Anemas: un principe arabo al servizio dell’imperatore

Il periodo che va dalla metà del X secolo agli anni ’20 dell’XI secolo fu, per l’impero romano, un vero periodo di rinascita, in particolare dal punto di vista militare.

Nella primavera del 961, dopo quasi centoquarant’anni di dominazione araba e varie campagne militari destinate a riconquistarla andate in fumo, l’isola di Creta tornava sotto l’egida imperiale. La spedizione, partita nel 960, era stata guidata dal futuro imperatore Niceforo Foca, e si era conclusa vittoriosamente dopo un assedio durissimo alla capitale dell’isola, Chandax (oggi Iraklio).

Oltre a riportare a Costantinopoli un bottino immenso, frutto di un secolo e mezzo di saccheggi e atti di pirateria, Niceforo Foca portò con sé come ostaggi, esponendoli nel suo pubblico trionfo, gli ultimi membri della dinastia araba regnante a Creta: l’emiro ʿAbd al-ʿAzīz (“Kouroupas” nelle fonti imperiali) e la sua famiglia.

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Gli ostaggi, visto il loro lignaggio, furono trattati con tutti gli onori, tanto che l’imperatore, Romano II, diede loro dei possedimenti nei quali stabilirsi. Pare addirittura che avesse considerato di fare di ʿAbd al-ʿAzīz un senatore, ma non se ne fece nulla poiché l’ex-emiro non era affatto intenzionato a convertirsi al cristianesimo. Una scelta ben diversa da quella fatta dal figlio al-Nu’man, conosciuto nelle fonti romane come Anemas.

Anemas decise infatti di convertirsi alla fede cristiana, decisione che, unita al suo nobile lignaggio, fu probabilmente di grande aiuto nell’aprirgli le porte della carriera militare nell’esercito imperiale. Non si sa esattamente perché prese una tale decisione, ma tutto sommato non è difficile immaginarlo. Se Anemas, come è possibile, fosse stato nel 961 piuttosto giovane, è possibile supporre che sia rimasto affascinato dallo splendore e dalla maestosità di Costantinopoli, e dalla cultura che aveva potuto costruire una tale capitale, tanto da volerne far parte, anche a costo di mettere in secondo piano le sue origini e la fede che aveva seguito fino a quel momento.

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Della vita di Anemas tra il 961 e il 971 non sappiamo praticamente nulla. Oltre ad aver iniziato la carriera militare, è assai probabile che abbia messo su famiglia, in quanto sappiamo che quattro fratelli membri di una importante famiglia dell’aristocrazia militare imperiale del XII secolo, generali di Alessio Comneno, portavano proprio il cognome “Anemas”, forse discendenti dal figlio dell’emiro di Creta.

Se di Anemas non conosciamo nulla della prima parte della sua vita, ne conosciamo piuttosto bene la parte finale, pervenutaci grazie alle parole di Leone Diacono.

Nel 970, l’imperatore Giovanni Tzimisce, successore di Niceforo Foca, si preparava a una dura campagna contro Svyatoslav di Kiev, che dopo aver conquistato parte dell’impero bulgaro con il beneplacito imperiale, si preparava a marciare direttamente contro Costantinopoli. Per rinforzare il suo esercito e in particolare i reggimenti della sua guardia personale, l’imperatore decise di creare un nuovo tagma di catafratti: gli Athanatoi (“Immortali”, probabilmente in riferimento alle guardie degli antichi Re dei Re persiani).

Anemas fu uno degli uomini scelti per far parte del nuovo tagma: avrebbe presto avuto modo di dimostrare il suo attaccamento alla causa dell’impero.

I tagmata imperiali e i catafratti

Per quanto la parola tagma (τάγμα, pl. τάγματα) comparisse già nei testi militari di VI secolo come sinonimo di numerus e bandon (i.e. unità principale dell’esercito, avente tra i 200 e i 500 combattenti), tra IX e XI secolo aveva ormai assunto un valore completamente diverso.

In questo periodo i tagmata erano infatti i reggimenti di élite dell’esercito campale romano di stanza a Costantinopoli e nei suoi dintorni, destinati anche a seguire l’imperatore durante le campagne militari. I tagmata formavano, in sostanza, la guardia personale dell’imperatore, andando a proseguire la funzione delle Scholae create durante il IV secolo, che a loro volta avevano rimpiazzato la celebre guardia pretoriana.

Al 970, data di creazione del tagma degli Athanatoi, i tagmata propriamente detti già operativi erano quattro (Scholai, Exkoubitores, Hikanatoi, l’Arithmos o Vigla), cui si affiancavano due reggimenti di fanteria di presidio a Costantinopoli (Noumera e Teichistai). Come dimostra bene la creazione degli Athanatoi, il numero di tagmata, nonché la loro composizione, poteva mutare con l’insediarsi di un imperatore o per via di contingenze storiche particolari. Basti ricordare il tagma forse più celebre di tutti, nato sotto Basilio II come τὰγμα τῶν Βαραγγίον: la guardia variaga.

Gli effettivi dei tagmata sono piuttosto incerti, e le interpretazioni delle fonti storiche a riguardo variano da studioso a studioso: da un minimo di 1000-1500 uomini a tagma, fino a 4000-5000 soldati per reggimento.

I tagmata erano normalmente composti da soldati fedelissimi all’imperatore, che mai lo avrebbero tradito. Gli Athanatoi di Giovanni Tzimisce non solo non fanno eccezione, ma nel crearli il concetto viene, se possibile, esasperato: tra i ranghi del nuovo tagma infatti trovarono posto membri del seguito personale dell’imperatore (la familia imperiale, potremmo dire), giovani membri dell’aristocrazia militare dell’Anatolia e i giovani ostaggi nobili che si trovavano nella capitale, come Anemas.

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Ricostruzione dell’equipaggiamento di un catafratto (si ringrazia Giuseppe Chiafele, autore della ricostruzione, per la foto).

A parte casi particolari come quello dei variaghi, usualmente i tagmata imperiali erano formati da catafratti, il meglio che il mondo militare romano dell’epoca potesse offrire.

Tutte le fonti, sia romane che di altri popoli, confermano chiaramente l’immagine imponente di cavalieri completamente ricoperti dall’armatura, così come i loro cavalli. La descrizione più accurata, nonché la più vicina temporalmente al periodo della creazione degli Athanatoi, è quella fornita in un trattato redatto dall’imperatore Niceforo Foca:

Ogni guerriero deve indossare un klibanion [corazza lamellare o a scaglie]. Il klibanion dovrebbe avere maniche lunghe fino ai gomiti. Dai gomiti in giù dovrebbero indossare manikelia [si intende probabilmente l’insieme di parabraccio e guanto corazzato] che – sia questi che i kremasmata [protezioni per le cosce, in forma di cosciali/”gonne” e forse anche di pteryges] che pendono dai loro klibania – dovrebbero essere dotati di zabai [pezze di cotta di maglia] e dovrebbero essere fatti di seta grezza o cotone tanto spesso quanto possa essere cucito insieme. Sopra i loro klibania dovrebbero indossare epilorikia [una ulteriore protezione imbottita che, come dice il nome, va indossata sopra alla corazza] di seta grezza o cotone. Le loro mani dovrebbero passare attraverso i tagli nelle maniche all’altezza delle spalle. Le loro maniche dovrebbero pendere dietro, sulle loro spalle. Devono avere elmi di ferro rinforzati in modo tale da coprire i loro volti con due o tre strati di zabai, così che siano a vista solo gli occhi. Dovrebbero anche indossare schinieri.

Devono avere cavalli robusti ricoperti da armature, che siano di pezzi di feltro e di cuoio bollito allacciati insieme lunghe fino alle ginocchia così che nulla sia visibile del cavallo eccetto i suoi occhi e le narici – allo stesso modo le loro zampe sotto il ginocchio e la parte inferiore dei fianchi dovrebbe rimanere scoperta – o possono avere klibania fatti di pelle di bufalo sul petto del cavallo, che dovrebbero essere separati all’altezza delle zampe e sotto per permettere il movimento senza ostacoli delle zampe. Gli uomini dovrebbero anche avere scudi per deviare le frecce.

[…] I catafratti dovrebbero avere le seguenti armi: mazze di ferro con teste completamente di ferro […] oppure altre mazze di ferro o sciabole. Tutti devo avere spade a doppio taglio. Dovrebbero tenere le loro mazze di ferro e sciabole in mano e le altre mazze di ferro o alla cintura o appese alle selle. [Da altri passi del trattato, sappiamo che i catafratti erano dotati anche di lance]”.

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Ricostruzione di un catafratto del X secolo. Si ringrazia il ricostruttore Timothy Dawson e il sito levantia.com.au per la foto

Rispetto alla descrizione di Niceforo Foca, i catafratti del tagma degli Athanatoi si distinguevano per il ricchissimo equipaggiamento, ricoperto da placcature e decorazioni in oro e argento, che dovevano sicuramente conferire a questo reparto un aspetto ancora più maestoso sul campo di battaglia.

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Appena iniziata, la campagna militare volse subito bene per i Romani, che conquistarono Pliska, Dineia e Preslav (oggi Veliki Preslav), l’ex capitale dell’impero bulgaro. Svyatoslav con i suoi decise quindi di attestarsi presso Dorostolon, davanti alle cui mura si svolse una prima, cruenta battaglia, nella quale i guerrieri della Rus’, che dalle popolazioni confinanti erano considerati pressoché impossibili da sconfiggere, dopo un lungo scontro vennero infine sbaragliati dai catafratti imperiali, tra i quali doveva esserci sicuramente anche Anemas.

Dopo questa battaglia, i Rus’ si ritirarono tra le mura di Dorostolon e i Romani vi posero l’assedio.

Dalla città i guerrieri di Svyatoslav compirono delle sortite nel tentativo di scalzare i Romani dalle loro posizioni, ma vennero continuamente respinti dai catafratti dei tagmata imperiali.

Negli scontri che seguirono l’inizio dell’assedio, Anemas e il suo indomito coraggio emergono con grande forza dalle parole di Leone Diacono. In una prima occasione, si distinse per aver ingaggiato uno scontro con il secondo in comando dell’esercito di Svyatoslav, un guerriero di nome Ikmor.

Così Leone Diacono: “[…] i Rus’ si fecero avanti dalla città il giorno successivo, e formarono i loro ranghi sul campo di battaglia; e anche i Romani erano schierati in ordine chiuso e in una formazione profonda, e andarono ad affrontarli. A questo punto Anemas, una delle guardie del corpo imperiali e figlio dell’emiro dei Cretesi, vide Ikmor, secondo in comando dell’esercito scitico [Rus’] dopo Svyatoslav e inferiore solo a lui, un uomo grande e vigoroso, che stava furiosamente attaccando con una compagnia di fanteria al suo seguito, uccidendo un gran numero di Romani; e Anemas fu incitato dal suo innato coraggio, ed sguainò la spada che pendeva al suo fianco e girò il suo cavallo da questa e da quella parte, e lo incitò con gli speroni, e avanzò contro Ikmor. Lo sorprese e lo colpì al collo; e la testa dello Scita e il braccio destro mozzati caddero a terra.”

Avendo visto morire sotto la spada di Anemas quello che probabilmente ritenevano il loro guerriero più forte e valoroso dopo Svyatoslav, i Rus’ non poterono fare altro che fuggire verso Dorostolon, col morale a pezzi, venendo uccisi in gran numero dai Romani lanciati all’inseguimento. Grazie al singolo gesto di coraggio di Anemas, la giornata era dell’esercito imperiale.

Dopo la ritirata a Dorostolon, i Rus’ valutarono se tentare la fuga dalla città durante la notte, incontrando però la ferma opposizione di Svyatoslav: “Perché non è nostra usanza tornare in patria da fuggitivi, ma piuttosto di essere vittoriosi e vivere, o di morire gloriosamente, dopo aver compiuto imprese degne di uomini coraggiosi”, disse secondo Leone Diacono.

Così i Rus’, in un grande atto di coraggio, il giorno dopo la morte di Ikmor uscirono dalle mura di Dorostolon con tutte le loro forze guidati da Svyatoslav in persona, tentando il tutto per tutto e schierandosi in un fortissimo muro di scudi. I Romani, guidati dall’imperatore, uscirono dal campo per affrontarli.

I Rus’ attaccarono con grande ferocia, mettendo in grande difficoltà i Romani. Mentre la battaglia infuriava, forse memore dell’azione compiuta il giorno precedente, Anemas vide l’occasione di vincere nuovamente la battaglia con un colpo solo, abbattendo il leader dell’esercito Rus’. Così, con eroico coraggio e circondato dai nemici, si lanciò da solo contro Svyatoslav, andando però incontro al suo destino.

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L’ultima impresa di Anemas, nella meravigliosa tavola di Giorgio Albertini per “The Eastern Romans 330-1461 AD” di Raffaele D’Amato

Così racconta Leone Diacono l’ultima impresa di Anemas: “Una volta scoppiata la battaglia, gli Sciti attaccarono vigorosamente i Romani, tormentandoli con giavellotti e ferendo i loro cavalli con dardi, e abbattendo i loro cavalieri a terra. A questo punto Anemas, che si era distinto il giorno precedente uccidendo Ikmor, vide Svyatoslav caricare con furia i Romani e incoraggiare i suoi reggimenti; [Anemas] spronò il suo cavallo (poiché era abituato a fare così, avendo prima ucciso molti Sciti in questo modo) e galoppando a briglia sciolta cavalcò verso di lui e lo colpì al collo con la sua spada, gettandolo a terra, ma non lo uccise; poiché Svyatoslav era protetto dalla sua cotta di maglia e dallo scudo con cui era equipaggiato, per paura delle lance romane. E seppure circondato dall’esercito scita, e il suo cavallo fosse stato abbattuto da innumerevoli colpi di lancia, Anemas uccise molti Sciti, ma finì poi egli stesso ucciso, un uomo sorpassato da nessuno della sua età per gli atti valorosi sul campo di battaglia.”

L’uccisione di Anemas incoraggiò i Rus’ a tal punto che i Romani, caricati con rinnovato e inusitato vigore dai nemici, iniziarono a ritirarsi. Soltanto la carica dell’imperatore in persona (e, dicono le fonti, l’intervento di San Teodoro) ristabilì le sorti dello scontro, che fu infine vinto dall’esercito imperiale. Svyatoslav si sarebbe arreso il giorno dopo, conscio che le sue forze decimate non avrebbero potuto affrontare nuovamente guerrieri come il giovane Anemas.

Anemas, uno dei pochi guerrieri che in Leone Diacono è citato per nome, con il suo indomito coraggio è la migliore rappresentazione di ciò che continuavano a essere i soldati romani nello spirito e nella ferocia guerriera che sapevano dimostrare sul campo di battaglia.

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Bibliografia

Fonti

“The History of Leo the Deacon. Byzantine Military Expansion in the Tenth Century”, tr. A.M. Talbot, D.F. Sullivan

“John Skylitzes. A Synopsis of Byzantine History, 811-1057”, tr. John Wortley

Letteratura

D’Amato R., “The Eastern Romans 330-1461 AD”, Hong Kong 2007

D’Amato R., “Gli Athanatoi, guardia del corpo dell’imperatore Giovanni Tzimiskès”, in “Porphyra”, 9, pp. 53-82

Kazhdan A.P. (a cura di), “The Oxford Dictionary of Byzantium”, Vol. I, Oxford 1991

Treadgold W., “A History of the Byzantine State and Society”, Stanford 1997.


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