Recensione: “La storia spezzata. Roma antica e Occidente moderno”, di Aldo Schiavone

Titolo: “La storia spezzata. Roma antica e Occidente moderno”
Autore: Aldo Schiavone
Anno prima pubblicazione: 1996
Editore: Laterza

“La faticosa elaborazione di una civiltà estesa su tre continenti, che ricapitolava una continuità almeno millenaria, iniziata con l’arcaismo greco e (in Italia) con il primo fiorire etrusco; l’unificazione politica di uno spazio immenso; uno sviluppo economico rilevante ma alla lunga paralizzato da un blocco sociale e mentale che disgiungeva scienza, lavoro e vita morale, e che non fu forzato quando se ne presentò, forse, un’irripetibile occasione; la chiusura in un vicolo cieco; quindi la catastrofe; e poi, dopo averne assorbito gli esiti, un nuovo inizio, su basi completamente diverse, che avrebbe aperto una sequenza mai più interrotta: questo c’è, nel percorso dell’Occidente.”

Con queste parole, tratte dal libro stesso, si può ben riassumere “La storia spezzata. Roma antica e Occidente moderno”, del prof. Aldo Schiavone.

Si tratta di un lavoro piuttosto agile, di appena 260 pagine bibliografia inclusa, scritto in maniera estremamente scorrevole e chiara (cosa sicuramente non facile, trattandosi di un testo di Storia economica), che tenta di dare una risposta a un quesito che ci si iniziò a porre già dalla fine dell’800: perché, in Occidente, per passare da un’economia apparentemente avanzata come quella romana a quella di età moderna, non si è potuta seguire un’evoluzione in linea retta, invece che dover passare attraverso la curva verso il basso e poi nuovamente in ascesa di Medioevo e prima Età moderna? O detto meglio, perché l’economia romana stessa non ha compiuto quel balzo in avanti verso la modernità, visto che sembrava avere tutte le carte in regola per compierlo?

Prendendo il via dall’elogio di Roma di Elio Aristide (II sec. d.C.), che aveva abbagliato più generazioni di storici, e attraverso un’analisi economica e sociale che parte dagli anni della repubblica e dell’espansione del III-II sec. a.C., il prof. Schiavone con grande efficacia riesce a far comprendere come il mondo antico e il mondo moderno, particolarmente in termini economici, non possano essere più distanti, e che il modello di “economia-mondo” romano, in quello che era considerato il massimo del suo splendore (l’epoca di Aristide, appunto), non poteva che fermarsi lì, e al massimo proseguire in una lunga stagnazione.

“[…] qualunque tentativo di comparazione fra aspetti dell’economia romana e di quelle europee moderne, anche preindustriali, può ritenersi fondato solo se sa di mettere a confronto ambienti che si presentano come il risultato di storie del tutto diverse. Non siamo innanzi né a figure quasi identiche, divise solo dal lungo intervallo medievale, né a contesti di cui uno si debba considerare la diretta premessa dell’altro. Abbiamo davanti due sistemi che hanno sviluppato – ciascuno seguendo la propria storia – talune (anche non trascurabili) somiglianze di tratti (vita urbana, navigazione, commerci, divisione del lavoro, e così via), in rapporto a esigenze funzionali che si riproducevano nelle diverse situazioni. Non abbiamo trovato nessuna forma mercantile o finanziaria moderna che derivasse direttamente da un tipo romano (non potremmo dire la stessa cosa fra Medioevo e modernità), e la circolazione commerciale delle moderne società preindustriali si è rivelata intrinsecamente differente da quella che si realizzava nell’impero romano (basta pensare al mercato del lavoro, o al ruolo del denaro, o al rapporto tra reinvestimenti e profitti, e fra produzione e mercati); ma questo non toglie che poiché anche nella società romana esistevano meccanismi di scambio relativamente diffusi e consolidati, tra gli schemi antichi e quelli moderni si possano riscontrare simmetrie funzionali, che conducono ad alcune rassomiglianze tipologiche. Nulla di più.”

Nel costruire sapientemente la sua tesi, il prof. Schiavone individua con chiarezza ed efficacia quali sono le più grandi differenze (i “blocchi mentali e sociali”) che caratterizzano il mondo antico rispetto a quello moderno e che ne impedirono uno sviluppo in senso “capitalista”, anche solo in potenza.

La prima, più ovvia e lampante, è naturalmente il fatto che l’economia antica e romana era e rimaneva primariamente rurale, con commerci a medio raggio via terra, ancora più che mercantile. Questa seconda componente economica (molto minore rispetto a quella rurale, o al massimo alla pari) non era poi del tutto capillare, ma concentrata soprattutto nei grandi centri e, primariamente, era un commercio di tipo marittimo, molto più vantaggioso di quello terrestre, anche in termini economici. È inoltre fatto estremamente chiaro nel testo che, dal III sec. a.C. al II sec. d.C.,  l’unico vero meccanismo di autoalimentazione che l’economia romana seppe conoscere, fu la guerra (questo dettato anche dal fatto che, di base, la classe dominante romana era stata anche una aristocrazia guerriera): “il circuito guerra-conquista-ricchezza-nuova guerra finì presto col risultare l’autentico motore di tutto il sistema: una spirale in cui ogni campagna militare era insieme causa ed effetto, presupposto e conseguenza nel ripetersi dell’intero ciclo. La guerra diventò così lo strumento privilegiato del sostegno politico all’economia.”

Nel capitolo IX, il più lungo e forse il più interessante del libro, l’autore tratta degli schiavi, della concezione del lavoro nell’evo antico, e dell’assenza capillare di macchinari: tre macrofattori che impedirono all’economia romana di trasformarsi in un’economia moderna. Dopo una giusta critica al fatto che si tenda spesso a nascondere che, di fatto, quella romana dalla tarda repubblica alla fine dell’alto impero fu soprattutto una società e un’economia schiavista, il prof. Schiavone riesce a rendere molto bene l’idea degli antichi che non solo la schiavitù fosse una condizione considerata normale (“naturale”, per dirla come Aristotele), ma anzi necessaria. Nel mondo antico, una enorme parte di lavoro manuale era demandata agli schiavi e non era nemmeno possibile prendere in considerazione di poter fare altrimenti. Non che lo studio della meccanica e la progettazione e creazione di macchinari “industriali” non fosse possibile, almeno in potenza, come dimostrano la trattatistica e alcune delle più mirabili, per quanto mai portate effettivamente a beneficio di un sistema produttivo, invenzioni del mondo ellenistico (basti citare il noto Erone di Alessandria e la sua precocissima “macchina a vapore”).

Non solo: la concezione del lavoro manuale e della pratica mercantile in generale erano mal visti dal mondo aristocratico (riprendendo pensieri anche più antichi, come quelli formulati da Aristotele), che al massimo da questi poteva guadagnare indirettamente tramite le rendite di intermediari e che considerava l’unica ricchezza degna di un nobile quella della terra. Questa mentalità naturalmente avrebbe impedito qualunque scatto di tipo “imprenditoriale” da chi aveva le risorse per farlo. Emerge del resto ben chiaramente dal libro, che nel mondo antico non era affatto sentita la necessità o l’attesa di novità che, nel mondo moderno e ancora di più nel mondo contemporaneo, è assolutamente la norma in campo economico e tecnologico.

Un altro punto fondamentale del libro è che l’economia-mondo romana non è davvero un pilastro dello Stato, quanto una sua diretta conseguenza, in quanto senza di esso non può esistere, ed esiste primariamente quale conseguenza di scelte primariamente politiche.

Questa economia-mondo prende il via, come già accennato, nell’epoca della grande espansione romana tra III e II sec. a.C., che portò in brevissimo tempo a una espansione territoriale ad ampio raggio e l’ingresso nell’impero di una massa enorme di schiavi; secondo il prof. Schiavone, l’economia romana avrebbe potenzialmente potuto prendere una piega diversa solo tra I sec. a.C. e I sec. d.C., se invece della stabilizzazione neoaristocratica del principato si fosse proceduto verso una strada che avesse favorito il formarsi di un blocco sociale di piccoli e medi proprietari municipali, volto anche a “spezzare quella perniciosa (e contraddittoria) alleanza tra nobiltà e plebe urbana che aveva portato prima […] il conflitto giugurtino, e poi alla guerra sociale e alla ‘devastazione dell’Italia’ “: una strada non intrapresa che avrebbe potuto portare a un lento declino dell’impianto prettamente schiavistico, “con un confronto diretto fra capitale e lavoro nelle manifatture e nelle campagne, e con la possibilità di superare la storica dipendenza nei confronti della rapina bellica.”

“La strada intrapresa – il ramo debole della biforcazione – non portava letteralmente in alcun posto. Mantenendo fermi sia la dipendenza schiavistica, sia il rifiuto di un’elaborazione sociale e intellettuale del lavoro, e quindi continuando a confinare lo spazio della produzione ai margini di una periferia senza rimedi, quella civiltà si sottraeva al futuro. […] La trama di un’economia ‘mondiale’ fu più la conseguenza dell’unificazione politica, che il risultato di una autentica forza espansiva della produzione e dei commerci romani. A differenza di quelli moderni, il sistema-mondo dell’economia imperiale, per funzionare, dovette sempre poggiarsi sullo stretto legame politico delle regioni e degli spazi connessi: un’integrazione […] finora unica nella storia dei blocchi geopolitici intorno al Mediterraneo. […]

Quando l’unità politica venne meno, la rete delle connessioni economiche non fu in grado di sopravviverle: era una fragile conseguenza dell’impero, non un suo baluardo.”

In conclusione, quindi, secondo il prof. Schiavone, la modernità che gli storici di XIX e XX sec. attribuirono agli antichi romani non fu tanto una svista, quanto il vedere ancora la traccia, i “fossili guida di un esperimento abortito”, lasciata da quella possibilità sfumata di cambiamento in senso “moderno” che non fu mai realizzata. Che questa possibilità ci fosse stata (in parte vagheggiata già anche da autori antichi, come Cicerone), e che gli storici dei due secoli scorsi quella ebbero l’impressione di vedere, non possiamo saperlo per certo. Ma la sapiente e lucida analisi dell’autore rendono, in conclusione, tale possibilità molto credibile e plausibile, oltre che estremamente affascinante.

Un libro che vale sicuramente la pena leggere, che apre in modo chiaro uno spiraglio su un aspetto della Storia romana, cioé la storia economica, spesso trascurato anche per via della difficoltà nell’affrontare le fonti sul tema, ma assolutamente fondamentale per capire appieno i meccanismi di un mondo che, seppur ci sembri così vicino, è in realtà profondamente lontano dal nostro.

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3 thoughts on “Recensione: “La storia spezzata. Roma antica e Occidente moderno”, di Aldo Schiavone

    1. Grazie! Essendo il libro già breve di suo, è stato piuttosto difficile farne una sintesi efficace (e anzi, temo di non essere davvero riuscito nell’intento). Conto di procurarmi nuovi testi di storia economica antica per approfondire la questione, mi ha affascinato molto più di quanto pensassi.

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