Tutta la Storia più antica di Roma è ammantata dal mito, ed è giunta fino a noi filtrata dalla tradizione e dalla memoria del mondo antico.
Ciò è particolarmente vero per quanto riguarda i primissimi anni dalla fondazione dell’Urbe e il regno di Romolo, il leggendario primo re, e la prima guerra combattuta dalla neonata, futura potenza di Roma contro i suoi vicini già nell’anno 752-751 a.C., secondo i Fasti Triumphales.
Nonostante i Romani certamente avessero accesso a fonti che noi non abbiamo più, o che abbiamo disponibili solo in forma parziale, non vi è ombra di dubbio che il racconto a noi giunto, come tramandatoci dagli storici antichi, presenti aspetti tradizionali e leggendari che si fondono con la realtà storica.
Incrociando queste scarne fonti a disposizione con il dato archeologico, nonché con le attuali conoscenze antropologiche, possiamo tuttavia almeno provare a individuare quegli elementi che sono più probabilmente reali, o almeno realistici, nei racconti sulla prima guerra di Roma.

Casus belli: il ratto delle Sabine
“E ora lo Stato romano era divenuto così potente da essere una sfida per ogni nazione vicina in guerra, ma, per via della scarsità di donne, la sua grandezza sarebbe durata per una sola generazione.”
[Tito Livio I, 9]
Secondo il racconto tradizionale Romolo, dopo aver fondato la città e aver dato un ordine alle istituzioni religiose e politiche, si ritrova con un enorme problema di tipo demografico.
Se la popolazione della sua nuova città continua a crescere, alimentata da esuli e transfughi da città e popolazioni vicine che ora vanno a costruire il primo nucleo del popolo romano, tale crescita non può essere sostenuta a lungo.
Secondo Dionigi di Alicarnasso, all’inizio Romolo predispone alcuni stratagemmi per far sì che la città, la cui popolazione è costituita soprattutto da transfughi, avventurieri e schiavi di città vicine, sia popolosa. In primo luogo, impedisce a chiunque di esporre o comunque disfarsi dei proprio figli maschi e delle figlie primogenite sotto i tre anni di età, a meno che non siano davvero malati o deformi, e in ogni caso non prima di aver mostrato il bambino e aver ottenuto l’approvazione a farlo da cinque dei propri vicini di casa.
Oltre a ciò, per permettere e favorire l’arrivo di fuggiaschi dalle città vicine, fa onorare un tempio in un luogo conosciuto dai Romani come inter duos lucos, cioé “tra due boschi” – una località non perfettamente identificata sul Capitolino. Dionigi non sa ben dire la divinità quale sia, ma probabilmente si tratta di Veiove, dio dell’asilo, divinità alla quale sarà dedicato un tempio proprio nelle vicinanze in età repubblicana. Chiunque avesse cercato riparo nel nuovo Asylum, sarebbe stato protetto e gli sarebbe stata riconosciuta la cittadinanza romana e un appezzamento tra quelli che un giorno sarebbero stati sottratti ai nemici.
La città in questo modo cresce, ma non può sostenere la sua crescita da sola: sono infatti assenti abbastanza donne che possano mettere al mondo la prima generazione di Romani nati nella nuova città.

Romolo, secondo Livio, invia emissari presso le città vicine per stringere alleanze e chiedere il diritto di matrimonio per il suo nuovo popolo. Tra le motivazioni date dagli ambasciatori, questi dicono che “sapevano che gli dèi avevano assistito il sorgere di Roma e che la virtù non sarebbe mancata, quindi non disdegnassero di mescolare, uomini con altri uomini, il sangue e la stirpe”.
Sia per disprezzo che per timore del nuovo popolo nato sulle rive del Tevere, secondo Livio nessun popolo confinante accetta la richiesta di Romolo, accompagnando il rifiuto a parole di scherno.
In ogni caso, il primo re non si perde d’animo (anzi, insieme ai suoi è profondamente offeso e irato), e organizza per cui uno stratagemma, con l’approvazione del Senato da poco formato e del nonno, l’anziano Numitore.
Romolo organizza i Consualia, una grande celebrazione dedicata al dio Conso, dio dei granai e degli approvigionamenti, identificato anche con Nettuno equestre – e infatti la festività prevede anche corse di cavalli, asini o muli, e in ogni caso gli equini sono agghindati a festa ed esentati dai lavori nei campi. Romolo fa sì che a questa grande celebrazione partecipino molti rappresentanti delle città e popolazioni confinanti che, pur disprezzando il nuovo popolo di Roma, non possono fare a meno di giungere per assistere e per vedere la nuova città.
Giungono centinaia di persone dalle città di Cenina, Crustumerio e Antemna e “tutta la popolazione dei Sabini”.
Quando tutti sono radunati, l’ultimo giorno di celebrazioni, Romolo davanti a tutti spiega e poi ripiega il bordo del mantello: è il segnale per i suoi uomini.
Armati, molti giovani Romani escono allo scoperto e gettano nel panico le popolazioni confinanti giunte a celebrare i Consualia, e iniziano a rapire le giovani vergini. Sembra strano che siano riusciti a riconoscerle, ma dobbiamo ricordare che in antico esistevano dei segnali esterni che identificavano in modo chiaro le ragazze nubili da quelle sposate – in età repubblicana, per esempio, le bambine e le ragazze non sposate potevano non indossare un velo sulla testa e indossavano ciondoli che vengono abbandonati con l’età adulta. Forse già nell’VIII sec. a.C., simili segnali potrebbero permettere un facile riconoscimento.
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È il famoso episodio del Ratto delle Sabine, ormai entrato nella leggenda. Pare che da questo atto, o dalla narrazione mitica di questo atto, derivi anche il grido “Talasius!” gridato durante le processioni nuziali della Roma antica, dal nome di uno dei rapitori o dalla parola in codice usata da Romolo come segnale.
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I numeri riportati dalle fonti sulle vergini rapite variano tra 527 e 683. Dionigi riporta anche una fonte secondo la quale le ragazze rapite sarebbero state solo trenta: secondo questa fonte riportata, che però lo stesso Dionigi considera poco attendibile, infatti tutto l’accaduto è solo un pretesto di Romolo per scatenare la guerra con i vicini.
Le giovani ragazze, secondo la tradizione, per ordine di Romolo dopo il rapimento vengono trattate con ogni riguardo, senza che sia loro fatto alcun male, e convinte col tempo a ben volere i propri nuovi mariti.
Ma sia come sia, i Sabini e i vicini non intendono lasciare impunito il torto subito, e si preparano alla guerra.

I primi trionfi: la conquista di Cenina, Antemna e Crustumerio
Il re dei Sabini, Tito Tazio, nei giorni e settimane successive al rapimento delle vergini riceve moltissime ambascerie dai popoli a lui alleati, che gli chiedono di iniziare la guerra contro Romolo e di disfarsi del nuovo, scomodo nemico e vicino.
Ma visto che Tito Tazio sembra tardare nel deliberare la guerra contro Roma, i Ceninensi, gli Antemnati e i Crustumini decidono di muoversi in autonomia: mettendo insieme le loro forze, sono convinti di spazzare via facilmente i Romani.
I Ceninensi sono i più agguerriti tra i tre popoli e, stimando che anche gli Antemnati e i Crustimini sono troppo lenti, decidono di combattere completamente da soli. Non sappiamo con quanti uomini, ma i Ceninensi infine mettono insieme le loro forze e invadono il territorio romano, mettendo a ferro e fuoco le campagne.
Ma Romolo non è impreparato. Mentre i Ceninensi sono disordinatamente intenti alla razzia delle campagne, il re e il suo esercito piombano loro addosso, vincendoli in un rapido scontro. Come sintetizza Tito Livio, “dimostra che vana è l’ira senza la forza”.
Dalle fonti sappiamo che probabilmente il primo esercito di Roma, la legio, era composta da tremila uomini a piedi e trecento cavalieri, forniti dalle tre primitive tribù romane (Ramnes, Tities e Luceres). Non è chiarissimo se i trecenti cavalieri corrispondano anche ai celeres, un corpo scelto di trecento guerrieri a cavallo che formava la guardia di Romolo, o se questi siano intesi come un corpo a parte (verrà poi sciolto, secondo la tradizione, da Numa Pompilio).
Se l’interezza del primo esercito romano è di 3300 uomini, quasi certamente Romolo guida nella sua prima campagna un numero inferiore di guerrieri, lasciando il restante e presidiare Roma, che ha intanto fatto fortificare. Dionigi di Alicarnasso riporta che venne costruita una palizzata con un fossato intorno al Capitolino, all’Aventino e al Palatino.
Il termine legio deriva dal latino lego, che significa raccogliere o scegliere: questo indica bene come l’originario esercito di Roma, in una pratica che proseguirà nei secoli successivi con il dilectus, fosse la selezione degli uomini atti alle armi in un particolare momento.
Mentre i pochi aristocratici presenti erano i guerrieri a cavallo, armati probabilmente con spade e asce in bronzo, scudi tondi in metallo, elmi e rudimentali armature pettorali anch’essi di bronzo, la gran massa dei fanti sarà stata armata con scudi oblunghi a manopola centrale in materiale organico (scutum o thyreos), lance e forse armi secondarie come pugnali e asce.
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I primi eserciti romani e in generale del Latium Vetus si muovono proprio nelle modalità descritte dalle fonti antiche: sono bande di guerrieri che si spostano presso i territori delle popolazioni vicine devastandoli e saccheggiandoli, e gli scontri sono scaramucce e piccole battaglie che prevedono rapide incursioni, agguati e probabilmente duelli tra singoli guerrieri.

Ed è infatti con un duello “eroico” che Romolo mette in fuga l’esercito dei Ceninensi, uccidendo il loro re Acrone in duello. Romolo spoglia il corpo senza vita di Acrone delle armi e le consacra a Giove Feretrio, deponendole presso una quercia sacra. Sono stati così consacrati i primi spolia opima, trofeo che sarà guadagnato sul campo solo da altri due comandanti romani nell’intera Storia della repubblica romana (Aulo Cossio e Marco Claudio Marcello).
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Rimasta senza difensori, la città di Cenina è attaccata da Romolo e presa al primo assalto.

Gli Antemnati, che assistono alla distruzione dei loro alleati Ceninensi senza poter fare nulla, non resta però a guardare. Mobilitano i loro guerrieri e anch’essi, mentre Romolo è occupato con Cenina, si danno al saccheggio del territorio romano.
Anche questa volta, Romolo riesce a piombare su di loro mentre si stanno dando al saccheggio, cogliendo totalmente di sorpresa il nemico. Tito Livio sintetizza in poco più di un rigo la battaglia e la conquista di Antemna: “L’esercito romano, rapidamente condotto contro di loro, li sorprese mentre erano sparsi nella campagna; così i nemici al primo assalto e al primo grido di battaglia sono volti in fuga, la città viene presa.”
Su richiesta e supplica delle donne rapite, Romolo accetta di integrare quanto è rimasto di Ceninensi e Antemnati in seno alla cittadinanza. Particolarmente molto Antemnati, con le famiglie al seguito, si trasferiscono a Roma, aumentandone la cittadinanza e l’esercito. Secondo Dionigi di Alicarnasso, ora che le due città più vicine sono state conquistate, Romolo può mettere in campo ben seimila uomini e seicento cavalieri, raddoppiando i suoi effettivi.
Le vittorie su Cenina e Antemna sono celebrate con due trionfi, riportati nei Fasti Triumphales. Le altre imprese riferite al proseguio della prima guerra sono nelle successive undici righe mancanti dei Fasti.
La conquista di Crustumerio è tra questi episodi mancanti. In questo caso, Romolo non aspetta che siano i nemici ad attaccarlo, ma passa direttamente all’offensiva – probabilmente con l’ausilio delle nuove milizie integrate al suo esercito.
I Crustumini, pur essendo meglio preparati e pur combattendo coraggiosamente, hanno però il morale basso a causa delle rapide sconfitte dei loro alleati, e vengono facilmente sbaragliati dai Romani.
Resta ora un solo nemico da sconfiggere: Tito Tazio, re dei Sabini.

La guerra contro i Sabini
Secondo le fonti antiche, Tito Tazio non è uno sprovveduto, e non si fa guidare all’ira come i suoi alleati, ora sudditi dei Romani. Ha anche un potente esercito, ma sicuramente Dionigi di Alicarnasso esagera molto nel riportare che può mettere in campo 25.000 fanti e 1000 cavalieri.
Del resto, sempre secondo Dionigi, ora anche Romolo ha un potente esercito: l’autore antico riporta anche la presenza, a fianco dei Romani, di mercenari Tirreni (ovvero, Etruschi) da Solonium, forse l’odierna Castel di Decima, e da Albalonga, portando il totale dei guerrieri a disposizione di Romolo a 20.000 uomini e 800 cavalieri.
Per il Lazio di allora, si tratta di numeri esorbitanti e probabilmente impossibili da gestire, con la primitiva logistica del tempo. Se prendiamo per validi i numeri della legio originaria e la sua integrazione con le città conquistate, Roma e i Sabini potevano forse muovere meno di 10.000 uomini per parte (ma probabilmente decisamente meno), e quasi certamente non li avrebbero potuti schierare tutti assieme sul campo.
Tito Tazio si muove con i suoi guerrieri verso Roma, e con un colpo di mano riesce addirittura a conquistare la cima fortificata del colle Capitolino. Secondo la tradizione, corrompe Tarpea, la figlia del comandante della rocca, solo per ricompensarla con la morte – un aneddoto riportato dalle fonti come esempio della fine sempre fatale dei traditori.
I Romani, presi per la prima volta alla sprovvista, si schierano nello spazio tra i Capitolino e il Palatino (dove in seguito sarebbe sorto il Foro). Non riuscendo a far venire a battaglia i Sabini, adirati, si iniziano a inerpicare sulle pendici del colle, guidati da Ostio Ostilio, ma quando questi cade in combattimento, i Romani si danno alla fuga.
È Romolo a salvare la situazione: dopo aver invocato l’aiuto di Giove, si lancia con i suoi celeres contro il comandante sabino, Mezio Curzio, che con il cavallo finisce in uno degli acquitrini della zona – il futuro Lacus Curtius, che secondo una delle tradizioni antiche prende il nome proprio da questo evento.
Vedendo il loro comandante e campione in pericolo di vita, distolti dal combattimento, i Sabini iniziano a volgere in fuga. Sta per consumarsi una strage come per i loro alleati.

Secondo la tradizione, è l’intervento delle donne a salvare la situazione. Le rapite, ormai mogli dei Romani, escono da Roma e si mettono in mezzo alle due parti, rivolgendosi ai mariti da una parte e ai loro familiari dall’altra, implorando loro di porre fine al combattimento e di cercare la concordia.
È difficile capire cosa si nasconda davvero dietro a questo episodio leggendario, e che ruolo possano aver avuto le donne nel far concludere il conflitto.
Ma è evidente che, pur avendo infine Romolo avuto la meglio, Romani e Sabini giungono a un accordo che vede le due parti inizialmente pari, non sottomesse a Roma (se non vogliamo addirittura vedere, in realtà, una preminenza sabina non descritta dalle fonti, che parlano in un’ottica naturalmente filo-romana. Questo spiegherebbe bene come mai, dopo la guerra, Tito Tazio diventa re congiuntamente a Romolo, e come mai proprio in questo periodo sembra nascere il nome Quiriti, che deriverebbe proprio dal sabino (o dalla parola per lancia, cures, oppure, come riporta Livio, dalla città sabina di Curi).
A livello storico, la coreggenza di Tito Tazio con Romolo, che durerà cinque anni, segna la fine della prima guerra di Roma e della fusione delle comunità latina e sabina che all’epoca abitavano la zona dei Sette Colli.
Da questa prima guerra, era intanto nato il seme della potenza che, di lì a pochi secoli, avrebbe dominato non solo il Lazio e l’Italia, ma l’intero bacino del Mediterraneo.
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Fonti
Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane
Plutarco, Vite parallele
Tito Livio, Ab Urbe Condita
Studi moderni
G. Cascarino 2016, L’esercito romano. Armamento e organizzazione. Vol. I
P. Connolly 1996, Greece and Rome at War
N. Fields 2011, Early Roman Warrior 753-321 BC
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