
La battaglia di Capo Bon, combattuta davanti alle coste africane in mano vandala nel 468, è una sconfitta romana quasi dimenticata, che però segna un punto di svolta cruciale della Storia romana.
Questa disfatta, che vide messa insieme la più imponente flotta da guerra romana mai assemblata nella Storia, segnò infatti la perdita dell’Africa, che rimarrà in mano ai barbari per i successivi sessant’anni.

Un impero nel caos.
Poco dopo la metà del V secolo d.C., la situazione politica dell’impero romano era a dir poco caotica.
Gli imperatori sulle due parti dell’impero dovevano sottostare alla ingombrante presenza di magistri militum di origine germanica, che di fatto dirigevano la politica imperiale. A Oriente, dopo la morte dell’imperatore Marciano nel 457, il magister militum di origine alana Aspar fece assurgere al seggio imperiale un tribuno delle sue unità militari, Leone I (pare, però, dopo aver rifiutato la carica imperiale per se stesso). Leone I, detto il Trace, si rivelò ben presto un sovrano poco incline alla tutela di Aspar, tanto da cercare dalla metà degli anni ’60 del V secolo l’appoggio delle truppe isauriche, guidate da Tarasicodissa, che sarà più tardi conosciuto come Zenone.
A Occidente la situazione era molto più tragica e complicata. La politica imperiale era del tutto in mano al magister militum et patricius Ricimero, di origine sueba. Questi nel 461 aveva fatto assassinare Maggioriano, troppo indipendente e pieno di iniziativa per i suoi gusti, nonché con visioni del tutto opposte. Dove Ricimero era interessato alla sola penisola italica, Maggioriano aveva voluto ristabilire l’autorità imperiale anche sul resto del continente.
L’assassinio dell’imperatore in Occidente aveva avuto un effetto destabilizzante, portando i generali fedeli a Maggioriano a non riconoscere l’autorità di Ricimero. Il magister militum per Gallias Egidio, e con lui il figlio Siagrio, rese di fatto indipendente l’ultima enclave romana delle Gallie, conosciuta in seguito come Dominio di Siagrio, o di Soissons. In Dalmazia, il comes Marcellino, uno dei maggiori politici e militari del suo periodo, già seguace di Flavio Ezio e vecchio compagno d’armi di Ricimero stesso, si era reso una vera e propria minaccia militare, bloccato a fatica dall’attaccare l’Italia solo per intercessione di Leone.
Alla confusione politica, si aggiungeva la disastrosa situazione territoriale. Il territorio imperiale (in particolare in Occidente, ma anche in Oriente) era stato in grossa parte invaso da popolazioni germaniche, oppure occupato da popolazioni formalmente stanziate come foederati dell’impero, ma che si erano ormai costituite a regni indipendenti. Il popolo dei Vandali, guidato da Genserico, era quello che più di tutti gli altri era diventato una minaccia alla sicurezza dell’impero, nonché alla sopravvivenza dell’autorità imperiale in Occidente.
Genserico era il nemico più pericoloso per Ricimero. Il re vandalo, già responsabile del secondo sacco di Roma nel corso del solo V secolo, nel 455, era infatti ormai a capo di un popolo che si era dato alla pirateria in modo pressoché incontrastabile, rendendo la navigazione nel Mediterraneo occidentale pericolosa, e non lasciando costa dell’Occidente, in particolare di Italia e Sicilia, esente da saccheggi.

Scegliere un imperatore d’Occidente: una contesa a tre
Dopo il 461, la situazione si complicò ancora di più. A Ricimero non importava forse molto di avere un altro imperatore in Occidente, accontentandosi di agire come reggente semi-indipendente formalmente sotto l’egida dell’imperatore Leone.
Genserico era invece di tutt’altro avviso, e aveva tutte le carte giuste da giocare.
Durante il sacco di Roma del 455, il re vandalo aveva infatti potuto portare con sé a Cartagine le ultime discendenti rimaste della dinastia di Teodosio, Eudocia e Placidia. Aveva sposato la prima al figlio Unnerico, e la seconda era maritata ad Anicio Olibrio, suo ostaggio in Africa ed esponente dell’aristocrazia senatoria italica.
Proprio quest’ultimo diventò il candidato di Genserico sul seggio imperiale in Occidente, ma senza l’approvazione di Costantinopoli non se ne poteva far nulla. Forse Aspar tentò di convincere Leone ad assecondare le richieste del re vandalo, ma l’imperatore a Costantinopoli si oppose, richiedendo prima di tutto che le due donne della famiglia imperiale di Teodosio venissero rimandate all’interno del territorio imperiale.
Da parte sua, Ricimero non poteva rimanere in disparte, rischiando di perdere la sua posizione. Per contrastare le mire di Genserico, il suebo si vide costretto nel 461 a far assurgere alla porpora un imperatore da lui scelto, l’oscuro senatore lucano Libio Severo. L’imperatore di Ricimero non solo non venne riconosciuto in Oriente (o meglio, non si tenne nemmeno conto di tale incoronazione), ma non era tenuto in gran considerazione nemmeno dal patricius suebo.
Genserico vide il gesto di Ricimero come un affronto inaccettabile, e per tutto il regno di Libio Severo intensificò gli attacchi contro Italia e Sicilia. Nel mentre, forse per mostrare le sue buone intenzioni a Leone, inviò a Costantinopoli Olibrio e la moglie Placidia: se anche aveva perso il suo candidato sull’Occidente, poteva continuare a reclamare territori, visto il matrimonio del figlio Unnerico con Eudocia.
Nel 465 Libio Severo morì, alcuni sostengono avvelenato proprio da Ricimero. Il patricius, esasperato dalla situazione creata da Genserico e sempre più sotto pressione per possibili attacchi da parte di Marcellino o Egidio, decise finalmente di scendere a patti con Leone, con il quale iniziarono trattative per decidere chi porre come imperatore in Occidente.

Intanto, l’imperatore in Oriente ordinò a Marcellino di non attaccare Ricimero e di supportarlo nella lotta navale contro i barbari, togliendo una poderosa spina nel fianco al patricius. Ma di una campagna contro i Vandali non si parlò fino al 467, quando i guerrieri di Genserico si spinsero ad attaccare il Peloponneso (dove vennero comunque sconfitti in un paio di occasioni).
Ci voleva finalmente stabilità anche in Occidente, per cui Leone impose un imperatore a Ravenna che collaborasse attivamente con lui, il capace ed esperto Procopio Antemio, già magister militum e patricius, vittorioso su Goti ed Unni tra 453 e 455. Un uomo che aveva perso il seggio imperiale a Costantinopoli nel 457 solo per il veto di Aspar (che tra l’altro era decisamente in disaccordo nei confronti della campagna vandalica).
Nel 467, Procopio Antemio veniva solennemente celebrato e proclamato a Roma, riconosciuto imperatore in Occidente da Romani e barbari. Ricimero ricevette in sposa la figlia di Procopio Antemio, ma c’è da dubitare che fosse davvero soddisfatto: il nuovo imperatore non era certo persona da lasciarsi facilmente manovrare, e per di più il suo più acerrimo avversario, Marcellino, era stato elevato al rango di patricius, mettendo ulteriormente in bilico la sua preminenza.
Leone inviò ambascerie a Genserico, intimandogli di lasciare Italia e Sicilia se non avesse voluto essere aggredito dagli eserciti orientali e occidentali dell’impero: minacce che si tramutarono in breve in realtà.
I Romani radunano le forze
Nel 468 fu messa insieme una forza imponente per schiacciare in modo definitivo il regno dei Vandali, con spese da capogiro. Anche gli imperatori stessi decisero di mettere denaro di tasca propria ai fini della campagna (per un totale che supera di gran lunga, a prescindere dalla fonte di riferimento, le 100.000 libbre d’oro e le 700.000 libbre d’argento).
Venne messa insieme la più grande flotta romana che avesse mai solcato il Mediterraneo: 1113 vascelli tra navi da carico e da guerra, con tra 50.000 e 100.000 uomini a bordo. Le navi da guerra dovevano essere per la stragrande maggioranza liburne, anche se non è da escludere che fossero già presenti i primi dromoni.
Quella del 468 non fu la prima spedizione contro i Vandali. Già Maggioriano, durante la sua riconquista della Spagna nel 459, aveva allestito una flotta per porre fine al regno di Genserico, per quanto non imponente come quella destinata alla spedizione del 468. Quest’ultimo però, anche grazie a traditori romani, riuscì a distruggere la flotta di Maggioriano ancora attraccata in Spagna, presso Portus Illicitanus. Maggioriano fu costretto a ritirarsi e ad accettare le proposte di pace umilianti di Genserico, che sancirono il suo dominio effettivo sulla Mauretania.
Ciò che può stupire è che dai comandi vennero lasciati fuori tutti i principali protagonisti della politica imperiale. A Occidente il comando fu affidato a Marcellino, mentre Procopio Antemio e Ricimero, sperimentati comandanti, si fecero da parte, probabilmente per non perdere di mano la situazione in Italia. È anzi quasi certo che Ricimero rifiutò qualsiasi comando: nonostanze avesse già battuto sia per mare che per terra i Vandali nel 456, il grande spostamento di truppe che la campagna avrebbe prodotto avrebbe messo in pericolo l’unico territorio che gli importasse controllare, l’Italia. In più, vista la nuova situazione politica, un fallimento della grande impresa anti-vandalica andava probabilmente a suo vantaggio.
Fu però da parte della corte di Costantinopoli che si fecero le scelte che, più di tutte le altre, misero in pericolo l’esito della campagna. Il comando della flotta della pars Orientis, nonché dell’intera spedizione, finì nelle mani dell’inetto Basilisco, cognato dell’imperatore. A questa scelta dovette contribuire Aspar, da sempre contrario all’impresa e ormai stanco dell’indipendenza di Leone: se l’impresa africana fosse fallita, avrebbe potuto con più facilità rovesciare finalmente l’imperatore.
Una delle più grandi e importanti spedizioni militari della storia dello Stato romano era quindi messa in pericolo sin da prima dell’inizio della campagna, per calcoli politici personali che guardavano ben poco all’interesse dell’impero.
La campagna vandalica: il cerchio si stringe su Genserico
La grande campagna militare contro i Vandali si sarebbe sviluppata su tre direttrici diverse, due via mare e una via terra, per stringere in una morsa mortale Genserico e i Vandali.

Marcellino si sarebbe dovuto muovere a per riconquistare le isole tirreniche di Sardegna e Corsica, per poi passare alla Mauretania; Basilisco con la sua parte di flotta sarebbe dovuto passare per la Sicilia, dunque avanzare sulla stessa Cartagine; infine, un esercito di terra, del quale non conosciamo le dimensioni, guidato dal prefetto Eraclio e da Marso, un Isauro, avrebbe marciato dall’Egitto fino all’Africa vandala.
Per quanto non nel modo del tutto sperato, le operazioni procedettero piuttosto bene.
Marcellino conquistò senza difficoltà la Sardegna (forse lasciata appositamente sguarnita da Genserico, che possiamo immaginare volesse concentrare le sue forze in Africa), ma non potè sbarcare in Mauretania: i Vandali ne avevano fatto terra bruciata, e avevano aizzato i Mauri contro i Romani. Impossibilitato a portare qualunque azione via terra, Marcellino non potè fare altro che ricongiungersi al resto della flotta. L’esercito di terra di Eraclio e Marso avanzò senza difficoltà fino a Tripoli, da dove diventò una minaccia più che concreta per Cartagine.
Basilisco fu attaccato più volte dai Vandali presso la Sicilia, ma furono respinti a più riprese dai vascelli imperiali. Basilisco, nonostante i successi, temporeggiava.
Invece di muovere subito all’attacco contro l’Africa, assunse un atteggiamento passivo e, anzi, iniziarono trattative di pace incomprensibili verso Genserico.
Infine, nell’estate del 468, finalmente Basilisco si decise a far muovere la flotta su Cartagine. Basilisco, considerandola la posizione più protetta, decise di far attraccare la flotta presso le scogliere di Promontorium Mercurii, l’odierno Capo Bon.
La disfatta di Capo Bon
Genserico era sempre stato un uomo assennato: gli ci volle poco a capire che la sua posizione, con una tale forza navale alle porte e un esercito di terra in arrivo, era disperata. Ma Genserico non era mai stato tipo da arrendersi.

Inviò quindi una richiesta di tregua di cinque giorni a Basilisco, con la richiesta che gli fosse concesso quel tempo per definire i termini di sottomissione a Leone. La cosa più incredibile è che Basilisco, invece di proseguire l’offensiva e cancellare il regno vandalo, accettò la proposta.
Genserico aveva in realtà guadagnato tempo prezioso per mettere in atto la sua controffensiva, che oltre che sull’ingenuità e incapacità di Basilisco, si basava su una scommessa rischiosa: avere il vento a favore.
Passarono quattro giorni, durante i quali Genserico fece tutti i preparativi all’insaputa dei Romani, ancora attraccati presso Capo Bon, ma con il vento che continuava a soffiare da est, completamente al contrario di quanto Genserico voleva.
Nel tardo pomeriggio del quinto giorno, quando forse il re iniziò a pensare di arrendersi, la fortuna girò a suo favore: il vento iniziò a spirare da ovest a est.
Genserico mise in campo la sua arma segreta, preparata senza sosta nel corso degli ultimi quattro giorni: una flotta di 75 chiatte riempite di pece e altro materiale incendiario. Genserico si mise in mare con le chiatte e tutte le sue navi da guerra (non ne conosciamo purtroppo il numero) e avanzò contro la flotta romana, del tutto all’oscuro di quanto stava per accadere. Una volta aggirato il promontorio, Genserico ordinò di incendiare le chiatte e lasciare che il vento facesse il resto.
Era ormai l’imbrunire. Dobbiamo immaginare i Romani nel più totale sconcerto, nel vedere accendersi tra le ultime luci della sera quelle fiaccole galleggianti, e vederle avanzare verso le loro navi senza che potessero portare in salvo le navi.
In poco tempo, le chiatte di Genserico cozzarono nelle liburne romane. Il fuoco si dovette propagare con una velocità inaudita, considerato il vento e il fatto che i vascelli imperiali dovevano essere tutti ormeggiati gli uni vicini agli altri.
Così descrive la scena Procopio di Cesarea: “E come il fuoco avanzò in questo modo la flotta romana cadde in agitazione, com’era naturale, e un gran baccano rivaleggiò col rumore causato dal vento e dal crepitare delle fiamme, mentre i soldati insieme ai marinai urlavano ordini l’uno all’altro, e spingevano verso il mare aperto con i loro timoni le navi incendiare e i loro stess vascelli, che stavano distruggendo l’un l’altro nel più completo disordine”.
Quando iniziò il disastro, Basilisco stava cenando. Prima di mobilitare i suoi uomini, pur avvertendo la puzza di bruciato, volle concludere il pasto.
A seguire le chiatte incendiare, sulla flotta romana piombarono le navi vandale cariche di guerrieri, che diedero l’assalto a quanto restava della flotta romana, o ai vascelli in fuga. Marcellino riuscì a salvare le proprie navi dal fuoco solo perché era attraccato leggermente più in disparte, ma in gran parte caddero nelle mani dei Vandali. Con le navi che gli rimasero, riuscì a raggiungere la Sicilia.
Basiliscio è quasi certo che non provò neppure una controffensiva. Manovrò per togliere se stesso e i vascelli che potè radunare da quell’inferno, e passò anch’egli in Sicilia.
La spedizione navale più grande mai organizzata dallo Stato romano, era stata uno dei più grandi e tragici disastri militari della Storia romana.

Dopo Capo Bon: un mondo in tumulto
Visto il completo fallimento della spedizione navale, l’esercito di terra fu costretto a rientrare in Egitto: senza la flotta, era impensabile poter porre l’assedio a Cartagine.
Marcellino, approdato in Sicilia, trovò quasi subito la morte, per mano di un suo subalterno. Non vi sono dubbi che dietro vi fosse la longa manus di Ricimero, che finalmente riusciva a sbarazzarsi del suo più acerrimo nemico.
Procopio Antemio durò ancora qualche anno, prima di entrare in scontro diretto con Ricimero, che lo vinse nel 472 (mettendo al sacco, per l’ennesima volta nella sua storia, Roma). Prima di morire per un malore, proprio in quell’anno, Ricimero fece ancora in tempo a mettere sul trono di Occidente un suo ultimo, effimero imperatore fantoccio: proprio quell’Olibrio che Genserico aveva tentato di fare suo candidato per il seggio imperiale.
Per quanto riguarda la Pars Orientis, Basilisco evitò di finire ammazzato solo per intercessione della sorella presso Leone, che si limitò quindi a esiliarlo in Tracia. Sette anni dopo Capo Bon riuscì persino ad assurgere alla porpora, solo per essere destituito e ucciso solo dopo un anno e mezzo dall’isauro Tarasicodissa/Zenone, l’imperatore del quale aveva usurpato il trono.
Zenone fu anche il responsabile della morte di Aspar. Nel 471, la rottura tra l’alano e l’imperatore era ormai insanabile. Leone lasciò così che Zenone, in quell’anno magister militum praesentalis, lo uccidesse.
Genserico ebbe modo di recuperare al suo dominio la Sardegna e la Corsica, che rimarranno ai Vandali fino all’avvento degli Ostrogoti in Italia. Il re vandalo, consolidato e messo finalmente al sicuro il suo regno, morì nel suo letto in età avanzata, nel 477.
Se non fosse stato per le trame politiche e i giochi di potere, e se non fosse stato un inetto come Basilisco a guidare la spedizione (e, del resto, se non avesse avuto un avversario come Genserico), la campagna del 468 avrebbe senza dubbio portato alla sconfitta totale dei Vandali.
Ne è riprova il fatto che, appena sessant’anni dopo, nel 533, al generale Belisario bastarono quindicimila uomini e una fulminante campagna di un anno per cancellare il regno dei Vandali dalla Storia.

Bibliografia (clicca i link per acquistare la tua copia del libro)
D’Amato R., “Imperial Roman Warship 193-565 AD”,
Frediani A., “L’ultima battaglia dell’impero romano.”
Articolo molto interessante e ben scritto! Ottime anche le mappe. Complimenti!
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Grazie! Sulla scrittura, ammetto che in gran parte ha influito come è scritto il libro di Frediani che ha ispirato questo articolo, che è ottimamente scritto (come ha detto qualcuno di lui, è un eccellente narratore di battaglie).
Grazie anche per le mappe, sono contento che piacciano!
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Bell’articolo ma la mappa dell’impero è sbagliata, non ritrae la situazione del 468 ma quella del 473 o poco dopo.
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Ciao, quali sarebbero gli errori principali che vedi? Per realizzarla aveva utilizzato una serie di mappe concernenti il periodo in esame, ma se c’è possibilità di correggere, ben volentieri!
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