Nell’antica Roma come oggi, e allora forse anche di più, le perle erano considerate beni di lusso.
Le perle sono stati descritte anche da Plinio il Vecchio, nella Naturalis Historia, nella quale scriveva che questi oggetti provenivano dall’Oceano Indiano. Sappiamo tuttavia che le perle non provenivano solo dall’India, ma anche da isole come Taprobane ( l’attuale Sri Lanka) e dalla Cina.
Potevano essere trasportate via mare, attraverso la Gran Via dell’India e il Golfo Persico, passando poi per il porto di Alessandria; o via terra, attraverso la via della Seta, per giungere infine nell’Urbe, dove venivano lavorate e vendute lungo la Via Sacra.
Le perle erano chiamate dai Latini bacae o margaritae. Questo secondo termine, che i Romani adottarono dal greco, rende l’idea di come fossero sprezzanti del pericolo coloro che scendevano sui fondali marini per recuperarle (“cogliendole” con la stessa disinvoltura di quando si raccolgono, appunto, i fiori).
Il valore di queste perle andava in base alla loro lucentezza, dimensione e forma. Le perle più candide provenivano dall’Oceano Indiano e dal Mar Rosso, mentre le più grezze dal Mediterraneo. Quelle più grandi e belle erano chiamate uniones, mentre elenchi quelle grandi e di forma bislunga.
Talmente erano amate e desiderate che nel 46 a.C. venne emanata la Lex Iulia, una legge suntuaria che limitava l’utilizzo delle perle come oggetto d’ornamento.
Strano a dirsi, sappiamo che le perle a volte potrebbero aver trovato anche un uso…alimentare!
Non era altro, naturalmente, che un mezzo di ostentazione di ricchezza.
Di quest’ultimo ne parla anche lo stesso Plinio, ricordando lo strano menu di Clodio, figlio dell’attore Esopo. Secondo l’aneddoto riportato da Plinio, Clodio, volendo conoscere che sapore avesse una perla, ne mangiò una: gli sarebbe piaciuta talmente tanto che, al banchetto successivo, ne avrebbe fatta avere una per ogni suo convitato, così che potessero gustarle pure loro.
Sempre Plinio riporta anche che le due perle più grandi mai esistite appartenessero a Cleopatra, che le ricevette in dono da re orientali, e che utilizzava come orecchini.
Secondo un aneddoto leggendario, la sovrana scommise con Marco Antonio che avrebbe potuto realizzare un banchetto da dieci milioni di sesterzi. Davanti a un incredulo Marco Antonio, la regina d’Egitto avrebbe semplicemente chiesto ai suoi servi di portarle una coppa piena di aceto, nella quale gettò uno dei due costosissimi orecchini: l’acidità dell’aceto avrebbe sciolto la perla, e Cleopatra, bevendo aceto e perla disciolta, vinse la scommessa.
Che la storia sia vera o inventata, fortunatamente solo una delle perle sarebbe finita nello stomaco della regina. L’altra sarebbe arrivata intatta a Roma, dopo la conquista dell’Egitto. Nell’Urbe venne divisa in due per adornare, sempre in forma di orecchini, la statua di Venere nel Pantheon.

Perle in vetro
Le perle in vetro vennero utilizzate dalla fine del VI sec. a.C. fino al VII sec. d.C.
Queste potevano esser realizzate in vario modo: avvolgendo un filamento vitreo attorno ad una bacchetta di metallo; o utilizzando vari strumenti, anche per realizzare diverse decorazioni a rilievo o applicate.
La tecnica più costosa, detta “a mosaico” risale al I sec. a.C. – I sec. d.C., ed era di origine egizia. Presentava dei motivi decorativi molto raffinati e curati.
Ritornò in auge anche tra la tarda antichità e l’alto medioevo.
Esistevano anche perle realizzate in vetro nero, solitamente risalenti al III – IV sec. d.C.. di forma schiacciata e con due fori passanti. In questo caso, la decorazione era realizzata a caldo.
Letture consigliate
Plinio il Vecchio, Naturalis Historia
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