosi per aumentare ancora di più il polverone e l’effetto visivo.

Forse è a questo punto che Papirio pronuncia piuttosto allegro un voto a Iuppiter Victor (Giove Vincitore), promettendo, in caso di vittoria, di offrire al dio un bicchierino di mulsum (vino addolcito col miele), prima di bere lui stesso una bella dose di buon vino.

L’esercito sannita ormai è quasi allo sbando. Basta un ultimo colpo per mandarlo in frantumi.

Papirio lo ha già organizzato. Ha dato disposizione ai comandanti della fanteria, prima che la battaglia iniziasse, di aprire dei varchi nello schieramento a un segnale convenuto.
Da quei varchi, la cavalleria romana e dei socii carica con la massima violenza possibile i Sanniti, mettendoli finalmente in fuga.

Mentre i cavalieri e i nobili sanniti, inseguiti dalla cavalleria, fuggono verso Boviano, i fanti cercano riparo nell’accampamento (l’ala destra) e tra le mura di Aquilonia (l’ala sinistra).

Mentre l’accampamento è preso con facilità, l’ala destra romana trova maggiore difficoltà a prendere Aquilonia. “Non certo perché gli sconfitti avessero più coraggio, quanto perché una cinta muraria è certo più indicata di una trincea a respingere un assalto armato”, commenta Livio.

Lucio Scipione (forse Scipione Barbato, ma Livio non è chiaro), comandante dell’ala destra, fa gioco sull’orgoglio dei soldati – come spesso viene fatto nel periodo della repubblica, essendo la cultura guerriera romana una cultura dell’onore e della vergogna – chiedendo se stia loro bene essere ricacciati dalle mura di Aquilonia, quando gli altri legionari hanno preso l’accampamento.

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Anche se in inferiorità numerico, gli uomini di Scipione si chiudono a testuggine e irrompono ad Aquilonia attraverso le porte.
Anche se non lo ha previsto (infatti se ne accorge all’ultimo), Papirio non si lascia sfuggire l’occasione. Raduna più uomini che può e li manda contro Aquilonia, dalla quale i difensori intanto, con il calare della notte, si ritirano.

La battaglia di Aquilonia è vinta. Non conosciamo le perdite romane, ma Livio è stranamente preciso nel riferire che i caduti sanniti ammontano a ben 20.340 morti e 3870 prigionieri.

La fine della guerra, l’inizio di duecento anni di lotte

Anche se la notizia da Papirio sull’arrivo di Carvilio è un inganno, il secondo console riesce effettivamente a conquistare anche Cominio. I due eserciti si riuniscono in un’aria di festa e celebrazione.

Papirio è poi molto generoso con tutti coloro che hanno contribuito alla vittoria, donando corone e armille a ufficiali e molti soldati, tanto cavalieri quanto fanti.

Gli ottomila soldati sanniti che erano stati inviati in soccorso a Cominio non sono mai arrivati. Giunti a sette miglia dalla città, sono stati raggiunti da messaggeri che hanno intimato loro di tornare indietro, ma quando arrivano in vista di Aquilonia possono solo assistere alla sua distruzione.
Abbandonate le armi, il giorno dopo la battaglia si danno alla fuga, appena in tempo per salvarsi dai Romani, che li hanno visti e che si gettano al loro inseguimento.
I superstiti si radunano a Bovianum, dove sarà l’ultima resistenza.

La battaglia di Aquilonia, da quello che sappiamo, è l’ultima grande battaglia campale documentata tra Sanniti e Romani – anche se ci vorranno altri quattro anni per porre fine definitivamente alle guerre sannitiche, ma non abbiamo i dettagli delle ultime operazioni, che forse si sono risolte in assedi di centri fortificati e città.

Tuttavia, nemmeno la disfatta totale di Aquilonia piegherà del tutto i Sanniti.
Per altri due secoli, a ogni buona occasione per farlo (con l’arrivo di Pirro, di Annibale, con la guerra sociale e addirittura unendosi a Spartaco), i Sanniti alzeranno ancora fieramente e indomitamente la testa contro Roma.

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Fonti

Tito Livio, Ab Urbe Condita

Studi moderni

G. Brizzi 2013, Il guerriero, l’oplita, il legionario. Gli eserciti del mondo classico

G. Canestrelli 2021, A Roma da Cartagine. La spada e lo scudo del legionario repubblicano

G. Cascarino 2016, L’esercito romano. Armamento e organizzazione. Vol. I

P. Connolly 1998, Greece and Rome at War


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